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Limbaugh e la mutazione dell’America conservatrice, dai Bush a Trump

Stefano Pistolini

E’ morto il conduttore radiofonico più seguito del paese. La sua fortuna è tramontata con l'arrivo di Donald alla Casa Bianca, solo sul finale del suo mandato l'ex presidente si è accorto del potenziale alleato che aveva lasciato indietro

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Paradossalmente le fortune di Rush Limbaugh, la star della radio americana conservatrice, morto oggi a 70 anni d’età, sono tramontate allorché Donald Trump è arrivato alla Casa Bianca. In passato, Limbaugh dai microfoni del suo show, “che non aveva bisogno di ospiti, perché l’attrazione era lui”, aveva agito da braccio armato dei trionfi della famiglia Bush, salvo affrancarsi dal casato texano sostenendo che non fossero veri repubblicani, perché non condividevano le idee più radicate della base conservatrice del paese. Così facendo, fumando sigari e sibilando profezie contro le élite, Rush aveva finito per prendere le distanze dall’acquario repubblicano, abiurando perfino Newt Gingrich, di cui era stato fervente sponsor, trasformandosi nell’ideologo dei Tea Party, promulgandone il verbo dalle autoradio negli interminabili ritorni a casa dei pendolari.

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Paradossalmente le fortune di Rush Limbaugh, la star della radio americana conservatrice, morto oggi a 70 anni d’età, sono tramontate allorché Donald Trump è arrivato alla Casa Bianca. In passato, Limbaugh dai microfoni del suo show, “che non aveva bisogno di ospiti, perché l’attrazione era lui”, aveva agito da braccio armato dei trionfi della famiglia Bush, salvo affrancarsi dal casato texano sostenendo che non fossero veri repubblicani, perché non condividevano le idee più radicate della base conservatrice del paese. Così facendo, fumando sigari e sibilando profezie contro le élite, Rush aveva finito per prendere le distanze dall’acquario repubblicano, abiurando perfino Newt Gingrich, di cui era stato fervente sponsor, trasformandosi nell’ideologo dei Tea Party, promulgandone il verbo dalle autoradio negli interminabili ritorni a casa dei pendolari.

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Poi, di fronte all’ascesa di Obama, aveva giocato la parte del battitore libero dell’America scontenta e rabbiosa, quella col lungo elenco di cose da raddrizzare: Obama per lui era il “magic negro”, un “nero nemmeno autentico”, perfetto per dare sollievo ai bianchi col senso di colpa. Le donne che entravano in politica erano “femi-nazis” e non si mostrava mai a corto di bigotterie e razzismi da rivolgere agli omosessuali, alle minoranze, a Greta Thunberg. Rush, il king della talk radio americana, sparava ad alzo zero e il suo pubblico annuiva, perché lui le cantava chiare e con quella perfida arguzia che gli valeva tutto l’odio possibile da parte dell’altra America.

 

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Eppure, con la vittoria di Trump, le cose per Limbaugh hanno preso a declinare. Il problema era che il nuovo presidente giocava duro quanto lui, le sparava altrettanto grosse e attaccava senza ritegno, ma su media diversi. Le ossessioni di Trump erano Twitter e le cable tv, Fox News in testa, quelli erano i “suoi” media, quelli del suo tempo e del suo successo. La radio Donald non la capiva, non era nelle sue corde. E Limbaugh, che pure l’aveva sostenuto con entusiasmo, di colpo s’è ritrovato a non essere più la voce più ascoltata dell’intrattenimento politico, soppiantato da nuove star provocatorie come Sean Hannity e Glenn Beck. Se lo poteva permettere: ricco di famiglia e premiato da megacontratti, poteva continuare a giocare il ruolo dell’ammazza-liberal senza debiti di riconoscenza verso il potere. Solo nel finale della presidenza Trump si è accorto del potenziale alleato che aveva lasciato indietro, colui che sera dopo sera poteva lavorare ai fianchi la nazione per convincerla che non era questione di partiti, ma di leadership. Un anno fa Rush s’era visto insignire della medaglia della Libertà, suprema onorificenza americana, e il presidente aveva cominciato ad ammiccare verso di lui. Purtroppo il medico di fiducia gli aveva già recapitato pessime notizie: il tumore lo stava attaccando nemmeno fosse un attivista del Black Lives Matter. “Le cose stanno cosi. Lo sapete: io sono il sindaco di Veritopoli”, predicava dai suoi studi. Ma il tempo e il mondo ormai correvano troppo in fretta, perfino per uno con la lingua sciolta come la sua.

 

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