Contro la lagna

Europeisti con i nervi a pezzi per i vaccini, su la testa

L'Ue ha rifornito di vaccini mezzo mondo, quando America e Regno Unito pensavano solo ai loro cittadini, e il suo ritardo rispetto agli americani è di cinque settimane

Paola Peduzzi

Secondo gli ultimi dati della Commissione, dal primo dicembre 2020 l’Ue ha distribuito ai paesi membri 88 milioni di dosi (62 milioni sono stati somministrati) e ha esportato 77 milioni di dosi. Di queste, se si escludono il programma di solidarietà internazionale Covax e i paesi vicini come Israele, il più grande beneficiario è il Regno Unito, con 21 milioni di dosi provenienti dall’Ue. Finora il Regno ha somministrato 31 milioni di dosi, di cui appunto 21 prodotti ed esportati dall’Ue

Dopo aver spiegato il dilemma del prigioniero, uno dei problemi più famosi della teoria dei giochi, un professore universitario mi disse: capito questo, capirai tutti i paradossi della vita, non solo economici, ma anche personali, capirai persino perché tuo marito finirà per lasciarti. Da allora ho sentito citare il dilemma del prigioniero centinaia di volte, non mi sono spiegata tutti i paradossi in cui mi sono imbattuta, mio marito non mi ha ancora lasciata, e ho spesso pensato che il potere di questo dilemma fosse fortemente esagerato. Mi è tornato in mente in questi giorni, quando più e più volte mi sono trovata a spiegare anche (soprattutto) a europeisti convinti la cosiddetta e conclamata “débâcle dell’Unione europea sui vaccini”.

Il dilemma del prigioniero mostra perché dei soggetti razionali decidono di non cooperare tra di loro pur se è nel loro interesse farlo. L’esperimento, che risale agli anni Cinquanta, è in sintesi così: ci sono due prigionieri che, se restano entrambi in silenzio, prendono un anno di prigione; se uno confessa e tradisce e l’altro resta in silenzio, il primo viene liberato e l’altro prende sette anni; se confessano entrambi prendono sei anni a testa. Il gioco consiste nel calcolare il rischio personale e il rischio della coppia e tendenzialmente finisce che l’individuo preferisce assumersi il rischio personale rispetto al rischio collettivo, pure se è più conveniente.

Prendiamo l’Unione europea, il Regno Unito e l’America, cioè i tre attori occidentali che mettiamo sempre a confronto – e di solito concludiamo: che disastro, l’Europa. In realtà l’Ue è l’unico prigioniero che non ha denunciato gli altri, cioè l’unico che si prende un rischio collettivo, che in termini correnti si chiama: solidarietà. Gli Stati Uniti hanno imposto un divieto all’esportazione dei vaccini al grido “prima gli americani”, così gli europei hanno dovuto compensare questo nazionalismo esportando quasi metà delle dosi prodotte in territorio europeo perché la domanda di vaccini è globale e non nazionale, e questo approccio multilaterale – di cui gli americani, questi americani, cioè l’Amministrazione Biden, sono cantori e difensori: l’hanno inventato loro, il multilateralismo – ha contribuito molto alla narrazione della gestione disastrosa dei vaccini da parte dell’Ue.

Quando qualcuno, a cominciare dal nostro premier, Mario Draghi, che è un professionista cresciuto nella cultura multilateralista, ha detto: abbiamo un problema di approvvigionamento interno, ci mancano le dosi, blocchiamo l’esportazione anche noi, sono saltati su gli inglesi – questi inglesi, quelli della Brexit, quelli che noi da soli siamo meglio di tutti voi messi assieme – a dire che no, che è ingiusto, che è un’azione mirata agli inglesi, una vendetta postuma degli europei che non hanno ancora digerito il divorzio del Regno dall’Ue. Nota: la Brexit non c’entra nulla con l’efficienza della campagna di vaccinazione inglese: il sistema sanitario inglese è così da tempo (l’ha riformato Tony Blair, e fu massacrato per questo); tutte le agenzie del farmaco nazionali sono indipendenti e autonome e possono in qualsiasi momento approvare vaccini in base ai propri criteri: certo, poi se ne devono assumere il rischio.

Ma il “prigioniero” britannico ha tradito gli altri comunque infilando un “UK First” nei fondi dati dallo stato inglese all’Università di Oxford per lo sviluppo del loro vaccino. Nel maggio del 2020, quando AstraZeneca ha fatto la partnership con Oxford, la clausola è stata trasferita, o almeno così ha chiarito il ceo di AstraZeneca, Pascal Soriot, in audizione al Parlamento europeo. Che questa clausola sia scritta o orale non è dato sapere, ma di certo sappiamo che quando gli europei hanno dato i loro fondi alle aziende che sviluppavano i vaccini non hanno introdotto alcun “Europeans first”. Ora sappiamo anche, perché l’ha detto il ministro della Salute Matt Hancock, che AstraZeneca ha un contratto di “esclusiva” con il Regno Unito, che quindi ribadisce un UK first nazionalista.

Volete sapere dov’è il paradosso? Secondo gli ultimi dati della Commissione, dal primo dicembre 2020 l’Ue ha distribuito ai paesi membri 88 milioni di dosi (62 milioni sono stati somministrati) e ha esportato 77 milioni di dosi. Di queste, se si escludono il programma di solidarietà internazionale Covax e i paesi vicini come Israele, il più grande beneficiario è il Regno Unito, con 21 milioni di dosi provenienti dall’Ue. Finora il Regno ha somministrato 31 milioni di dosi, di cui appunto 21 prodotti ed esportati dall’Ue. E’ per questo che il premier Johnson, che inizia a patire il calo degli approvvigionamenti da parte di AstraZeneca, è stato straordinariamente accomodante con l’odiata Europa, perché altrimenti rischia di non vedere più nemmeno una dose di Pfizer, e il suo programma super di vaccinazione smetterebbe di brillare. Naturalmente questo compromesso non è stato registrato dai media inglesi che mettono “il disastro europeo” in tutti i titoli e su tutte le copertine: ormai se dici qualcosa sugli inglesi o sei invidioso o sei anglofobo, un po’ quel che accade con i russi (no, non era così che volevamo che finisse questa separazione).

Dunque l’Ue ha giocato secondo le regole, gli altri no, ma la colpa è dell’Ue. AstraZeneca ha consegnato un quarto delle dosi che aveva promesso (contrattualmente, non con una pacca sulla spalla) e la colpa è dell’Ue. AstraZeneca non invia i documenti per far approvare dall’Ema la produzione nello stabilimento dell’Halix, la società di Leida in Olanda, e la colpa è  dell’Ema, dei suoi ritardi, della burocrazia rovinosa degli europei (due giorni fa  i documenti sono arrivati e comunque chiedete alla frontiera britannica a che livello è il crollo del business e l’esaurimento nervoso di chi deve compilare moduli su moduli da quando c’è la Brexit).

Ancora questo non spiega perché inglesi e americani tra poche settimane ricominceranno a viaggiare, uscire, lavorare e moderatamente assembrarsi e a noi europei aspetta un  2021 del discontento. La prima spiegazione, la più semplice e la più immediata è: i sistemi sanitari europei non sono efficienti. Ogni paese a modo suo ha accumulato ritardi e ha difficoltà di organizzazione: fino a poco tempo fa il problema non era avere le dosi, ma somministrarle. E per coprire questi errori ne sono stati commessi altri, come la sventurata campagna contro AstraZeneca, che a ben vedere non ha un problema di bontà del vaccino, ma di management. E giusto per essere pronti: pare che anche Johnson & Johnson ha dei rallentamenti nella produzione e quindi nella consegna, che deve iniziare ad aprile.

Emmanuel Macron, presidente francese, ha detto in un’intervista due giorni fa: “Avremmo dovuto essere più ambiziosi”. Ha anche lui i nervi a pezzi come buona parte degli europeisti, ma tralasciando il fatto che il suo primo obiettivo dovrebbe essere quello di vaccinare a un ritmo almeno pari alla media europea, Macron dice un termine importante. Ambizione. Questo è quel che manca davvero all’Ue, quel che trasformerebbe il rispetto delle regole e della solidarietà in capitale geopolitico: la volontà di assumersi qualche rischio individuale in più, senza contare soltanto le paure e i freni, ma anche le opportunità. Così l’Europa oggi non sembrerebbe ingenua o inefficiente o disastrosa, ma l’unica potenza che fa quello che gli alleati occidentali hanno deciso di non fare. Certo, se poi la smettessimo di assecondare il coro della débâcle  magari un po’ di ambizione in più ce l’avremmo. Al momento, siamo come era l’America a metà febbraio, cioè ricominceremo a parlare di normalità cinque settimane dopo l’America: nel frattempo abbiamo rifornito di vaccini mezzo mondo, compresi gli inglesi, cosa che nessuno dei nostri alleati-prigionieri si è sognato di fare. E lo chiamiamo disastro?
 

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi