In Bielorussia la guerra al regime ora la fanno i cyber partigiani

Rosita Rijtano

Il bavaglio alle opposizioni messo dal dittatore Lukashenka non ha spento le voci di dissenso, le ha solo spostate sul web. Dove un gruppo di dissidenti vuole rovesciare il regime a colpi di attachi hacker

Dopo aver imprigionato, o costretto all’esilio, ogni oppositore politico –  ieri anche Maria Kalesnikava, la flautista che aveva organizzato la campagna elettorale della leader dell’opposizione Svjatlana Tikhanovskaya, è stata condannata a undici anni di carcere –  il presidente bielorusso Aljaksandr Lukashenka pensava di aver silenziato qualsiasi forma di dissenso. Si sbagliava. Da mesi la resistenza all’ultimo dittatore d’Europa sembra essersi spostata online grazie a un gruppo di informatici, appoggiato da alcuni ex funzionari delle forze dell’ordine del paese. Si sono dati il nome di Belarus cyber partisans, cyber partigiani bielorussi, e dichiarano di essere riusciti a intrufolarsi in decine di database della polizia e del governo, ottenendo quelle che sostengono essere le prove dei crimini commessi dal regime e che man mano stanno pubblicando su internet: video che mostrano gli oppositori picchiati nelle carceri o audio in cui si sentono gli ufficiali ordinare la repressione violenta delle proteste. Un portavoce del collettivo con cui il Foglio ha potuto chiacchierare tramite l’app di messaggistica Telegram dice che i loro obiettivi sono “rovesciare Lukashenka, ripristinare un governo democratico e uno stato di diritto”, e per raggiungerli si stanno preparando aun massiccio attacco informatico che spera di paralizzare le forze di sicurezza del regime e permettere a noi, il popolo, di riprendere il controllo della Bielorussia”. 


Per diversi analisti il 2021 è l’anno della rinascita dell’hacktivismo: parola nata dalla fusione dei termini activism (in italiano attivismo) e hacking, inteso in senso ampio come un insieme di tecniche usate per modificare software o entrare in sistemi informatici. Alcune sono legali; altre no. Ma mentre i criminali le sfruttano per ottenere dei vantaggi economici, l’hacktivista lo fa per diffondere messaggi politici. Una pratica diventata conosciuta al grande pubblico nel 2011, ma che ha poi perso popolarità come forma di attivismo, anche a causa delle pene severe cui sono stati soggetti alcuni hacktivisti. 


Vasileios Karagiannopoulos, professore associato di cybercrime e cybersecurity, dell’università di Portsmouth (Regno Unito), ripercorre la storia del movimento assieme al  Foglio, spiegando che l’hacktivismo è “nato dalla necessità di tradurre le tattiche tradizionali della disobbedienza civile nell’ambiente digitale”. Uno dei primi esempi risale alla metà degli anni Novanta, quando il gruppo degli Electronic Disturbance Theater organizzò un attacco Ddos di protesta per supportare l’esercito Zapatista di liberazione nazionale: migliaia di persone furono coinvolte nel blocco di alcuni siti governativi messicani. Nel 1995, in Italia, un collettivo fiorentino chiamato Strano network li promosse contro i test nucleari della Francia. I sit-in virtuali, così come vennero definite queste forme di protesta, sono uno degli strumenti preferiti dagli hacktivisti insieme all’appropriazione e alla diffusione di dati sensibili, e al defacement, cioè la modifica delle pagine web. Negli anni 2000 queste tecniche sono state adottate pure da gruppi dediti all’attivismo tradizionale, anche se a partire dal 2008 il loro uso è stato quasi esclusivamente associato al movimento Anonymous. Quell’anno il gruppo abbandonò in modo netto la dimensione ludica che aveva quand’è nato, denunciando gli abusi della chiesa di Scientology e trasformandosi in un collettivo internazionale di hacktivisti. E’ con Anonymous che l’attivismo informatico è diventato mainstream, ma “il movimento ha perso l’appeal che aveva nel 2011”, spiega Karagiannopoulos, complici forse alcune scelte controverse come quella di pubblicare i dati personali di alcuni poliziotti, esponendoli, e che hanno evidenziato la duplice natura dell’hacktivismo: l’enorme impatto positivo che può avere nella sfera pubblica e gli enormi rischi. 


Secondo Karagiannopoulos, la pubblicazione delle informazioni è un aspetto marginale nell’operato degli hacktivisti che “serve soprattutto a far guadagnare a certe battaglie l’attenzione internazionale che meritano, come sta accadendo in Bielorussia”. L’importante è che continuino ad essere “di sostegno ad azioni offline. Gli fanno eco i cyber partigiani: “Crediamo che l’opposizione online sia fondamentale nella realtà del nostro paese, ma senza persone in strada una rivoluzione è impossibile”, dicono.

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