I cento giorni di Zelensky, il presidente nato in una notte

Micol Flammini

Il vortice delle prime ore di guerra e le rughe che non c’erano e che raccontano resistenza e tragedia

La notte del 24 febbraio, Volodymyr Zelensky la ricorda come un vortice. Scintille, confusione, schizzi, momenti trascorsi a capire dove iniziasse la realtà e dove finisse l’incubo.  Fino al momento in cui è andato a svegliare i suoi figli e ha dovuto mettere in ordine le parole e i pensieri per dare   loro la spiegazione che poi avrebbe dato a tutti gli ucraini: la Russia ci ha attaccati, siamo in pericolo. Quel momento, quella notte di scintille e corse con addosso una paura mai provata prima, è stato il momento in cui Volodymyr Zelensky è diventato il presidente dell’Ucraina. In pochi avevano fiducia in lui, in molti lo guardavano storcendo il naso quando se la prendeva con l’allarmismo americano, convocava conferenze stampa con fare capriccioso per dire ai giornalisti che non aveva senso parlare di un attacco imminente da parte di Mosca, lui e il suo staff sapevano che non c’era da preoccuparsi, che l’Ucraina cresceva, era sicura, che  andarsene o spostare le ambasciate era folle: gli americani, diceva, con il loro panico, stavano danneggiando il paese. Sembrava giocare, sembrava il presidente comico, il finto capo di stato molto amante della sua carica e poco dei compiti da svolgere. 

 

Sbarbato, agile, sempre sorridente, tranne quando si trovava davanti ai rivali politici, era il presidente giovanissimo di una democrazia giovanissima, e anche problematica, come sempre è la gioventù. Per lui e per l’Ucraina, la giovinezza è finita in una notte, tra le scintille, le corse, il pericolo diretto alla nazione e a lui stesso: la prima cosa che gli dissero  il 24 febbraio fu  che i russi erano arrivati a Kyiv per uccidere lui e la sua famiglia. In molti, in Ucraina, si sarebbero aspettati la sua fuga. Ma lui è rimasto, pronunciando la frase ormai scolpita nel Dna ucraino: ho bisogno di munizioni, non di un passaggio. 

 

La giovinezza di Zelensky è finita in una notte e da quel momento il suo volto si è stravolto: la barba sempre sfatta, la voce bassa, le rughe che soltanto cento giorni fa non c’erano e sono il segno delle notti insonni, perché è durante la notte che la guerra si fa più spaventosa. Perché la notte il resto del mondo spegne la tv, dimentica i social, e la guerra finisce, mentre per Zelensky e per gli ucraini non finisce mai, per gli altri scompare non appena si chiude lo schermo. Sa che per il mondo lui è un volto stanco, segnato, invecchiato da una saggezza che, per sua ammissione, non ha mai voluto. E’ una saggezza legata al numero dei morti, al conto delle bombe, alle torture scoperte a Bucha quando gli è passata la voglia di negoziare con Mosca, ma sapeva di non poter smettere davvero. Una saggezza che non ha mai cercato, che si è ritrovato addosso, con cui convive, ma che il resto del mondo può smettere di guardare quando vuole. Non si pente mai di aver deciso di diventare presidente, non se ne è pentito neppure la prima notte di guerra, quando è diventato un tutt’uno con gli ucraini, il capo di stato e il capopopolo, il “servo del popolo”.

 

Quando ha tolto la giacca e la cravatta e si è infilato la mimetica e ha capito che il cambiamento del mondo passava da lì: dall’Ucraina, una nazione che in tanti stavano scoprendo in quel momento. Nella prima fase della guerra Zelensky è stato il cuore della nazione, lui, i suoi collaboratori, gli ucraini, tutti parte di un unico ingranaggio, armonico, deciso, compatto. Della sua noia, vizio della presidenza che non tratteneva neppure durante le conferenze stampa, non c’era più traccia, c’era invece l’empatia e la decisione di un uomo disposto a tutto per vincere: perché vincere per gli ucraini vuol dire sopravvivere. Ha improntato una strategia fatta di solidarietà alla sua nazione e di appelli ai suoi partner internazionali, miriadi di parole, centinaia di discorsi. La fortuna dell’Ucraina è stata scommettere tre anni fa su un attore come presidente, un uomo che più di chiunque altro aveva la capacità di catturare e mantenere l’attenzione del mondo, ora sa che da quell’attenzione dipenderanno la vita e la morte della sua nazione. Non ha avuto il tempo di imparare l’arte della diplomazia, è diretto, brutale, scuote, non demorde, attacca, chiede, pretende armi e aiuti. Se ottiene, l’Ucraina ha speranza, se non ottiene, la Russia vincerà la guerra. 

 

Nella tragedia, gli ucraini e il loro presidente hanno imparato a scovare le opportunità e così Zelensky non è diventato soltanto il presidente della guerra, ma anche quello della ricostruzione, di un paese devastato che pensa a ricostruire, che progetta, che promette agli europei: noi saremo come voi, dateci l’opportunità, non c’è battaglia più europea di quella per cui stiamo morendo. La seconda fase della guerra per Zelensky è arrivata invece lentamente. Non è stata una scintilla, è stata un’ombra che si estendeva sul Donbas, negli spazi vasti, sopra le teste dei soldati  stanchi per gli otto anni di guerra già combattuti. E’ arrivata la prima sconfitta, la caduta di Mariupol, è arrivata una Russia che non era più possibile raccontare con ironia, in una cartolina con il dito medio alzato, perché era un esercito metodico e martellante, logorante. Zelensky ha mostrato un’altra faccia, diversa perché più saggia di prima se possibile, più marcata: il volto di un presidente che sa che la prima fase delle imprese impossibili potrebbe essere finita, che potrebbero esserci rinunce da fare per la fine della guerra. Sa che lui non può farne perché gli ucraini uccisi, deportati, torturati non ne vogliono. Teme che inizino le divisioni e le combatte, non sempre in modo ortodosso: caccia chi non funziona, vuole che il suo paese continui a essere un ingranaggio compatto, unito, armonioso. E’ a capo di un paese che corre, corre, corre, ma prima o poi dovrà fermarsi, dovrà ragionare sul senso di questi cento giorni che diventeranno sempre di più. Dovrà ricostruire e tracciare un nuovo cammino e convincere gli ucraini che vale la pena percorrerlo insieme e  ci sarà il conto dei suoi errori e  l’attesa di ogni sbaglio.  Kyiv sta cambiando sotto i suoi occhi ancora una volta e lui,  che si è ritrovato a essere un  presidente di guerra, pur non volendolo, cerca  il suo posto e quello di tutta l’Ucraina nella pace.

  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.