Chi è rimasto a Kabul chiede aiuto in qualsiasi modo: anche ai gruppi online

Luciana Grosso

Una "Dunkirk digitale". Alcuni volontari occidentali si sono ritrovati su un gruppo Signal con l’hashtag #AfghanEvac.  L'hanno lanciato decine di lavoratori afghani che hanno collaborato con loro e ora vogliono scappare. I limiti di uno strumento rivoluzionario

La speranza, o meglio, la fortuna, per chi è fuori dall’aeroporto di Kabul, da giorni e nel fango, potrebbe arrivare via cellulare. Da una telefonata o da un messaggio che ti dice cosa fare, quando sei convinto che non ci sia più niente da fare. Riuscire a mandare quei messaggi o fare quelle telefonate è, da giorni, l’obiettivo di un gruppo di volontari occidentali che, in modo casuale, si è ritrovato su un gruppo Signal con l’hashtag #AfghanEvac. Si tratta per lo più di veterani che conoscono il Paese e decine di lavoratori afghani di caserme e uffici. Ma ci sono anche attivisti, cooperanti, medici, giornalisti. Tutte persone che in qualche modo hanno ricevuto una richiesta di aiuto da qualcuno che era stato lasciato indietro o che sta per essere lasciato indietro. E che allora ha chiesto aiuto a chi poteva avere, o avere bisogno, delle stesse informazioni. “Come far superare i check point al mio interprete?”, “Come parlare con i militari?”, “Quale cancello sarà aperto?”, “ A chi consegnare i documenti?”. A scorrere gli screenshot del gruppo, pubblicati su Politico da un giornalista che vi si è iscritto per provare ad aiutare un suo ex collaboratore in Afghanistan, si comprende come le domande siano più delle risposte, e come frenetico e vicino al panico sia il succedersi di interventi e richieste. 

Spiegare nel concreto che cosa sia il gruppo #AfghanEvac è difficile. Lo è sia perché il gruppo è caotico, in lotta contro il tempo più che contro i talebani, sia perché contiene in sé alcune, feroci, contraddizioni. Per esempio quella di essere, allo stesso tempo la più concreta possibilità di salvezza per migliaia di persone e, insieme evanescente e inconsistente come, per definizione, tutte le chat sui cellulari. Oppure quella di essere composto e animato da occidentali che scrivono dal divano di casa loro, per cercare di aiutare amici in piedi nel fango da giorni, prigionieri di un imbuto della storia.  Un buon tentativo di spiegare cosa sia il gruppo #AfghanEvac, lo ha fatto uno degli animatori del gruppo, Matt Zeller, un veterano che il 21 agosto, ha scritto sul suo blog parlando di una #DigitalDunkirk. 

“In tutta questa follia, l'unica speranza che ognuno di noi ha è che gli americani stiano cogliendo l'occasione per montare una #DigitalDunkirk. Sono in missione dal mio soggiorno. Le mie giornate sono trascorse in continue telefonate e chat di gruppo, cercando di trovare un modo per trasferire la famiglia X all'aeroporto, superare i vari checkpoint talebani e in qualche modo spingere attraverso la mischia dell'umanità che cerca di raggiungere il cancello. Tra queste chiamate ci sono incontri di coalizione con le più disparate organizzazioni e individui che cercano di realizzare un numero infinito di miracoli in un dato momento. Se hai trascorso del tempo in Afghanistan negli ultimi 20 anni o sei vicino a qualcuno che l'ha fatto, è probabile che tu faccia parte della #DigitalDunkirk. Abbiamo creato un centro di fusione 24 ore su 24, 7 giorni su 7, guidato da un colonnello dell'esercito in pensione che era un direttore del Consiglio di sicurezza nazionale per coordinare tutti gli sforzi disparati. Ci siamo organizzati in squadre organizzate per specialità: avvocati ed esperti in materia di immigrazione, persone che possono portare una famiglia dal punto X all'aeroporto, persone che possono portare persone al gate dell'aeroporto, media, analisi di intelligence, raccolta fondi, sistemi e processi di progettazione e gestione, sviluppo web e coloro che sono coinvolti nel noleggio di aeromobili privati. Stiamo utilizzando tutta la nostra esperienza di vita e la formazione precedente”.

Nonostante tutto ciò, nonostante gli sforzi e la buona volontà, la fatica e l’impegno, i volontari sanno che il tempo sta passando veloce, che le persone da portar fuori sono troppe perché sia davvero possibile farlo entro il 31 agosto, e che nessuno ha idea di cosa sia, oggi, essere un afghano in fuga. Per questo si sono rivolti a Joe Biden affinché prolunghi il ponte aereo, almeno fino a quando le operazioni di espatrio non saranno concluse. Perché Joe Biden può arrivare lì dove nessuna chat di gruppo può arrivare: può riaprire gli altri aeroporti afghani, può far sospendere i checkpoint, può prolungare la missione di salvataggio. “Se sei così determinato a continuare a negoziare con i bugiardi, prova a fare un ultimo accordo – scrive Zeller –. Non vogliamo un'altra guerra. Non rimarremo in Afghanistan. Vogliamo solo prendere TUTTA la nostra gente e andarcene. Portali a casa. Fallo e basta. Le nostre persone contano su di te. Se non riesci a portare a termine questa missione, i veterani non ti perdoneranno mai”.  

"Il fatto stesso che tu abbia bisogno di diverse centinaia di persone che lo facciano 24 ore su 24 di propria volontà – ha detto a CNN Erik Edstrom, un veterano che è stato coinvolto nel gruppo – significa che c'è un fallimento logistico assoluto da parte del governo degli Stati Uniti. L'amministrazione Biden e il governo nel suo insieme avrebbero dovuto vederlo arrivare. Il nostro lavoro non compenserà il fallimento della guerra americana in Afghanistan, ma c'è qualcosa di redentore e umano in questa missione: alleviare la sofferenza piuttosto che provocarla". 

Parole che danno anche la misura del pasticcio e del bivio nel quale si trova Joe Biden, che in queste ore, deve scegliere, o forse sta scegliendo, tra fare la cosa giusta e quella possibile; tra mostrare fermezza o ragionevolezza; tra essere il colpevole o il risolutore di una crisi umanitaria gravissima; tra salvare gli americani e salvare l’America. 

Di più su questi argomenti: