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11 settembre in Afghanistan

Daniele Ranieri

“Sono vent’anni che sogniamo questo momento”, ci dicono i talebani dentro a una base degli americani che ora è loro (come tutto il paese). Qui il tempo è passato più veloce, riscattato dalla vittoria

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Jalalabad, dal nostro inviato. Quando vent’anni fa il gruppo terroristico al Qaida attaccò Manhattan e il Pentagono e uccise migliaia di americani anche grazie alla protezione dei talebani in Afghanistan, il pensiero comune fu che la reazione degli Stati Uniti sarebbe stata memorabile. Niente sarà più come prima si diceva spesso in quei giorni e tra queste cose che non sarebbero state mai più come prima c’era anche l’Afghanistan controllato con modi brutali dai talebani. O almeno così si credeva. In effetti agli inizi successero cose memorabili: a metà novembre 2001, dopo appena cinquanta giorni di guerra, i talebani fuggirono dalla capitale Kabul incalzati dai bombardieri americani e da milizie avversarie. Sul terreno, la notte della vittoria, c’erano soltanto duemila soldati americani. La guerra era leggera e tecnologica, il nemico aveva commesso un errore madornale ad assalire le città americane e sarebbe stato spazzato via – come del resto meritava considerato che ignorava i diritti umani e sparava alle donne nello stadio della capitale. Il conflitto in Afghanistan aveva ragioni strategiche, c’era da eliminare la minaccia che veniva da territori fuori controllo. Ma era anche un simbolo: non era tollerabile che i talebani offrissero protezione impunita ai terroristi e sfidassero l’occidente. Era necessario ristabilire i rapporti di forza, rimettere in sesto l’ordine delle cose. Nessuno pensava che gli Stati Uniti, l’unica superpotenza rimasta in piedi, non avrebbero fatto nulla dopo gli attentati. 

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Jalalabad, dal nostro inviato. Quando vent’anni fa il gruppo terroristico al Qaida attaccò Manhattan e il Pentagono e uccise migliaia di americani anche grazie alla protezione dei talebani in Afghanistan, il pensiero comune fu che la reazione degli Stati Uniti sarebbe stata memorabile. Niente sarà più come prima si diceva spesso in quei giorni e tra queste cose che non sarebbero state mai più come prima c’era anche l’Afghanistan controllato con modi brutali dai talebani. O almeno così si credeva. In effetti agli inizi successero cose memorabili: a metà novembre 2001, dopo appena cinquanta giorni di guerra, i talebani fuggirono dalla capitale Kabul incalzati dai bombardieri americani e da milizie avversarie. Sul terreno, la notte della vittoria, c’erano soltanto duemila soldati americani. La guerra era leggera e tecnologica, il nemico aveva commesso un errore madornale ad assalire le città americane e sarebbe stato spazzato via – come del resto meritava considerato che ignorava i diritti umani e sparava alle donne nello stadio della capitale. Il conflitto in Afghanistan aveva ragioni strategiche, c’era da eliminare la minaccia che veniva da territori fuori controllo. Ma era anche un simbolo: non era tollerabile che i talebani offrissero protezione impunita ai terroristi e sfidassero l’occidente. Era necessario ristabilire i rapporti di forza, rimettere in sesto l’ordine delle cose. Nessuno pensava che gli Stati Uniti, l’unica superpotenza rimasta in piedi, non avrebbero fatto nulla dopo gli attentati. 

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Sono passati vent’anni. Come in tanti altri luoghi, i talebani siedono da vincitori anche in una grande base tra la città di Jalalabad e il confine con il Pakistan e spiegano al Foglio che la base faceva da scalo per i convogli americani e da poche settimane è passata di mano. I camion civili per decenni sono arrivati da oltreconfine carichi delle tonnellate di materiale che faceva andare avanti la guerra – non per forza armi – entravano nell’installazione militare, erano smistati sotto scorta nel resto del paese. Quel gigantesco meccanismo era una delle prove della potenza militare americana e la promessa che anche questa area di confine, che nei decenni ha ospitato un assortimento di gruppi jihadisti sempre più fanatici, sarebbe stata infine bonificata. Invece è successo il contrario. Il conflitto in Afghanistan doveva essere un simbolo, ma si è trasformato nel simbolo opposto. “Sono vent’anni che sogniamo questo momento”, dicono i talebani al Foglio quando gli si chiede come si sentono a svegliarsi da padroni in un complesso militare nemico. Uno di loro si leva il turbante nero e lo calca sulla testa del suo capo mentre risponde. Tengono molto al contegno e all’immagine perché percepiscono la grandezza del momento storico, persino quando controllano i documenti con lentezza studiata. Dal punto di vista della storia come la concepiscono loro, hanno fatto bene a proteggere al Qaida nel 2001 e a resistere agli americani per tutti questi anni fino alla vittoria. Nella loro realtà questi anni sono trascorsi più veloci e sono uniti da una retta impossibile da non vedere. E’ come se l’universo fosse dalla loro parte e adesso sarà molto più difficile convincerli che non è così. 

Una linea politica in occidente sostiene che gli americani dovevano lasciare l’Afghanistan per dedicarsi a problemi più seri e attuali, come la Cina o la Russia. Questa linea però ignora il potere sgretolante di questa sconfitta militare. Se dopo appena vent’anni i talebani controllano molto più territorio in Afghanistan di quanto ne controllassero nel 2001 (anzi: lo controllano tutto), vuol dire che la reazione degli Stati Uniti agli attacchi dell’11 settembre non ha funzionato. La visione a lungo termine dei talebani era più realistica.  

Fuori dalla base ad aumentare il simbolismo c’è una macchina carbonizzata, è il resto di un attacco suicida non recente dello Stato islamico. I talebani sono diventati un governo e devono tenere sotto controllo altri estremisti che li contestano sul piano dottrinale.

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