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In Myanmar non andrà tutto bene

Confusione e incertezza alimentano il caos birmano e ne celano le componenti. Per alcuni l’unica speranza rimasta è che la Signora faccia appello ai giovani affinché tornino a casa

Massimo Morello

Un'altra giornata di manifestazioni si è conclusa con altri 51 morti. Il movimento che ha ispirato la protesta non potrà continuare a lungo la sua lotta, costretto dalla repressione e indebolito dalla mancanza di leadership. Ci sono due potenze che guardano: Cina e Russia, che da questa crisi potrebbero volere cose molto diverse

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In Birmania non andrà tutto bene. Al contrario dell’“Everything will be OK” scritto sulla maglietta di Angel, la ragazza di 19 anni uccisa mercoledì dalle forze di sicurezza mentre partecipava a un sit-in pacifico. Una giornata di manifestazioni conclusa con altri 51 morti (almeno secondo una fonte del Foglio, 38 secondo l’inviata speciale dell’Onu in Myanmar, Christine Schraner Burgener). Il numero di morti, feriti, prigionieri, persone scomparse è incerto, confuso. Così come il nome di Angel: Deng jia Xi, secondo alcuni (compresa la fonte del Foglio che ne conosceva il padre e l’ha vista crescere), Kyal Sin per Reuters, forse per qualche confusione con i nomi birmani o per una traslitterazione complicata dal fatto che la famiglia di Angel era d’origine cinese. "Non proprio cinese, di una di quelle etnie del nord che sono di discendenza cinese, che sono arrivate dallo Yunnan", precisa quell’amico di famiglia.

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In Birmania non andrà tutto bene. Al contrario dell’“Everything will be OK” scritto sulla maglietta di Angel, la ragazza di 19 anni uccisa mercoledì dalle forze di sicurezza mentre partecipava a un sit-in pacifico. Una giornata di manifestazioni conclusa con altri 51 morti (almeno secondo una fonte del Foglio, 38 secondo l’inviata speciale dell’Onu in Myanmar, Christine Schraner Burgener). Il numero di morti, feriti, prigionieri, persone scomparse è incerto, confuso. Così come il nome di Angel: Deng jia Xi, secondo alcuni (compresa la fonte del Foglio che ne conosceva il padre e l’ha vista crescere), Kyal Sin per Reuters, forse per qualche confusione con i nomi birmani o per una traslitterazione complicata dal fatto che la famiglia di Angel era d’origine cinese. "Non proprio cinese, di una di quelle etnie del nord che sono di discendenza cinese, che sono arrivate dallo Yunnan", precisa quell’amico di famiglia.

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Tutte confusioni e incertezze che alimentano il caos birmano e ne celano le componenti. Come la vaghezza di un occidente sempre più distratto. Ormai l’hanno compreso anche i manifestanti che speravano in un aiuto. “Non preoccupatevi Nazioni Unite: noi siamo con voi” è scritto su un’ironica vignetta di un cartoonist di Yangon. Le problematiche di un paese in cui convivono oltre 130 etnie, che spesso hanno difficoltà a comprendersi sono l’altro grande generatore di caos. “Al momento la gente per strada sta manifestando per un paradosso" è scritto in un articolo pubblicato da Frontier Myanmar. “Molti stanno chiedendo ‘rispettate il nostro voto’, ma gli attivisti delle minoranze etniche e religiose non sono favorevoli alla National League for Democracy e chiedono una democrazia federale”. Secondo i Kachin, del resto, Aung San Suu Kyi e il suo governo stavano svendendo il paese alla Cina, facendolo precipitare nella trappola del debito. 

 

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Allo stesso modo si è generato un altro equivoco o paradosso: molti analisti hanno dichiarato che quelle minoranze sono il “Fattore X” che deciderà il destino del golpe. Ma non hanno distinto le minoranze dalle milizie che spesso le rappresentano. In molti casi veri e propri eserciti che in questo momento sembrano mantenere un basso profilo. Forse aspettano che la crisi si risolva in un’implosione del Myanmar che vedrebbe il paese frammentarsi in territori tribali. E intanto rafforzano le truppe con i primi disertori di Tatmadaw, le forze armate, com’è accaduto con i soldati passati alla Karen National Union. 

 

Questo è il vero, grande timore della Cina. Che la assolve da tutte le oscure accuse complottistiche diffuse subito dopo il golpe (come i tecnici che avrebbero aiutato la giunta a realizzare il firewall per controllare la rete o i misteriosi voli notturni) nell’ennesimo paradosso che la vedeva al tempo stesso complice dei generali, di Aung San Suu Kyi e delle milizie etniche. In effetti, come spiega la fonte del Foglio: "Quello che la Cina voleva davvero, che stava tramando, era un accordo tra le parti per sviluppare i progetti della Via della Seta". Nello scenario geopolitico, dunque, “la Cina è il grande perdente di questo golpe” come ha dichiarato il professor Enze Han dell’università di Hong Kong. 

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Se la Cina, in un modo o nell’altro, è la grande protagonista di questa vicenda, c’è un convitato di pietra che è tanto potente quanto nascosto: la Russia. Sino agli anni Ottanta, come Unione Sovietica, dirigeva il grande gioco in Sud-est asiatico tramite lo stato satellite vietnamita. Con l’implosione dell’Urss è uscita di scena. Ma non è improbabile che voglia ripresentarsi nella sua nuova versione imperiale. In questo senso Tatmadaw potrebbe fare le veci dell’esercito popolare vietnamita.

 

Subito dopo il colpo di stato, per quanto sia Cina sia Russia abbiano dichiarato di non voler interferire negli affari interni del Myanmar, mentre la Cina manifestava forte dissenso, la Russia si asteneva dal giudizio. Del resto, solo una settimana prima il ministro della difesa russo Sergei Shoigu aveva visitato il Myanmar per firmare un contratto per la fornitura di droni, sistemi missilistici e radar col generale Min Aung Hline, comandante in capo di Tatmadaw e autore del golpe. Lo stesso generale che nel luglio dello scorso anno in un’intervista alla tv di stato russa aveva accennato a “potenti forze” che sostenevano i ribelli etnici con una chiara allusione alla Cina. 

 

Questo intreccio di rapporti, giustifica l’indifferenza con cui i militari hanno accolto le minacce di possibili sanzioni. “Le abbiamo già subite e siamo sopravvissuti” ha risposto il vicecomandante di Tatmadaw all’inviata dell’Onu. E quando lei lo ha avvertito che rischiavano l’isolamento, lui ha risposto: “Impareremo a camminare con pochi amici”. Gli amici  non sono così pochi. Pur con molte differenze e qualche forte ostilità, i paesi dell’Asean non sembrano volere una reale rottura col governo birmano. Qualche incertezza è mostrata anche dal Giappone, che ha storici rapporti con i generali birmani (compreso San Suu Kyi, il padre della Signora) e ha investito in numerosi progetti strategici nel paese. 

 

 

Sul fronte interno, il civil disobedience movement, il movimento che ha ispirato le proteste non sembra poter continuare a lungo nella lotta, sia per una repressione sempre più pesante, sia per mancanza di leadership. C’è anche il rischio che i giovani che hanno interpretato la protesta e ne hanno pagato le conseguenze siano vittime di uno shock post-traumatico. Per una generazione nata e cresciuta in un’epoca di blocco totale delle informazioni e che si è improvvisamente ritrovata immersa nel world wide web, la lotta della democrazia poteva anche essere interpretata come un video game. Gli stessi generali ne stanno approfittando perché la loro arma più forte si rivela proprio il controllo dei social. 

 

Per alcuni, come l’uomo che aveva conosciuto Angel quando aveva sei anni e giocava con i figli di amici comuni, l’unica speranza rimasta è che la Signora faccia appello a quei giovani affinché tornino a casa. La sua è un’illusione dettata dalla tristezza. Forse più realistica l’opzione che l’Occidente offra al Myanmar un’alternativa alle sanzioni, bilanciando il peso di Pechino o di Mosca in cambio di un graduale ritorno alla normalità. Alla fine, c’è da chiedersi quale sia la normalità per un paese dove come forma di lotta si appendono tra le case come panni stesi gli htamein, i sarong indossati dalle donne. Perché, secondo una credenza diffusa, passarci sotto porta sfortuna e quindi le forze di sicurezza eviterebbero di farlo.

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