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Biden taglia corto con le milizie dell'Iran e autorizza le prime bombe

Daniele Ranieri

Risposta contenuta degli Stati Uniti dopo tre attacchi contro basi americane in Iraq rivendicati da sigle inventate per nascondere i responsabili

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Nella notte tra giovedì e venerdì aerei americani hanno lanciato sette bombe da 230 kg contro una base delle milizie in Siria, molto vicino al confine con l’Iraq. E’ stata la prima operazione militare autorizzata dal presidente Joe Biden – per quel che sappiamo – e si presta a equivoci del tipo: “La nuova Amministrazione è guerrafondaia”. Queste azioni in realtà sono diventate di routine a prescindere da chi c’è alla Casa Bianca perché fanno parte del botta e risposta ininterrotto fra gli Stati Uniti e le milizie manovrate dall’Iran in altri paesi come l’Iraq e la Siria. Nelle ultime due settimane c’è stata un’accelerazione. Il 15 febbraio le milizie hanno lanciato venticinque razzi contro l’aeroporto internazionale di Erbil, nel nord dell’Iraq, che ospita anche militari americani (undici razzi sono finiti nelle strade della città e hanno ucciso un civile), il 20 febbraio hanno lanciato quattro razzi contro la base aerea di Balad che ospita contractor americani che si occupano di manutenzione degli aerei e il 22 febbraio hanno lanciato due razzi contro la Zona verde di Baghdad – e anche in quell’area ci sono militari americani e l’ambasciata degli Stati Uniti. In tutti e tre i casi le milizie che hanno sparato i razzi hanno accettato la possibilità di uccidere americani, era quasi scontato che l’altra parte ristabilisse un minimo di deterrenza – prima della visita di papa Francesco in Iraq, che forse tra una settimana porterà una calma temporanea. 

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Nella notte tra giovedì e venerdì aerei americani hanno lanciato sette bombe da 230 kg contro una base delle milizie in Siria, molto vicino al confine con l’Iraq. E’ stata la prima operazione militare autorizzata dal presidente Joe Biden – per quel che sappiamo – e si presta a equivoci del tipo: “La nuova Amministrazione è guerrafondaia”. Queste azioni in realtà sono diventate di routine a prescindere da chi c’è alla Casa Bianca perché fanno parte del botta e risposta ininterrotto fra gli Stati Uniti e le milizie manovrate dall’Iran in altri paesi come l’Iraq e la Siria. Nelle ultime due settimane c’è stata un’accelerazione. Il 15 febbraio le milizie hanno lanciato venticinque razzi contro l’aeroporto internazionale di Erbil, nel nord dell’Iraq, che ospita anche militari americani (undici razzi sono finiti nelle strade della città e hanno ucciso un civile), il 20 febbraio hanno lanciato quattro razzi contro la base aerea di Balad che ospita contractor americani che si occupano di manutenzione degli aerei e il 22 febbraio hanno lanciato due razzi contro la Zona verde di Baghdad – e anche in quell’area ci sono militari americani e l’ambasciata degli Stati Uniti. In tutti e tre i casi le milizie che hanno sparato i razzi hanno accettato la possibilità di uccidere americani, era quasi scontato che l’altra parte ristabilisse un minimo di deterrenza – prima della visita di papa Francesco in Iraq, che forse tra una settimana porterà una calma temporanea. 

  
Il comunicato del Pentagono di questa notte insiste molto sul fatto che il bombardamento è stato un messaggio – usa proprio queste parole – e punta a una de-escalation. Gli americani hanno colpito due milizie, Kataib Hezbollah e Kataib Sayyid al Shuhada, che considerano responsabili delle aggressioni in Iraq e agli ordini dell’Iran. Le milizie in questi anni hanno creato tutta una serie di sigle e di nomi che in alcuni casi esistono soltanto su Telegram e servono a rivendicare gli attacchi e a creare una cortina fumogena per aumentare l’incertezza nell’opinione pubblica che non riesce a stare dietro alla girandola di nomi: la Lega dei Giusti partorisce le Brigate del partito di Dio che a loro volta generano altre milizie come le Brigate dei Signori dei Martiri e nei comunicati si fanno chiamare i Guardiani del Sangue o i Compagni della Caverna. L’Amministrazione Biden con il raid aereo ha voluto riassumere quella genealogia complicata e fittizia in una parola sola: Iran. Anche l’obiettivo scelto è a suo modo un messaggio: la grande base dedicata al’Imam Ali in Siria, ad appena cinque chilometri dal confine con l’Iraq, venti chilometri quadrati di territorio piatto e desertico che gli iraniani da due anni tentano di trasformare in un complesso militare con gallerie sotterranee e hangar. Quella base e le altre caserme a sud di Damasco sono due snodi cruciali per gli iraniani e sono diventate magneti per i bombardamenti. Gli aerei israeliani spesso colpiscono vicino a Damasco e gli aerei americani vicino al confine con l’Iraq. 

 
L’ex generale israeliano Amos Yadlin, che è stato direttore dell’intelligence israeliana, commenta su Twitter che l’Iran ha tentato di mettere sotto pressione l’Amministrazione Biden con l’accelerazione dell’arricchimento dell’uranio e con gli attacchi in Iraq per mettersi in vantaggio prima di eventuali negoziati.

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