I cento giorni del metodo Putin, la guerra senza regole
Bombe sui civili, fame, deportazioni, stupri, razzie e annessioni. Il presidente russo scommette ancora sul tempo
L’avevamo guardato ma non l’avevamo visto, Vladimir Putin. E sì che sono anni che cuce insieme la sua strategia revanscista e ci mostra orgoglioso la sua tela, che sia un pezzo d’Ucraina, un porto della Siria, una parte della Libia, un confine con la Georgia o il Mali desertico. Putin non ci ha nascosto la sua volontà: finge sui mezzi, non sui fini. Ma noi lo abbiamo guardato e non l’abbiamo visto, come se avessimo un riflesso davanti agli occhi costruito in tutti gli anni successivi al crollo del Muro di Berlino: il progresso, la prosperità avranno la meglio sugli istinti imperialisti, nazionalisti, di guerra, meglio costruire che distruggere. E invece no, Putin si è sottratto (anche) a questa regola di convivenza e ha scelto la distruzione, accusandoci di aver tradito noi dei patti, di averlo accerchiato con la pressione della Nato, messo sulla difensiva e in un angolo. Oggi sappiamo che Putin ha invaso l’Ucraina proprio perché non era nella Nato e che adesso sì che sta scoprendo che cosa vuol dire stare nell’angolo, disaccoppiato dall’occidente. Ma la guerra, quella, Putin continua a farla con il metodo che ha testato ovunque abbia appoggiato i suoi occhi rapaci.
Cento giorni fa, il presidente russo ha pensato che fosse arrivato il momento giusto per sferrare il suo attacco e poiché vive nella stessa bolla di bugie e di manipolazioni in cui costringe il suo popolo, ha pensato che la questione si sarebbe risolta in poco tempo, e con il massimo risultato, cioè con l’annessione di fatto, tramite colpo di stato a Kyiv, dell’Ucraina. Non ha calcolato che il suo esercito non era forte come gli sembrava (mentire ai propri soldati non è una buona idea) né era rifornito come sembrava (una colonna di carri armati con le prime file di sfondamento senza carburante sufficiente non è una buona idea), e non ha calcolato che l’esercito ucraino fosse molto diverso da quello del 2014 (puoi tenere un paese in guerra per otto anni e pensare che non si organizzi?) e che Volodymyr Zelensky non fosse come il filorusso Yanukovich: non scappa. Errori di questo tipo avrebbero fatto cadere qualunque leader: a nessuno, anche ai più fedeli, piace essere guidati in imprese straordinarie da un incapace. Invece Putin non è caduto, non è stato fatto cadere, nonostante le defezioni, le critiche, le speranze, la malattia e gli attentati anche, come dice l’intelligence americana, perché nella tela che ha cucito c’era un sistema che aveva eliminato con la forza ogni forma di dissenso organizzato, che fosse quello dell’opposizione o quello interno al regime. E’ in questa tenuta che sta il rischio più grande che corriamo in questo conflitto, da qui in avanti.
Poi c’è la guerra combattuta, la volontà sterminatrice di sconvolgere un’intera nazione con le bombe, la fame, le deportazioni, le bugie e il disprezzo assoluto per gli esseri umani. In questi cento giorni abbiamo visto qui, di fianco a casa nostra, come fa la guerra Putin. Non che ci fosse qualcosa di inedito: bastava guardare che cosa ha fatto la Russia in Siria in quella “missione di stabilizzazione” che sciaguratamente lo stesso occidente gli ha messo in mano fidandosi quando Mosca disse che si sarebbe occupata lei di smantellare l’arsenale batteriologico del regime di Damasco. Bombe sui civili puntualmente negate dalla propaganda, corridoi umanitari interrotti, città sotto assedio costrette alla resa perché i cittadini morivano di fame, deportazione, violenza gratuita, distruzione. Il metodo è stato lo stesso in Ucraina, ma poiché l’operazione militare russa non è stata efficace come in Siria, la brutalità gratuita e oscena l’abbiamo già vista a Bucha, a Irpin, e in tutti i posti in cui i russi sono passati e si sono ritirati. L’esercito di Putin, Putin stesso, non ha regole di ingaggio: questa non è soltanto una guerra senza ragioni (a meno che non ammettiamo, e dovremo prima o poi farlo tutti, che l’unica ragione è annientare il popolo ucraino, cioè fare un genocidio), ma è anche una guerra alla quale non si può attaccare nessuna delle etichette che pure cerchiamo di continuo: non è ibrida, non è non-convenzionale, non è asimmetrica, non è di trincea, non è d’attrito. O meglio: è tutte queste guerre messe assieme, ma nessuna regola d’ingaggio. Vale tutto. Vale colpire i civili indiscriminatamente, vale dire che ci si ritira o riorganizza e poi attaccare di nuovo in modo casuale, vale torturare, vale schedare i sopravvissuti, vale stuprare, vale saccheggiare, vale portare via tutte le risorse, che siano una lavatrice o tonnellate di grano e acciaio, vale lasciarsi alle spalle una scia di mine anche nei parchi giochi. Non ci sono regole, perché Putin è convinto che nessuno lo costringerà a rispettarle, che non ci sarà mai un processo ai vinti: lui non perde. O meglio: dove arriva, si ferma.
Le bombe e le brutalità gratuite non sono paragonabili a nulla di quello cui stiamo assistendo, ma pure lo strumento dell’annessione, cui i russi si affidano anche qui in modo indiscriminato è molto violento. Dopo aver piegato gli abitanti di cittadine fino a cento giorni fa immerse nella normalità con la fame e con le armi, i delegati russi arrivano e impongono dei leader e delle priorità. Persino la farsa del referendum della Crimea è diventata troppo laboriosa: che ci importa di sapere come la pensate? Tutti vengono registrati, i telefoni controllati, le relazioni familiari e professionali verificate in questo “tracing” turpe da cui non c’è scampo. L’alternativa è la deportazione nei campi di smistamento in territorio russo, con un destino ignoto e misero: meglio quel che rimane della propria casa. E così questa scelta diventa, nella bocca dei russi, consenso, partecipazione, la dimostrazione che in fondo se l’errore da parte del Cremlino c’è stato è stato semplicemente sui tempi.
Per Putin essere sopravvissuto a questi primi cento giorni di guerra è già un successo, ancor più se ora sul campo di battaglia il suo esercito riesce ad avanzare in modo ben più deciso di quanto abbia mai fatto prima. Per questo finge di aprirsi a qualche mediazione, perché si sente più forte. Ma sta facendo ancora una scommessa ad alto rischio: il tempo non è tutto dalla sua parte.
tra debito e crescita