il nuovo leader

In Giappone ha vinto l'establishment. Cosa aspettarsi dal governo Kishida

La scelta da parte del Partito è un segnale chiaro: quello della continuità, senza scossoni

Giulia Pompili

Ha battuto con facilità e ampio margine gli altri tre candidati alle primarie: Sanae Takaichi, Seiko Noda, ma soprattutto Taro Kono, che fino a qualche giorno fa diversi sondaggi d’opinione, oltre che media internazionali, lo davano come favorito

Se a Palazzo Chigi c’è il passaggio della campanella, a Tokyo ci sono i fiori. Un mazzo che il leader uscente passa al leader entrante. La cerimonia però non si svolge dentro al palazzo del governo, il Kantei, ma nella sede del principale partito politico nipponico. Ieri il primo ministro Yoshihide Suga, al governo da poco più di un anno, ha consegnato i fiori a Fumio Kishida, 64 anni, eletto nuovo capo del Partito liberal democratico. La prossima settimana verrà nominato anche nuovo primo ministro del Giappone. La sua vittoria alle primarie non era scontata, ma è un chiaro, fortissimo segnale di continuità.

 

Kishida ha battuto con facilità e ampio margine gli altri tre candidati alle primarie. Non solo le due donne candidate, Sanae Takaichi e Seiko Noda – la prima una populista di estrema destra, la seconda una riformista – ma anche e soprattutto Taro Kono, conservatore liberal, progressista e apprezzato dall’opinione pubblica e dalle cancellerie internazionali. Ma la politica giapponese è pur sempre una specie di lotta per il potere alla “Game of Thrones”: ci sono i leader influenti, quelli che raccolgono consensi, quelli considerati troppo riformisti, le correnti, i tradimenti, i colpi di scena. Tutto però si svolge dietro le quinte, tra i corridoi del Palazzo e della Dieta, il Parlamento nipponico. Perché alla fine l’unica cosa che conta è che l’alleanza, la formazione politica, resti al potere. Il Partito liberal democratico ha la maggioranza e guida ininterrottamente l’esecutivo giapponese sin dal Dopoguerra, fatta eccezione per due brevi esperienze di governo da parte del Partito democratico. L’ultima vittoria della sinistra, tra il 2009 e il 2012 con i governi di Yukio Hatoyama prima e Naoto Kan poi, portò all’arrivo del più longevo dei primi ministri conservatori della storia, Shinzo Abe. E insomma il leader del Partito liberal democratico è quasi automaticamente primo ministro, in Giappone, anche perché l’opposizione non riesce a offrire un’alternativa allo strapotere dei conservatori, e negli ultimi sessant’anni si è consolidato questo sistema politico più unico che raro: ogni corrente del partito può esprimere il suo candidato, poi è alle primarie del Partito che si decide chi vince, non alle elezioni generali. Lo chiamano il sistema del “partito unico e mezzo”.

 

Kishida, figlio d’arte, nato da una famiglia di politici originaria di Hiroshima, è un uomo di establishment. E cerca la leadership già da qualche anno. Quando tornò al governo Shinzo Abe, nel 2012, lo scelse come suo ministro degli Esteri. All’epoca i governi giapponesi cambiavano al ritmo di uno all’anno, e Kishida fece il capo della diplomazia nipponica per quattro anni e mezzo: un record, e un tempo sufficiente per tessere relazioni e rapporti anche internazionali. Nel 2017, al primo vero rimpasto dell’esecutivo Abe – ne seguirono parecchi – a sorpresa Kishida venne fatto fuori dalla lista dei ministri. Però gli venne assegnato un ruolo importante: capo delle politiche del partito, un passaggio obbligato per chi vuole costruirsi un consenso tra i membri e le varie anime della formazione politica. Da quel giorno, però, di Kishida si sono perse le tracce. Mai una dichiarazione fuori posto, mai una polemica, una decisione spiazzante. Niente di niente. Tutto il contrario di Taro Kono, che è stato ministro degli Esteri, della Difesa, usa i social come un politico occidentale e si è preso, l’anno scorso, pure l’ingrato compito di guidare la campagna vaccinale nipponica.

 

Diversi sondaggi d’opinione, oltre che media internazionali, fino a qualche giorno fa davano come favorito proprio Kono: il gran diplomatico carismatico, che durante l’ennesima crisi tra Tokyo e Pechino aveva perfino pubblicato un selfie con la portavoce della propaganda cinese, Hua Chunying. La scelta di Kishida da parte del Partito è un segnale chiaro: quello della continuità, senza scossoni. E’ una posizione rassicurante per gli Stati Uniti di Joe Biden, che contano sull’alleanza strategica con la terza economia del mondo e paese del G7 nell’area dell’Indo Pacifico per contenere la Cina. Ma all’interno dei confini giapponesi non tutti sono convinti della decisione del Partito, che potrebbe portare di nuovo a una fase di instabilità, con governi e leader che cambiano con frequenza annuale. La priorità di Kishida sarà quella di fare il miracolo di Abe, quello in cui non è riuscito Suga: non si tratta di una ricetta economica o politica, di essere convincenti con l’opinione pubblica, ma di tenere insieme le varie correnti del partito.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.