Anche Pechino si prepara alle sue “operazioni militari speciali”

Giulia Pompili

Si introduce la possibilità legale di svolgere “operazioni militari diverse dalla guerra” in un periodo di profonde tensioni internazionali, dopo l’inizio della guerra d’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, e la pressione che incombe sull’isola di Taiwan. Ieri anche il colloquio tra Jake Sullivan e il consigliere di stato Yang Jiechi

Il presidente cinese Xi Jinping ha promulgato ieri una serie di ordinanze che da oggi danno cornice legale alle “operazioni militari diverse dalla guerra” della Cina. Secondo l’agenzia statale cinese Xinhua, si tratta di 59 articoli e sei capitoli che “mirano a proteggere la vita e le proprietà delle persone, salvaguardare la sovranità nazionale, la sicurezza e l’interesse allo sviluppo e salvaguardare la pace nel mondo e la stabilità regionale”. L’azione cinese arriva in un momento molto particolare della leadership di Pechino, a pochi mesi da uno degli eventi più rilevanti a livello politico, cioè il cruciale Congresso nazionale del Partito comunista dell’autunno 2022, che dovrebbe riconfermare Xi Jinping alla guida del Partito per un inedito terzo mandato. Ma la possibilità legale di svolgere “operazioni militari diverse dalla guerra” viene introdotta anche in un periodo di profonde tensioni internazionali, dopo l’inizio della guerra d’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, e la pressione che incombe sull’isola di Taiwan – l’isola de facto indipendente che la Cina rivendica come proprio territorio.  Secondo un esperto militare cinese anonimo che ha parlato con il tabloid in lingua inglese (dunque diretto a una propaganda esterna) Global Times, per “operazioni militari diverse dalla guerra” si definiscono operazioni “che non comportano la guerra, per esempio i soccorsi in caso di calamità e gli aiuti umanitari, nonché quelle operazioni che limitano la scala dell’uso della forza come la scorta marittima e il peacekeeping”. Ma nelle linee guida si legge in modo molto chiaro, come riporta la Xinhua, che l’obiettivo delle operazioni militari è anche quello di “prevenire e neutralizzare rischi e sfide” e “salvaguardare la sovranità nazionale, gli interessi di sicurezza e sviluppo e la pace mondiale e la stabilità regionale”. I soldati cinesi potranno quindi essere mandati in missione fuori dai confini nazionali per prevenire eventuali rischi d’instabilità che hanno conseguenze anche sulla Cina e sui suoi interessi nazionali, e per mettere in sicurezza “il trasporto di materiale strategico come il petrolio”, si legge, oppure “investimenti cinesi all’estero”. Dopo la diffusione della notizia, diversi analisti hanno fatto riferimento a Taiwan, paragonando l’ordine di Xi con l’“operazione militare speciale” di Vladimir Putin per “denazificare” l’Ucraina. 

 


Una prima conseguenza, questa ordinanza, ce l’ha: dovrebbe essere considerata definitivamente conclusa l’epoca della Cina chiusa in se stessa, la potenza che non si occupa di quel che succede fuori dai suoi confini seguendo il principio di non interferenza “in conformità con i Cinque principi della coesistenza pacifica” (che sono perfino menzionati nel preambolo della Costituzione cinese e sono: rispetto reciproco della sovranità e dell’integrità territoriale, non aggressione reciproca, non interferenza negli affari interni reciproci, uguaglianza, reciproco vantaggio e convivenza pacifica). Se ne parla già da tempo, del fatto che il principio di non interferenza cinese fosse sempre stato un mito, ma oggi il cambio di paradigma delle Forze armate cinesi – che possono uscire dai confini per proteggere gli interessi cinesi all’estero – cambia anche dalla base la politica estera dichiarata fino a oggi dai funzionari di Pechino. 

 


Taiwan continua a essere, come l’Ucraina, al centro delle discussioni di sicurezza. E’ anche di Taiwan che hanno parlato ieri in Lussemburgo il consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Joe Biden, Jake Sullivan, e il consigliere di stato cinese nonché membro del Politburo Yang Jiechi, che continuano a portare avanti i loro segretissimi colloqui. L’ultima volta si erano sentiti al telefono a maggio, e due mesi prima si erano incontrati a Roma. Qualche giorno fa, per la prima volta a Singapore si sono incontrati il ministro alla Difesa cinese Wei Fenghe e la sua controparte americana Lloyd Austin. Quest’ultimo aveva denunciato “un costante aumento dell’attività militare provocatoria e destabilizzante vicino a Taiwan” da parte della Cina. Ma ormai, la questione di Taiwan, è diventata un simbolo internazionale. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky , intervenendo sabato scorso al Summit di Singapore, ha detto che al mondo ci sono “certi leader” che continuano ad aumentare “il loro appetito e le loro ambizioni”, e per questo la comunità internazionale dovrebbe essere al fianco di Taiwan e “non lasciarla alla mercé di un altro paese”.

  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.