Una delle proteste contro il governo libanese a Tripoli, lo scorso gennaio (foto LaPresse)

Il Libano dei Pandora Papers è un paese alla fame governato da miliardari

Luca Gambardella

E' il più coinvolto dall'inchiesta sulle società offshore, ma anche quello dove regnano caos politico, disparità economiche e povertà. Per capire il perché bisogna guardare alla seconda città del paese: Tripoli, dove è nato Najib Miqati, premier nonché uomo più ricco del Libano

C’è un dato sorprendente nel calderone dei Pandora Papers, l’inchiesta giornalistica sui paradisi fiscali di mezzo mondo: ben 346 società che hanno occultato il loro denaro su conti offshore, avvalendosi dei servizi del Trident Trust, sono libanesi. Per farsi un’idea delle proporzioni, la Gran Bretagna è solo al secondo posto in questa speciale classifica, con appena 151 imprese clienti del trust. “Siamo campioni del mondo”, scherza con amarezza il quotidiano francofono libanese l’Orient le Jour. E a buon diritto, visto che fra gli oltre 11 miliardi di dollari nascosti nei conti di Isole Vergini, Belize, Cipro e Seychelles molti appartengono a società libanesi. Mentre tre quarti della popolazione vive in povertà (lo dice l’Onu), sono tante le personalità coinvolte: fra queste il premier Najib Miqati, nominato lo scorso 10 settembre dopo uno stallo politico durato 13 mesi, il governatore della banca centrale Riad Salamé, l’ex premier Hassane Diab e l’ex direttore della Mawarid Bank, Marwan Kheireddine.

  

 

E’ la fotografia di un paese spaccato in due, dove un’élite esigua, appena il 2 per cento della popolazione totale, dispone di un reddito pari a quello posseduto dal restante 60 per cento. L’indice di Gini, che misura la distribuzione della ricchezza, colloca il Libano al 129esimo posto sui 141 paesi annoverati dall’Ocse. Un report dell’Onu del 2020 ricorda che i miliardari libanesi controllano oltre 13 miliardi di dollari, più o meno la ricchezza a disposizione del 62,4 per cento della popolazione. E i miliardari in Libano sono parecchi. Con appena 5 milioni di abitanti è il paese dove in proporzione vive il più alto numero di ultra ricchi. La classifica stilata l’anno scorso da Forbes ne contava 6 e quella aggiornata al luglio di quest’anno menziona 2 famiglie nella top 4 dell’intera regione mediorientale. E non sorprende che si tratti di due fra quelle protagoniste della politica libanese negli ultimi decenni: la famiglia Hariri, quarta con 4,5 miliardi di dollari, a quella Miqati – a cui appartiene l’attuale premier – seconda con 5,4 miliardi. Nel frattempo, il paese registra una crescita record di disoccupazione e inflazione, la svalutazione della lira, l’aumento del debito al 170 per cento del pil, la perdita del potere d’acquisto vicina al 90 per cento, l’aumento della quota di popolazione, il 74 per cento, che vive al di sotto della soglia della povertà. Un disastro economico figlio delle diseguaglianze.

 

Per capire meglio Beirut e le contraddizioni di quella che era nota come la “Parigi del medio oriente”, è meglio allargare lo sguardo e cambiare punto di vista, spostandolo più a nord, a Tripoli. Si trova a 30 chilometri dal confine con la Siria ed è la seconda città del Libano con 600 mila abitanti. E’ lontana dallo sfarzo della capitale – più povera, conservatrice e a maggioranza sunnita – ed è qui che per anni hanno trovato rifugio leader islamisti radicali e dissidenti politici. Da Tripoli, lo scorso anno, sono partite molte delle proteste contro il governo di Saad Hariri dopo l’esplosione nel porto di Beirut e la crisi del carburante. Ma sempre da qui proviene anche buona parte dell’élite libanese. Fra loro c’è il premier Miqati, l’uomo più ricco del paese e il sesto di tutto il medio oriente grazie ai suoi investimenti nel settore delle telecomunicazioni con la sua Investcom. Miqati controlla anche la holding M1 Group e la Hessville Investment Inc., fondata a Panama nel 1994. Il figlio Maher oggi dice ai giornali che sapeva delle società offshore della sua famiglia, ma che “avevano deciso di aprirle solo per velocizzare gli iter burocratici, non per pagare meno tasse”. Vero o no,  Maher dirige altre due società con sede legale – guarda caso – nelle Isole Vergini. Dei loro fondi di investimento si è avvalsa proprio la M1 Group del papà premier, che li ha usati per acquistare a sua volta un ufficio nel centro di Londra.

 

A fronte di tanta opulenza, Tripoli è una delle città che paga la mancanza di investimenti, con oltre il 57 per cento della popolazione che vive in stato di necessità, secondo i dati dell’Onu. Abbandonata da Beirut, oggi sono i cinesi a guardare con interesse a questo crocevia strategico affacciato sul Mediterraneo. Tripoli è situata in una zona molto appetibile per la sua vicinanza alla Siria, al centro della ricostruzione post bellica. Dopo l’esplosione del porto di Beirut tutto il traffico navale è stato dirottato a Tripoli e a trarne vantaggio sono state proprio le compagine cinesi, che ora fanno attraccare le loro navi porta-container ai nuovi moli rimessi in sesto dalla China Harbor Engineering Company, la stessa che aveva messo in sesto il porto di Ashdod in Israele. Sono circa 150 le aziende cinesi che hanno messo gli occhi sulla ricostruzione siriana, un business da 200 miliardi di dollari, secondo i dati della Banca Mondiale. Nel mezzo di una crisi economica gravissima, con la ricchezza concentrata nelle mani di pochi, potrebbe essere il terzo incomodo cinese quello pronto ad approfittarne e a venire incontro alle esigenze di chi resta fuori da quel 2 per cento dell’élite libanese. 

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  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.