L'imbroglio di Orbán

Paola Peduzzi e Micol Flammini

Salvini lo ama, Meloni lo venera, l’Europa lo teme, la destra lo subisce. Come ha fatto il premier ungherese a trasformare il pensiero illiberale in un simbolo farlocco di una nuova libertà. Storia di un progetto politico nato sulla scorta di un postulato: trasformare la democrazia in un pollo. Inchiesta

Sappiamo riconoscerla molto bene, la natura di un’assistenza non richiesta, di una mano falsamente fraterna, di un’imposizione culturale, politica e morale, anche se l’offerta arriva “da gente in giacca e cravatta e non da militari con le mostrine sul petto”. Sappiamo riconoscerla e sappiamo rifiutarla perché “l’Ungheria non diventerà una colonia”, lo è stata e non lo sarà più. Era il 2012, nello splendido palazzo del Parlamento di Budapest dove si respira  aria imperiale con quei lampadari da sale da ballo principesche, quando il premier Viktor Orbán fece per la prima volta in modo tanto esplicito l’equiparazione tra l’Unione europea e l’Unione sovietica. Da lì in poi questa retorica – gli illiberali siete voi europei, non noi ungheresi che la battaglia per la libertà ce l’abbiamo nel sangue – sarebbe diventata una costante, ma allora suonò quasi come una gaffe, una boutade di un primo ministro furibondo perché aveva mandato una lettera a Bruxelles e aveva ricevuto in cambio delle richieste e delle condizioni. Orbán chiedeva all’Unione europea e al Fondo monetario internazionale una linea di credito di 20 miliardi di euro per evitare il default; le istituzioni gli avevano detto che in cambio Budapest avrebbe dovuto dare garanzie sull’indipendenza della Banca centrale ungherese rispetto all’esecutivo. Orbán disse: siete peggio dei sovietici. 

 
Allora, come tante altre volte in questo decennio in cui il premier ungherese è diventato l’ispiratore di una nuova destra nazionalista e xenofoba ben oltre i confini dell’est europeo, Orbán raggiunse un compromesso con Bruxelles. L’ideologia illiberale spacciata per la battaglia di “un combattente per la libertà”, illusione assoluta su cui Orbán gioca e ricama, è sempre stata ben bilanciata con il pragmatismo di un leader che sa di guidare un paese piccolo e instabile, che fuori dall’Unione europea avrebbe pochissime chance di prosperare. Anzi è proprio lungo questo opportunismo che si è sviluppata l’ostilità di Orbán nei confronti dell’Ue: lui vuole soltanto il soldi europei, nulla di più. Pensa che quei soldi siano un diritto, e che non ci siano doveri, non ci siano responsabilità, e che tutto quello che noi chiamiamo “regole di convivenza” a Budapest possa essere rivenduto come un’ingerenza. “Non diventeremo una colonia”, dateci i soldi e sparite.

   

  
 

L’Europa vista dal feudo di Orbán è un mercato unico che funziona in modo efficiente, è un bancomat che elargisce fondi consistenti ed è una comunità economica di cui bisogna per convenienza essere parte. Tutto il resto  – l’integrazione politica, l’integrazione valoriale, la solidarietà, l’appartenenza, la collaborazione, l’unità di intenti – è nei migliori dei casi poco considerata, nei peggiori rifiutata: l’Europa funziona  nella sua versione infantile, di quando era ancora una bambina ed era soltanto un’unione economica. Nel momento in cui si tenta di diventare grandi insieme, di fare il passo verso l’età adulta della collaborazione politica – la “closer integration” che ha già fatto saltare i nervi agli inglesi – l’est si fa recalcitrante. Immaginate che cosa accade se l’Ue osa inserire come condizione all’elargizione di fondi il rispetto dello stato di diritto, come è accaduto in occasione del Recovery fund: come vi permettete?, ha sbraitato Orbán, mettendosi di traverso a ogni curva, arrivando a minacciare un veto che ha gettato nel panico tutta l’Ue in quest’anno di crisi e lockdown, ritirandolo al momento opportuno salvo poi sventolarlo di nuovo, rendendo ogni negoziato un conflitto. 

  
In perfetto stile da destra nazionalista, Orbán vuole un’Unione europea che sia mera somma di stati sovrani, con eventuali sinergie economiche, come il roaming per dire: appena ci si sposta di qui, arriva il paragone con l’Urss. Il concetto di libertà viene stiracchiato e stropicciato fino a diventare un’arma retorica che si infila nei solchi delle guerre culturali in atto: ogni condizione è imposizione, ogni richiesta di rispettare lo stato di diritto è “wokeness”, è “cancel culture”, è “imperialismo morale”, è “politicamente corretto”, è dittatura del liberalismo, dittatura di Soros, dittatura del pensiero unico liberale.

  

Il piano della democrazia illiberale. Viktor Orbán lavora in modo indefesso al suo progetto. Non si affretta. La democrazia è come un pollo, ha scritto Madeleine Albright, per annichilirla devi spennarla una piuma alla volta

  

Orbán lancia le sue accuse come dei fumogeni, lasciandoci storditi e sparpagliati a interrogarci sul nostro esercizio della libertà di pensiero, sulla nostra interpretazione dello stato di diritto, come se toccasse a chi rispetta i princìpi democratici l’onere di dimostrarne la necessità e l’utilità, non a chi li vìola. E in questo mondo all’incontrario, se un leader europeo chiede a Orbán: perché non te ne vai?, diventa un sabotatore del libero dissenso dentro all’Europa. 
L’arte di Orbán è questa: far passare l’Unione europea come l’Unione sovietica, e ricevere applausi (da molti leader di destra, Matteo Salvini e Giorgia Meloni si litigano il ruolo di migliore amico di Orbán) invece che fischi. Martedì scorso, in occasione del trentesimo anniversario della partenza delle ultime truppe sovietiche dall’Ungheria nel 1991, Orbán ha ripetuto che la “sovietizzazione dell’Ue” deve essere fermata e che la “democrazia nazionale” deve essere difesa. Ha detto di essere “un combattente per la libertà”, come poi ha ripetuto all’ultimo vertice europeo quando si è trovato di fronte a un gruppo compatto di paesi pronto a dirgli: quando è troppo è troppo. Ma Orbán insiste: siete voi europei gli illiberali che pretendete di imporre il vostro pensiero anche a chi non la pensa come voi. Contro il superstato europeo dei valori condivisi e della solidarietà, il premier ungherese offre il suo progetto sovranista, cui ha lavorato per dieci anni in modo indefesso e preciso, creando questa illusione di libertà che ci getta in faccia per confonderci e dividerci. La democrazia è come un pollo, ha scritto l’ex segretario di stato americano Madeleine Albright nel suo libro “Fascism: a Warning”, se vuoi spennarla viva devi togliere una piuma alla volta, così ogni strillo vale a sé: quando ti accorgi che c’era dietro un piano, un obiettivo – destabilizzare, indebolire, annichilire – il pollo non ha ormai più nemmeno una piuma, e basta soltanto il colpo finale. Ecco, sono undici anni che il premier ungherese spenna il pollo, nel suo paese e in Europa, una piuma alla volta. 

 
Il Viktor Orbán che vinse le elezioni nel 2010 era molto diverso da quello che le aveva vinte nel 1998. Era più esperto, veniva da otto anni di opposizione, trascorsi a studiare tutti gli errori dei governi precedenti e dei suoi nemici politici, e a misurare l’umore degli ungheresi. Nel 1998, rimase al potere soltanto per due anni, era il primo ministro più giovane della storia del paese: otto anni dopo, era l’accanito e carismatico capo dell’opposizione che aveva lavorato con calma, passione e astuzia alla propria rielezione. József Debreczeni, uno dei suoi primi biografi, l’anno prima della rielezione aveva fatto una previsione che si sarebbe rivelata più che giusta: “Una volta in possesso di una maggioranza costituzionale, la trasformerà in una fortezza inespugnabile del potere”. E’ andata così e ad aiutare Orbán sono state due cose: il cinismo e una grandissima abilità nel cavalcare il momento storico. 

  
Nel 2010 non era diverso soltanto Orbán, era diversa anche l’Ungheria, lo era anche l’Europa. In quell’anno incominciava un decennio difficile per l’Unione europea, e per gli ungheresi, scrive il giornalista francese Bernard Guetta nel suo libro “I sovranisti”: proprio in quell’anno sarebbe arrivata la terza grande delusione, o meglio, disillusione, post bellica. La prima fu nel 2004, anno in cui gli ungheresi, come racconta all’autore del libro un giornalista orbaniano, pensavano che Budapest sarebbe diventata Vienna, che opportunità e benessere delle due parti dell’Ue si sarebbero livellati in un baleno. La seconda delusione, interna, fu nel 2006, quando gli ungheresi scoprirono che il premier socialista che avevano appena eletto, Ferenc Gyurcsány, non aveva fatto altro che mentire loro in campagna elettorale. Lo ammise subito dopo aver vinto, aveva anche sconfitto Orbán, lo disse a porte chiuse ai suoi ma il discorso fu registrato e mandato alle radio. La terza delusione arrivò invece nel 2010, con la crisi del debito, e il senso della vittoria di Viktor Orbán fu proprio questo: era l’uomo che avrebbe potuto curare tutte le delusioni ungheresi, anche l’ultima, che nasceva dallo sconcerto per  essere entrati a far parte di un’Unione che altro non era che un gigante con i piedi di argilla, economicamente fragilissimo. 


Davanti allo sgomento dei suoi connazionali, Orbán iniziò lentamente ad avanzare le prime critiche nei confronti dell’Ue: era astuto, miscelava dialogo e ostilità, si mostrava duro ma gentile. Il suo era un modo per mettere le cose in chiaro, perché sì, l’Ue stava vedeva affiorare debolezze in ogni dove, ma per l’Ungheria la famiglia europea era ancora troppo utile. In un discorso al Parlamento europeo il premier spiegò a tutti, anche agli alleati del Partito popolare europeo (Ppe), che lui non credeva nell’Ue, ma soltanto nell’Ungheria. La sua considerazione dell’Ue si fermava al fatto che se a Bruxelles le cose vengono fatte per bene, allora anche l’Ungheria avrà il suo tornaconto. In modo più barocco e meno schietto, aveva espresso quello che Jaroslaw Kaczynski, leader del partito polacco nazionalista PiS, semplificò definendo Bruxelles “un bancomat”. 

 
L’attenzione di Orbán era tutta per Budapest, aveva  saggiato l’umore dei suoi concittadini per anni, ora doveva dimostrare di saperli accontentare. Il piano era: mettere in pratica l’orbanismo, spennare il pollo una piuma alla volta. Avviò una riforma costituzionale che serviva a riaffermare la differenza degli ungheresi dal resto d’Europa, quella liberale. L’autore della riforma, all’epoca anonimo collaboratore del premier, era József Szájer che scrisse una costituzione conservatrice, che ristabiliva la centralità della famiglia tradizionale e del cristianesimo nella società ungherese. Era l’architrave dell’orbanismo, il punto di partenza delle campagna a favore della famiglia tradizionale contro le famiglia “alternative”, quelle omosessuali. Però non è per la riforma che oggi il nome di József Szájer forse vi dice qualcosa. E’ lui l’ungherese trovato appeso a una grondaia mentre cercava di fuggire dalla polizia, arrivata a interrompere un’orgia gay in piena violazione delle restrizioni pandemiche. József Szájer, nudo, cercò di scappare ma fu preso in fretta e poche ore dopo a Bruxelles già tutti spettegolavano non soltanto dell’orgia in tempi di pandemia, non soltanto del fatto che ci fossero degli europarlamentari, ma soprattutto del fatto che l’europarlamentare presente all’orgia gay fosse un ungherese ultraconservatore autore della Costituzione con cui venivano vietati i matrimoni gay in Ungheria.  

 
Con la stessa Costituzione, nel 2010, Orbán cambiò il nome al suo paese che da Repubblica d’Ungheria divenne Ungheria. E si mise a tessere la trama della sua democrazia illiberale, una democrazia elettiva governata come se un’autocrazia soft, in cui lui vince, lui comanda, lui crea una rete istituzionale incentrata su sé stesso. A questa Ungheria che si raggruma attorno all’orbanismo, l’Ue non faceva ancora caso: sentiva qualche urlo del pollo, ma uno alla volta non sembrava pericoloso. L’Ue iniziava ad affrontare la crisi del debito interno, era molto distratta da questo guaio, e comunque Orbán aveva addosso la coccarda dell’anticomunista, del devoto all’occidente che ringraziava Ronald Reagan ed Helmut Kohl per aver liberato l’Ungheria. Ancora oggi dice che l’ex presidente americano e l’ex cancelliere tedesco sono i suoi modelli. 

 

Il 2015 e il 2018 sono due anni cruciali per capire il progetto di Orbán all’interno della trasformazione europea. Il concetto di exit non è più un tabù, la questione migratoria stravolge il dibattito, George Soros diventa il nemico liberale globale, ogni critica si trasforma in un’ingerenza e si ribalta il rapporto tra chi rispetta e chi vìola le regole di convivenza

  

Nel 2010, la nuova Costituzione sembrava una questione esclusivamente ungherese, lontana dai problemi europei: si poteva chiudere un occhio. Orbán non era ancora emerso come il creatore, il capostipite di un fronte altro, un fronte anti Ue: dopo tutto, il concetto di exit era un concetto alieno. 

 
Orbán è un politico che fa progetti a lungo termine, è lì, al governo dell’Ungheria, per restarci e non affretta il passo, punta tutto sulla resistenza. Il suo secondo mandato è iniziato nel 2014. Nonostante i generosi fondi europei, Fidesz non era un partito capace di amministrare bene il denaro, soprattutto perché il sistema clientelare che Orbán stava costruendo costituiva una perdita a livello finanziario. Però questa destra più a destra stava prendendo piede in tutta l’Ue. Anche in Polonia, dove nel 2015, vincono gli ultraconservatori del PiS. Eppure con le sue idee, i suoi avvertimenti, la sua Ungheria chiusa nella sua unicità, Orbán ancora non era percepito come un problema dell’Ue. Orbán iniziava anzi a essere in declino. A far arrabbiare gli ungheresi erano soprattutto la corruzione e  le terribili condizioni delle scuole e degli ospedali. Ma è vero che Orbán ascolta il respiro dei suoi concittadini, che ne misura la temperatura, la rabbia e la paura. In passato un europarlamentare di Fidesz ci ha detto che senza la crisi dei rifugiati, Orbán le elezioni successive probabilmente le avrebbe perse. Infatti, è stato con la crisi dei rifugiati del 2015 che ha recuperato vigore, smettendo di essere un problema esclusivamente ungherese: diventa un ostacolo, manca la collaborazione, esacerba i discorsi sui migranti, parla di invasione, si trincera chiudendo il confine con la Serbia. “Come stato – ha detto a un Consiglio europeo – devi proteggere i tuoi confini. Non credo in una soluzione europea”. Punto.

 

Ecco comparire il filo spinato alla frontiera. Sulla ridistribuzione delle quote dei migranti, che lui chiamava “una follia”, fece decidere gli ungheresi con un referendum, che non raggiunse il quorum, ma chi andò a votare votò contro. Si stava affermando come modello di un’Europa che non soltanto si rifiutava di essere solidale con i rifugiati, ma anche con gli stessi europei che chiedevano aiuto. Era l’anti Merkel, che invece, anche per placare i tic orbaniani in altre parti d’Europa, aprì le porte ai migranti. Al “Wir schaffen das” (ce la possiamo fare) della cancelliera, Orbán rispose: “Questo è imperialismo morale”. In un’intervista al settimanale svizzero Weltwoche disse anche che gli arrivi dei migranti erano responsabilità della Germania: “Per dirla senza mezzi termini, ciò che domina nella vita pubblica europea è il bla bla liberale su questioni carine, ma di secondo piano. La Germania è la chiave di tutto. Se domani i tedeschi dicessero ‘Siamo pieni, è finita’, allora l’invasione diminuirebbe immediatamente. E’ così semplice, basterebbe una singola frase di Angela Merkel”. Il premier parlava di invasione, ma sapeva bene che tenere i migranti lontani dall’Ungheria sarebbe stato facile, bastava imporsi contro le quote, e al resto avrebbe pensato il filo spinato. Ma gli attacchi all’Ue gli erano utili a fini interni, facevano parte della strategia di distrazione rispetto alla corruzione, e Orbán così iniziò a essere un problema che si aggiungeva alla Brexit e all’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca.

   

    

Dopo la crisi dei rifugiati Orbán continuò a lavorare alla frattura interna all’Europa, la ampliava, la scavava, e infine ci si metteva comodo, sfruttando la posizione privilegiata della sua famiglia europea, che è la più numerosa e potente di tutte: il Partito popolare europeo. E fu grazie a questa frattura che rivinse le elezioni. 

 
Nell’aprile del 2018, Orbán ottenne il suo terzo mandato consecutivo e nel giro di una settimana un giornale governativo aveva già pubblicato l’elenco dei nomi di 200 persone considerate membri dell’“esercito di Soros”. Era l’inizio formale della battaglia contro George Soros, il nemico del popolo perfetto, ungherese all’estero, ricchissimo ma speculatore, ebreo, per la società aperta. C’erano già stati molti scontri negli anni, danni e brutture, ma in quel momento il conflitto diventò, come tutto, estremamente polarizzato: o con me o con lui (e nella narrazione ovviamente l’Ue sta con Soros, anzi è soggiogata da Soros). E sì che Orbán era stato un sorosiano della prima ora. All’inizio degli anni Ottanta, il futuro premier ungherese si iscrisse al Bibó István College di Budapest, una scuola in cui la libertà di espressione e di opinione era stranamente consentita e addirittura incentivata. Nel 1985, Soros fece visita al college, si entusiasmò di fronte a tanta curiosità ed effervescenza, e decise di fare una donazione: l’elargizione prevedeva anche una fotocopiatrice, un bene di lusso perché il governo ne vietava l’utilizzo temendo che potesse aiutare la circolazione di materiale clandestino ed eversivo. Con questa fotocopiatrice fu stampato un giornale del college che più tardi sarebbe diventato Századvég, il giornale della Fiatal Demokraták Szövetsége, cioè Fidesz, l’Alleanza dei giovani democratici fondata, tra gli altri, da Orbán. Nel 1988, Orbán cominciò a lavorare al Central European Research Group, che era stato fondato da Soros, il quale gli offrì una borsa di studio a Oxford: Orbán si fermò soltanto tre mesi e rientrò per candidarsi alle prime elezioni post sovietiche del paese e della sua vita (divenne parlamentare). Negli anni successivi, quando Soros fondò la Central European University (Ceu) di Budapest e la politica ungherese prese le misure al rovesciamento del paradigma sovietico, l’alleanza tra Orbán e Soros collassò. Circolano molte versioni sulla fine di questo idillio, alcune più romantiche di altre, ma di fatto Orbán si accorse che il vuoto politico, in Ungheria, era a destra e decise di sistemarsi in quell’area, dove avrebbe potuto ottenere quel consenso che, dall’altra parte, nel centro sinistra, restava molto più frammentato. Fu un calcolo preciso, senza livore nei confronti dei liberali che si sentirono traditi né nei confronti dello stesso Soros: la disputa tra i due, almeno per quel che riguarda l’aspetto pubblico, è molto più recente e non è strettamente personale. L’ostilità nei confronti di Soros c’è sempre stata, soprattutto negli ambienti di destra più estrema: al governo Orbán è bastato rievocarla e in breve tempo la sfida contro i sorosiani è diventata la sfida contro i capitalisti furbi, contro i liberali, contro i migranti, contro gli europeisti, contro gli occidentali. E contro la Central European University, che di questi elementi è la sintesi perfetta.
Con una legge ad hoc, la legge sull’istruzione superiore, il governo di Orbán ha costretto nel 2018 la Ceu a lasciare Budapest. L’università ha mantenuto alcuni corsi nella capitale ungherese, ma si è trasferita a Vienna e cavalcando l’odio anti Soros Orbán ha lasciato che l’Ungheria perdesse un polo di eccellenza. Il problema della Ceu era Soros, ma anche, diceva il governo, che era un’università straniera. Ora, al suo posto, in un altro complesso tutto da costruire con soldi ungheresi, è pronta ad arrivare un’altra università straniera: la Fudan di Shanghai. 

 
Il 2018 è l’anno dell’accelerazione, dell’assalto alla democrazia ungherese. E l’Europa guardava in lontananza, non sentendo di poter fare molto per fermare l’orbanizzazione dell’Ungheria. O non voleva. Nel 2018 il governo di Fidesz colpì insieme i media e la giustizia. Con la stampa mise in atto un’accurata risistemazione. Una decina di aziende mediatiche ungheresi decise di far confluire – lo spin del governo è “donare” – oltre quattrocento testate di loro proprietà in una fondazione chiamata Kesma (Fondazione stampa e media dell’Europa centrale”), presieduta da Gábor Liszkay. L’obiettivo era “aiutare la sopravvivenza della cultura scritta ungherese” e la priorità “preservare un bilanciamento dei media” all’interno del paese. Fu uno dei membri della fondazione a raccontare l’essenza del progetto al New York Times, e a spiegare il senso della parola  “bilanciamento”. Spiegò che se c’è una predominanza di opinioni legate al governo è “perché la sinistra ha perso la capacità di inventare e comunicare visioni o idee strategiche sia per l’Ungheria sia per se stessa e non ha alimentato il suo retroterra culturale”. La sinistra, l’opposizione si è annientata da sola, è così che Fidesz racconta il suo predominio: Orbán e i suoi sanno riconoscere quello che vogliano gli ungheresi, gli altri no, e quindi si perdono. Un media alla volta, tanti sono stati assorbiti, altri sono stati chiusi, qualcuno è sotto ricatto delle agenzie di pubblicità, sempre gestite da uomini di Orbán: lo spazio per il pluralismo si è fatto sempre più ristretto. Lo scorso anno è caduto un altro dei simboli della resistenza mediatica: il sito di notizie Index. Quasi tutti giornalisti della redazione o sono stati cacciati, come il direttore, o se ne sono andati. 

 
Oltre all’università, a Soros, ai media, Orbánnel 2018 si è concentrato anche sulla Giustizia con la proposta di introdurre un sistema parallelo di tribunali amministrativi alle dirette dipendenze del ministero della Giustizia. Per il resto del sistema giudiziario l’idea era  di farlo funzionare con mandato ridotto, depotenziarlo. Sulla Giustizia però il governo ha fatto  un passo indietro, sospendendo la legge a tempo indefinito prima di applicarla. Lo fece perché il Parlamento europeo aveva già approvato qualche mese prima l’opzione nucleare, la mozione che chiedeva l’avvio dell’applicazione dell’articolo 7 contro i paesi che ledono i valori fondamentali del’Ue. E anche  perché Fidesz nel 2019 viene sospeso dal Ppe per le sue campagne contro l’Ue e i rappresentanti del suo stesso partito europeo, e per le violazioni allo stato di diritto. 

 
La frattura si è fatta sempre più profonda e il Ppe è diventato il teatro di uno scontro tormentato tra chi voleva riammettere Orbán e i suoi deputati, perché in famiglia erano più controllabili, e chi invece voleva espellere Fidesz, perché incompatibile, sempre più distante dai valori del partito. La decisione è stata sofferta, la Merkel era una sostenitrice, forse l’ideologa, della prima linea di pensiero. Ma l’altro fronte era molto nutrito. La resa dei conti è arrivata solo quest’anno e si è concretizzata con una lettera in cui Viktor Orbán ha annunciato l’uscita di Fidesz dal Ppe. E ancora oggi il leader è il frutto ambito delle due famiglie sovraniste europee: i Conservatori e riformisti e Identità e democrazia. Il premier, che è il faro delle destre illiberali, ha proposto la creazione di un altro partito, ma l’idea stenta a concretizzarsi. C’è chi tira da una parte, chi dall’altra e trovare un accordo sarà anche il banco di prova della sua statura politica tra i sovranisti e della loro capacità di accordarsi. 

 
L’incompatibilità tra il Ppe e Orbán iniziava a non essere più soltanto valoriale, ma era un problema di ingranaggi, dentro all’Ue e dentro al partito. Fidesz è diventato un inciampo dentro alle dinamiche europee. E’ a partire da questa consapevolezza che Bruxelles ha iniziato a essere sempre più attenta ai problemi creati da Orbán, interni all’Ungheria, ma ormai anche esterni. 
Per l’Europa, sempre alle prese con la difficoltà di riuscire a parlare con una voce sola, di imporsi come potenza internazionale, di essere credibile, l’Ungheria è un freno in più. Nel 2020 Budapest ha preso in ostaggio il Recovery fund per contestare la condizionalità sullo stato di diritto. Nel 2021 ha preso in ostaggio la politica estera, bloccando tre dichiarazioni su Hong Kong, le conclusioni dei ministri degli Esteri sul conflitto tra Israele e Hamas e l’accordo “post Cotonou” che regola le relazioni con i paesi dell’Asia, dei Caraibi e del Pacifico. 

 
L’orbanismo è diventato anche un modello di leadership. La democrazia illiberale ha i suoi seguaci, estimatori e imitatori. In Slovenia ha la sua guardia del corpo: il premier Janez Jansa, che assumerà la presidenza del Consiglio dell’Ue dal primo luglio e in tanti temono che Orbán sarà il regista di questo semestre. Jansa ha adottato le stesse battaglie del premier ungherese, gli stessi schemi e strategie. Dice di lottare per gli stessi valori, quelli tradizionali. Su questo punto, la lotta per i valori, Grega Repovz, direttore della rivista slovena Mladina, ci ha messo in guardia. “La tutela della famiglia tradizionale, le invasioni dei migranti, gli attacchi contro i diritti lgbt sono cornici vuote, create da Orbán per rispondere alle paure del suo elettorato in Ungheria e per trovare un terreno comune con altri leader conservatori nel resto del mondo”. E’ vero che Orbán sente respirare gli ungheresi e vuole che loro lo sentano vicino, e ha ben costruito la sua immagine da leader del popolo: la Bibbia sul comodino, la passione per i film western che dice di amare “perché non sono complicati”, la frenesia del calcio. Orbán in realtà è l’architetto di se stesso e sono stati il cinismo, la mancanza di un’ideologia che gli stesse troppo stretta e da cambiare all’occorrenza, a plasmare la sua statura politica negli anni. 
L’ultima piuma del pollo democratico da spennare l’abbiamo vista in questi giorni e riguarda la legge che vieta la promozione dell’omosessualità nelle scuole e nelle pubblicità. Diciassette paesi europei l’hanno definita inaccettabile, Orbán ha detto: leggetela invece che giudicare. La versione originale della norma non citava in alcun modo i diritti lgbt: voleva rafforzare le misure punitive contro la pedofilia. La riforma penale sui crimini sessuali contro i minori era diventata una questione politica a metà dell’anno scorso,  dopo lo scandalo che aveva coinvolto l’ex ambasciatore ungherese in Perù, Gábor Kaleta, che era stato trovato dalle autorità internazionali guidate dagli Stati Uniti con circa ventimila foto pornografiche di minori nel computer. L’ambasciatore se la cavò con 1.500 dollari di multa e una sentenza sospesa, ma la riforma era andata avanti nel suo iter parlamentare a Budapest incontrando un inusuale consenso bipartisan. L’8 giugno, qualche giorno prima del voto finale di quella che era ancora chiamata “legge anti pedofilia”, i parlamentari di Fidesz proposero l’introduzione di quattro emendamenti: “E’ vietato mettere a disposizione dei minori dei contenuti che rappresentino qualsiasi forma di sessualità fine a se stessa, qualsiasi deviazione dall’identità che corrisponde al sesso assegnato alla nascita, il cambiamento di sesso o la promozione dell’omosessualità”; gli educatori a scuola che si occupano di educazione sessuale non possono “promuovere qualsiasi deviazione dall’identità che corrisponde al sesso assegnato alla nascita, il cambiamento di sesso o l’omosessualità”; soltanto le organizzazioni registrate in “un’agenzia statale definita dalla legge” possono occuparsi dell’educazione sessuale a scuola; “è illegale pubblicare pubblicità a un pubblico di minori che rappresentino la sessualità fine a sé stessa, qualsiasi deviazione dall’identità che corrisponde al sesso assegnato alla nascita, il cambiamento di sesso o la promozione dell’omosessualità”. La legge con queste modifiche è passata con il voto di Fidesz e di Jobbick, partito di estrema destra, mentre l’opposizione si è alzata ed è uscita durante la votazione.

 
La protesta è stata immediata: condanne, stadi color arcobaleno, divieti di arcobaleno, arcobaleni in protesta e infine la condanna inusuale al vertice europeo. La questione, nel continente, continua a essere molto delicata. L’Economist scrive che c’è una cortina di ferro color arcobaleno: a ovest gli omosessuali hanno una qualità della vita “migliore che in qualsiasi altro posto sul pianeta”. In sette paesi a est, comprese Polonia, Ungheria e Romania, “meno della metà delle popolazioni pensa che gli omosessuali debbano avere gli stessi diritti degli eterosessuali”. Anche in altri paesi ci sono passi avanti e passi indietro, ripensamenti continui e aggiustamenti rispetto a decisioni prese in passato. Ci sono infinite discussioni, come sappiamo bene anche in Italia, sui termini utilizzati, sui crimini d’odio, sulla libertà di espressione e di dissenso. Ma la direzione è chiara: si va verso integrazione e rispetto, questo è l’obiettivo, e anche se non si raggiunge con un percorso lineare l’intento è chiaro. La legislazione ungherese non va in questa direzione, non foss’altro perché nasce come un’estensione di una normativa contro la pedofilia. E per quanto i difensori di Orbán strepitino dicendo che c’è un pregiudizio liberal e “woke” in tutto quel che riguarda l’Ungheria e che il premier sia il nemico ideale per unire un’Europa fragile che non trova voce né posizione, questo scontro ci ha permesso di orientarci un po’ di più in mezzo ai fumogeni. La democrazia ungherese è un pollo spennato: la libertà del combattente Orbán è una finzione, assecondarla è il colpo finale.
 

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