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altro che noccioline

Le lezioni delle repubbliche baltiche per passare dalle parole ai fatti contro Putin

Claudio Cerasa

Estonia, Lettonia e Lituania dimostrano all'Europa che la Russia si può combattere. Espulsioni dei diplomatici e stop al gas, ecco come si muovono i baltici e perché nel loro piccolo sono riusciti meglio di chiunque altro a prendere iniziative all'altezza della situazione

Che cosa vuol dire, in guerra, passare dalle parole ai fatti? Ieri pomeriggio, l’Europarlamento, poche ore prima che la Nato annunciasse di essere pronta ad aumentare il suo sostegno militare all’Ucraina, ha approvato una risoluzione molto potente, e persino sorprendente, votata da 413 parlamentari (93 contrari, 46 astensioni) per indurire le sanzioni contro la Russia, per chiedere esplicitamente che le importazioni di gas russo siano colpite dall’embargo “immediatamente”, e non “il più presto possibile”, per instaurare un tribunale speciale delle Nazioni Unite per i crimini di guerra in Ucraina e per espellere la Russia dal G20.

 

Nel caso specifico, passare dalle parole ai fatti significa rendersi conto che se l’Europa considera quello svolto da Putin in Ucraina qualcosa di simile a “un genocidio”, come ha detto ieri il presidente polacco Andrzej Duda, non è più accettabile finanziare ogni giorno la guerra di Putin facendo arrivare alle sue aziende di stato 800 milioni di euro. Passare dalle parole ai fatti significa questo. Significa trasformare la risoluzione del Parlamento europeo in un’arma concreta di distruzione massiccia dell’economia russa. Ma significa anche fare qualcosa di più. Qualcosa che non riguarda il semplice ascolto di ciò che ogni giorno tenta di spiegare il presidente ucraino Volodymyr  Zelensky – il cui ministro degli Esteri ieri ha detto che, da quello che stanno vedendo relativamente ai preparativi della Russia, la battaglia per il Donbas ricorderà da vicino la Seconda guerra mondiale – ma qualcosa che riguarda alcuni messaggi coraggiosi che arrivano da tre repubbliche europee appartenenti alla Nato e confinanti con la Russia che hanno deciso di fare tutto ciò che è necessario fare, whatever it takes, per dimostrare che quando si combatte un dittatore non lo si può fare tenendo una mano legata dietro alla schiena.

 

Le tre repubbliche sono quelle baltiche, sono Estonia, Lituania e Lettonia, sono tre repubbliche che insieme raccolgono sei milioni di europei e sono tre repubbliche che nel loro piccolo sono riuscite meglio di chiunque altro a trasformare in fatti le proprie parole. Hanno cacciato dai propri paesi alcuni diplomatici russi venti giorni prima (18 marzo) che lo facessero anche l’Italia e la Francia. Hanno annunciato di aver chiuso, a partire dal primo aprile, i gasdotti in risposta all’aggressione di Mosca in Ucraina. E lo hanno fatto, come ha detto nel weekend il primo ministro lituano Ingrida Simonytėe, per combattere il “tossico gas russo”. Detto, fatto. Lo stesso ha fatto la Lettonia. E lo stesso ha fatto l’Estonia, che proprio ieri, “per rompere i legami energetici con l’aggressore senza alcun dolore”, ha annunciato di aver concordato con la Finlandia l’affitto di un terminal galleggiante per importare gas naturale liquido nel proprio paese.

 

Due giorni fa la premier estone, Kaja Kallas, ha offerto al sito americano Axios un altro utile elemento di riflessione. Kallas (gran cognome) ha invitato la comunità internazionale a non commettere un errore: spingere il presidente ucraino a raggiungere un cessate il fuoco immediato a qualsiasi condizione. “Se Putin non verrà punito per i suoi crimini, andrà avanti. Ci sarà forse una pausa di uno o due anni ma poi tornerà a fare quello che ha sempre fatto in modo ancora più duro di oggi. Abbiamo già commesso questo errore due volte”, ha aggiunto riferendosi all’invasione russa della Georgia nel 2008 e della Crimea in Ucraina nel 2014, e ricommetterlo di nuovo potrebbe essere un errore letale. Letale per le repubbliche baltiche. Ma letale anche per il resto del mondo. E se l’occidente libero vuole evitare di combattere direttamente con i propri uomini la nuova guerra mondiale farà bene ad ascoltare le uniche tre repubbliche europee che in questi mesi sono state in grado di mettere in campo fatti all’altezza delle proprie parole.
 

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.