L'ammiraglio John Aquilino, a capo del comando statunitense dell'Indo-Pacifico, a bordo di un aereo di ricognizione sul Mar cinese meridionale il 20 marzo 2022 (Ap)

Nel Pacifico

Ma Cina e America non si parlano più? Indagine sul telefono rosso

Pechino non risponde alle linee di comunicazione che si attivano in caso di crisi, e aumenta il rischio

Giulia Pompili

Anche le visite e gli scambi tra accademici e think tank ridotti al minimo. Funzionari cinesi che ripetono sempre e solo la versione del Partito. Ai generali  è vietato dare email personali o numeri di telefono diretti alle loro controparti straniere. La comunicazione è una sola: quella centrale 

L’altro ieri trenta aerei da guerra cinesi hanno attraversato la Zona di identificazione aerea di Taiwan, l’isola de facto indipendente che Pechino rivendica come proprio territorio, nella più estesa incursione aerea sin da gennaio. Una settimana fa, mentre il presidente americano Joe Biden era a Tokyo, alcuni caccia cinesi e russi hanno volato lungo il limite dello spazio aereo nipponico e sudcoreano. Episodi di questo tipo negli ultimi mesi si sono intensificati. Per la Cina si tratta  di esercitazioni di routine, ma avvicinarsi così tanto e così di frequente allo spazio aereo di altri paesi è considerato un messaggio provocatorio, che aumenta esponenzialmente il rischio di incidenti come collisioni o errate interpretazioni di manovre militari. E il vero problema, nel caso in cui si verificasse una crisi, è che non solo le relazioni diplomatiche tra America e Cina in questo momento sono ai minimi termini, ma c’è anche scarsissima comunicazione tra i due paesi. 
Mark Magnier, corrispondente da Washington del South China Morning Post, ha scritto qualche giorno fa che tra Washington e Pechino il famoso telefono rosso, le “hotline” che servono a disinnescare  eventuali crisi, “sono sempre più inefficaci e inesistenti”: “Ex funzionari americani raccontano che di recente, nelle rare occasioni in cui si sono tenute riunioni per la gestione delle crisi, gli interlocutori cinesi andavano a fargli le lezioncine, e la fiducia si è completamente azzerata”. 


La disconnessione in corso tra America e Cina riguarda soprattutto il settore di dialogo più importante – quello militare –  ed è confermata anche da alcune fonti del Foglio. Sin dall’insediamento dell’Amministrazione Biden, i due ministri della Difesa, Lloyd J. Austin III e Wei Fenghe, si sono parlati una sola volta, il 20 aprile scorso, e avrebbero parlato anche di “gestione delle crisi”, ma nessun miglioramento c’è stato da allora. “Servono due parti per avere un dialogo”, spiega al Foglio Dean Cheng, senior research fellow della Heritage Foundation specializzato in affari militari cinesi. “Le ‘hotline’ della Cina, sia con gli Stati Uniti sia con altri paesi, generalmente non sono riuscite a funzionare come vere hotline per le emergenze. Perché quando c’è una crisi, di solito  la parte cinese si rifiuta di rispondere al telefono”. I protocolli di sicurezza tra Washington e Tokyo nascono soprattutto dopo l’incidente di Hainan, il 1° aprile del 2001, quando un aereo da ricognizione americano e un caccia intercettore cinese si scontrarono in aria e si aprì una lunga crisi diplomatica. Da allora molte cose sono cambiate, e oggi un incidente simile potrebbe portare a una escalation inarrestabile.

 

“Se guardiamo al comportamento più generale della Cina”, spiega Cheng, “capiamo che per loro gestire una crisi è qualcosa di diverso rispetto a quello che intendiamo noi. I cinesi si comportano come se ci fossero poche possibilità di errore di calcolo”. E invece sono altissime, soprattutto ora – nel mezzo di una crisi internazionale – e in tutti quei settori, per esempio quello spaziale, dove ancora non esistono protocolli di sicurezza. Ma oltre alla comunicazione diretta inefficace o inesistente, da quando il leader Xi Jinping è arrivato al potere,  anche le altre linee di comunicazione – non ufficiali ma altrettanto importanti – come le visite accademiche, gli scambi con i think tank, sono diventate sempre meno  produttive. I funzionari cinesi e gli accademici, anche all’estero, rifiutano di dare opinioni personali o di fare previsioni che si discostino da quelle dell’ufficialità di Pechino. Secondo quanto risulta al Foglio, ai generali e agli ammiragli dell’Esercito popolare di liberazione è vietato dare email personali o numeri di telefono diretti alle loro controparti straniere – una cosa che si fa, di solito, e che garantisce un canale di comunicazione in più in caso d’emergenza. Ma per Pechino potrebbe voler dire: insubordinazione. Tradimento. Gli scrittori militari cinesi ripetono spesso che per sconfiggere l’avversario nella guerra psicologica e quella dell’opinione pubblica, “è fondamentale limitare le linee di comunicazione non ufficiali”, dice Cheng.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.