(foto EPA)

Contro Zemmour. Perché non c'è da fidarsi quando il candidato all'Eliseo si appella al passato

Giorgio Caravale

L'intellettuale di destra candidato all'Eliseo si fa strada nell’agone vestendo l’abito dello storico. Dice di rimpiangere la statura intellettuale di Giscard d’Estaing e Chirac. ma fa un uso manipolatorio e falsato della storia francese

La campagna in vista della sfida presidenziale francese del prossimo aprile procede a colpi di Storia. Una delle novità più rilevanti della corsa elettorale è, non certo da oggi, la candidatura del giornalista e saggista Éric Zemmour, editorialista del Figaro, intellettuale di destra in grande ascesa sulla scena politica e mediatica, accreditato con più del 10 per cento dei consensi elettorali. Qualche mese fa, forte della popolarità acquisita nelle sue frequenti apparizioni televisive, ha deciso di scendere in campo. Al suo attivo, un gran numero di saggi pieni di provocatorie proposte politiche, alcuni dei quali tradotti anche in italiano: da L’uomo maschio (2006) al Il suicidio francese (2014), da Un quinquennat pour rien (2016) al Destin français (2018).

Non è un mistero che l’editorialista del Figaro si sia fatto strada nell’agone politico e mediatico vestendo l’abito dello storico. Ha accusato la classe politica francese di mancare di cultura storica (e letteraria). Si è lasciato fotografare dai media francesi nel gesto retorico di rimpiangere la statura intellettuale di Valéry Giscard d’Estaing e di Jacques Chirac, uomini politici per dialogare con i quali, ha detto, “bisognava conoscere certi libri, bisognava conoscere la storia della Francia”, perché loro “la conoscevano a menadito, avevano letto libri, sapevano cos’era la letteratura”. 

Poche settimane fa, in piena campagna elettorale, sedici semisconosciuti accademici francesi, storici di professione, hanno raccolto la sfida dell’intellettuale candidato presidenziale dando alle stampe un piccolo libello polemico intitolato Zemmour contre l’histoire (Gallimard). Obiettivo dichiarato: smascherare l’uso smaccatamente politico e manipolatorio della storia francese che l’editorialista fa nei suoi libri, nelle interviste e negli interventi giornalistici che scandiscono ormai da settimane la sua ascesa politica. Come un unico autore collettivo, ma ciascuno nel proprio ambito di specializzazione, questo nutrito gruppo di giovani storici ha inteso ribadire la centralità e il rigore del metodo storico, sottolineando che non è legittimo far dire alle fonti ciò che più conviene alla strategia politica del momento: i fatti storici non sono manipolabili; la storia, insomma, e il suo uso pubblico hanno regole rigorose.

 

Zemmour, sottolineano gli autori del pamphlet, utilizza e deforma la storia in modo spregiudicato, distorcendo a suo piacimento momenti ed eventi del passato francese. Come tutti i più abili manipolatori della storia, l’autore di Destin français si presenta ai suoi lettori-spettatori come il cantore di una “véritable histoire”, di una storia vera, se non della Storia vera. A partire da una cultura storica spesso limitata e datata, scrivono i giovani accademici, il polemista riconduce l’intera vicenda storica del paese a uno scontro tra la Francia e i suoi presunti eroi da un lato, e gli attori del suo declino o del suo “suicidio” dall’altro, siano essi ugonotti, islamisti, rivoluzionari o femministe

Gli autori non intendono salire in cattedra, non sono interessati a proporre un racconto alternativo della storia francese, una versione “buona” della storia, moralmente e politicamente più corretta. Sono perfettamente consapevoli, e lo scrivono, che lo studio del passato implica necessariamente l’ammissione di incertezze e disaccordi interpretativi. E tuttavia, ribadiscono, la ricerca storica stabilisce l’andamento di alcuni fatti in maniera definitiva. E l’impostura, la negazione o la deformazione dei fatti non possono avere diritto d’asilo nell’arena del dibattito pubblico. Zemmour si serve della storia per legittimare la violenza e l’esclusione, per promuovere una visione razzista e misogina dell’umanità, scrivono i giovani storici. Egli mente sul passato per inventare un futuro detestabile e meglio fomentare l’odio di oggi

A proposito delle guerre di religione che hanno dilaniato la Francia del XVI secolo, per esempio, Zemmour si rammarica del fatto che la notte di san Bartolomeo (1572), la nota strage di ugonotti accorsi a Parigi per assistere al matrimonio tra Enrico di Navarra e la sorella del re Carlo IX, Margherita di Valois, abbia inferto un duro colpo all’onda protestante ma non ne abbia spezzato la forza d’urto. Nella sua ambigua attualizzazione di quel tragico evento della storia francese, i musulmani diventano i nuovi ugonotti: entrambi mirano al “grand remplacement”, alla “grande sostituzione”. Il massacro fu un gesto di resistenza con il quale la Francia cattolica rifiutò di cedere davanti all’invasore protestante proveniente dalla Germania. Poco importa che, a onor del vero, il leader riformatore Giovanni Calvino era nato a Noyon, in Piccardia, nella Francia settentrionale, e che le dottrine protestanti si erano diffuse all’interno del territorio francese con la complicità dello stesso re Francesco I la cui sorella, Margherita d’Angoulême, era una delle principali animatrici dei circoli spirituali eterodossi.

E poco importa che quella che si configurò nella seconda metà del Cinquecento è unanimemente riconosciuta dagli storici come una vera e propria guerra civile francese, due popoli contrapposti l’uno all’altro. Agli occhi di Zemmour il massacro è la conseguenza del “fondamentalismo ugonotto”, la risposta giustificata all’arroganza dei protestanti “intolleranti, persecutori dei cattolici”. Il più grande errore commesso da Caterina de’ Medici, madre di Carlo IX, all’indomani della strage di san Bartolomeo fu quello di mostrarsi troppo esitante, tollerante, proprio come le élite francesi di oggi, scrive Zemmour in passi accuratamente citati dagli autori del pamphlet

 

In attesa di incarnare lui stesso la figura di un nuovo Richelieu capace di combattere senza tregua “la parte straniera”, lo “stato dentro lo stato”, un nuovo eroe che abbatta tutte le La Rochelle islamiche edificatesi sul territorio francese, Zemmour si scaglia a testa bassa contro l’Illuminismo, in particolare contro una delle figure più rappresentative dei Lumi, il filosofo Voltaire. I teorici del razzismo del XIX secolo, come Houston Stewart Chamberlain e Joseph Arthur de Gobineau, nonché criminali contro l’umanità del XX secolo come Alfred Rosenberg, ideologo del nazismo condannato a morte a Norimberga, sono i figli degeneri dell’Illuminismo di Voltaire, ha scritto l’editorialista del Figaro in uno dei suoi più recenti saggi. Voltaire, rispondono gli autori di Zemmour contre l’histoire, non fu certo esente dai pregiudizi e dalle pratiche le più criticabili del suo tempo: egli fu un finanziere pronto a investire importanti somme di denaro nel commercio di negri, ma decostruire il mito di Voltaire per rendere conto delle ambivalenze dell’Illuminismo non può voler dire ridicolizzare il personaggio, caricaturizzando il suo pensiero e proponendo conclusioni insostenibili sul piano storico. 

Se l’Illuminismo è l’anticamera del razzismo, la Rivoluzione francese, nei libri e nelle dichiarazioni pubbliche dell’intellettuale-candidato presidenziale, non è solo una catastrofe sanguinaria come nella tradizionale interpretazione storiografica controrivoluzionaria, bensì il frutto di un diabolico piano ordito da una ristretta minoranza composta da philosophes, ebrei, protestanti e massoni. Con buona pace delle masse di donne e uomini che parteciparono per la prima volta in forme inedite ai destini della nazione. 

Il femminismo è, come noto, un altro degli oggetti prediletti della polemica politica di Zemmour. L’autore di Le Premier Sexe (2006; L’Uomo maschio in italiano per Piemme nel 2007, poi ritradotto nel 2016 come Sii sottomesso) non poteva certo risparmiare un attacco all’autrice del Deuxième Sexe (1949), la Simone de Beauvoir che negli anni Quaranta del Novecento denunciava proprio ciò che egli oggi rivendica, la convinzione cioè che la donna è biologicamente destinata a essere dominata dall’uomo e relegata fuori da qualsiasi sfera del potere. Pur di delegittimare la scrittrice, Zemmour la dipinge come una sorta di marionetta nelle mani degli uomini, il padre prima, Jean-Paul Sartre poi, “il suo maestro, il suo re, il suo uomo”, del quale ella non fece che rielaborare pedissequamente le “categorie filosofiche”. Rileggendo in modo parziale e fuorviante il Journal de guerre della filosofa, Zemmour cerca di farla passare per un’“ammiratrice contemplativa”, quasi “erotica”, dell’entrata della Wehrmacht nel giugno 1940, sprezzante per la débâcle dei francesi. Come sottolineano gli autori di Zemmour contre l’histoire, egli però omette intenzionalmente tutti quei passi del diario che restituiscono un’immagine ben diversa dei sentimenti provati da Simone de Beauvoir di fronte all’arrivo dei tedeschi sul suolo francese (“Quelli che vedo passare hanno tali teste da imbecilli”; “Queste facce di tedeschi sono infami”, e via dicendo). 

 

Ancora, Zemmour descrive il processo, conclusosi nel 1996, contro Maurice Papon, segretario generale della prefettura della Gironda durante l’occupazione tedesca, come un procedimento giudiziario ideologico e iniquo, frutto delle pressioni di “associazioni ebraiche”, dell’estrema sinistra, dei partigiani della costruzione europea e di quant’altro, tutti accusati di voler diluire le “colpe tedesche” condannando un alto funzionario francese per il contributo da lui fornito all’arresto e alla deportazione di dozzine di ebrei tra il 1942 e il 1944. Gli autori del pamphlet replicano pacatamente che non si trattò certo di una manovra politica per “criminalizzare la Francia”, bensì di un processo complesso nel quale “il diritto ha avuto sicuramente la meglio sul significato simbolico degli eventi”, un procedimento conclusosi dopo una scrupolosa analisi della copiosa documentazione raccolta. Senza accogliere la tesi dell’accusa secondo cui Papon non poteva ignorare la sorte che attendeva gli ebrei arrestati dietro suo ordine, la corte, come ricordano i giovani storici francesi, ha deciso che tale questione non poteva essere risolta da un tribunale e la mancanza di prove andava appannaggio della difesa. La corte ha dunque condannato Papon per il suo “concorso attivo” all’arresto e alla deportazione di sessantadue ebrei, assolvendolo però dall’accusa di complicità per le atrocità di Auschwitz. 

Infine, di fronte all’ennesima provocazione di Zemmour sul regime di Vichy, pronto a scegliere il “male minore” proteggendo gli ebrei francesi al prezzo dell’abbandono degli ebrei stranieri, gli storici ricordano con grande equilibrio che è certamente vero che Vichy non voleva che gli ebrei francesi più “radicati” fossero deportarti, che il progetto del regime era dunque quello di sbarazzarsi degli stranieri e degli ebrei naturalizzati. Ma sottolineano anche che perseguitando l’insieme degli ebrei a partire dal 1940 (le leggi d’esclusione e la spoliazione riguardavano innanzitutto i francesi), giocando pienamente la carta della vittoria di Hitler nel 1942 e favorendo la deportazione degli ebrei stranieri “indesiderabili”, Vichy non si mise minimamente in condizione di proteggere gli ebrei francesi. A partire dall’estate 1942, tutti gli ebrei, francesi e stranieri, si sentirono in pericolo e cercarono di fuggire entrando in clandestinità, esponendosi dunque ad arresti individuali, per le strade o sulle linee di confine. Di fatto, concludono gli storici, su 74.150 ebrei deportati verso i campi di concentramento 24 mila, tra cui più di settemila bambini, avevano nazionalità francese. Rispetto a questi numeri, i margini di interpretazione rimangono molto esigui. 

 

Gli autori di Zemmour contre l’histoire contribuiscono dunque a smontare dall’interno la macchina di manipolazioni e menzogne con le quali Zemmour ha cercato di farsi strada nel circuito mediatico e politico francese. Ma l’interesse dell’operazione editoriale e culturale portata avanti da questi sedici semi-sconosciuti giovani accademici va oltre la polemica contingente contro il candidato alla presidenza. Essi scelgono consapevolmente l’anonimato: i nomi degli autori dei singoli brevi capitoli che compongono il pamphlet compaiono elencati rapidamente solo nell’ultima pagina. Scelgono in altre parole di non firmare la copertina del loro libello polemico. In questo modo, attribuiscono alla loro pubblicazione una doppia valenza. 

Una scelta politica di campo netta nel mezzo della campagna elettorale per le presidenziali francesi ma anche e soprattutto l’indicazione di un modello orizzontale di discussione pubblica nel quale contano più le idee e i contenuti che non il nome o la presunta autorevolezza di chi se ne fa portatore. Un piccolo gesto rivoluzionario in una Francia in cui il mito del grande e riconosciuto intellettuale come unico autorizzato costruttore del dibattito pubblico è ancora molto radicato.

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