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Superare la Via della Seta

Più Draghi, meno Dragone

L’atlantismo, la collocazione nel mondo e le geometrie della nuova Italia. La chiave il dossier cinese. Una rivoluzione possibile, che parte dall’Italia e arriva in Europa. Inchiesta

Giulia Pompili

Finora il M5s era stato il partito più vicino alla Cina. Poi c'è stata la conversione atlantista di Di Maio. Ma per costruire una politica estera coerente serve avere le idee chiare e la fiducia degli alleati. Di Mario Draghi è difficile trovare anche solo un virgolettato su un media cinese, ed è il funzionario che menziona meno la Cina nei suoi discorsi. Da presidente della Bce, mise la firma sul primo investimento in valuta cinese per le riserve ufficiali. Ecco come, secondo gli esperti, si costruisce un rapporto sano con Pechino 

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Draghi e il Dragone. E’ l’espressione che si sente ripetere più spesso in questi giorni tra chi si occupa di affari asiatici ed europei. L’arrivo di Mario Draghi a Palazzo Chigi, in Italia, è stato notato da tutti anche al di là del Pacifico, soprattutto per il peso specifico della figura che si è insediata a capo del nuovo governo italiano. E’ una notizia, considerato che negli ultimi anni le complicate vicende politiche del nostro paese, l’instabilità, i cambi di maggioranze e di governi, avevano reso l’Italia poco attraente agli occhi dei paesi asiatici. I diplomatici di stanza a Roma per un lungo periodo di tempo, almeno dalla fine del governo Gentiloni e l’inizio del governo gialloverde, a volte preferivano  evitare i dettagli nei report da inviare periodicamente ai rispettivi ministeri degli Esteri: la politica italiana era troppo poco coerente e complicata  per venirne a capo in maniera efficace. E invece adesso tutti conoscono Draghi, tutti hanno avuto a che fare con Draghi, e sono  tornati anche  l’interesse e la curiosità per l’Italia da parte dei paesi extra-Ue. “Il presidente Moon Jae-in vorrebbe tenere un bilaterale con Draghi il prima possibile, forse proprio in occasione del G7”, dice al Foglio una fonte governativa sudcoreana. Il summit dei grandi della terra quest’anno si tiene in Cornovaglia a giugno, e per la prima volta sarà esteso a tre leader di potenze asiatiche: l’India di Narendra Modi, l’Australia di Scott Morrison  e la Corea del sud di Moon. Tre potenze che hanno soprattutto una cosa in comune: cercare di frenare la politica assertiva cinese. Secondo la fonte del Foglio, anche la presidenza del G20 italiana, con Draghi al comando, assumerà tutto un altro valore: “Tutti vogliono incontrarlo perché tutti lo conoscono”, dice. Il G20, il  foro internazionale che riunisce le principali economie del mondo, quest’anno si terrà per la prima volta in Italia, e serve uno sforzo organizzativo spaventoso. Il piano è di farlo  a Roma il 30 e 31 ottobre, e infatti tra le sedi diplomatiche dei paesi industrializzati è già partita la corsa alle prenotazioni degli hotel di lusso della capitale – sperando che la pandemia permetta di organizzarlo in presenza, come sarà per  il G7 inglese. Il nuovo piano vaccinale di Draghi è una sfida anche in questo senso. E c’è da giurare che al summit di giugno, il primo vertice internazionale con l’ex governatore della Banca d’Italia alla guida del governo italiano, si parlerà soprattutto di un argomento: la Cina. 

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Draghi e il Dragone. E’ l’espressione che si sente ripetere più spesso in questi giorni tra chi si occupa di affari asiatici ed europei. L’arrivo di Mario Draghi a Palazzo Chigi, in Italia, è stato notato da tutti anche al di là del Pacifico, soprattutto per il peso specifico della figura che si è insediata a capo del nuovo governo italiano. E’ una notizia, considerato che negli ultimi anni le complicate vicende politiche del nostro paese, l’instabilità, i cambi di maggioranze e di governi, avevano reso l’Italia poco attraente agli occhi dei paesi asiatici. I diplomatici di stanza a Roma per un lungo periodo di tempo, almeno dalla fine del governo Gentiloni e l’inizio del governo gialloverde, a volte preferivano  evitare i dettagli nei report da inviare periodicamente ai rispettivi ministeri degli Esteri: la politica italiana era troppo poco coerente e complicata  per venirne a capo in maniera efficace. E invece adesso tutti conoscono Draghi, tutti hanno avuto a che fare con Draghi, e sono  tornati anche  l’interesse e la curiosità per l’Italia da parte dei paesi extra-Ue. “Il presidente Moon Jae-in vorrebbe tenere un bilaterale con Draghi il prima possibile, forse proprio in occasione del G7”, dice al Foglio una fonte governativa sudcoreana. Il summit dei grandi della terra quest’anno si tiene in Cornovaglia a giugno, e per la prima volta sarà esteso a tre leader di potenze asiatiche: l’India di Narendra Modi, l’Australia di Scott Morrison  e la Corea del sud di Moon. Tre potenze che hanno soprattutto una cosa in comune: cercare di frenare la politica assertiva cinese. Secondo la fonte del Foglio, anche la presidenza del G20 italiana, con Draghi al comando, assumerà tutto un altro valore: “Tutti vogliono incontrarlo perché tutti lo conoscono”, dice. Il G20, il  foro internazionale che riunisce le principali economie del mondo, quest’anno si terrà per la prima volta in Italia, e serve uno sforzo organizzativo spaventoso. Il piano è di farlo  a Roma il 30 e 31 ottobre, e infatti tra le sedi diplomatiche dei paesi industrializzati è già partita la corsa alle prenotazioni degli hotel di lusso della capitale – sperando che la pandemia permetta di organizzarlo in presenza, come sarà per  il G7 inglese. Il nuovo piano vaccinale di Draghi è una sfida anche in questo senso. E c’è da giurare che al summit di giugno, il primo vertice internazionale con l’ex governatore della Banca d’Italia alla guida del governo italiano, si parlerà soprattutto di un argomento: la Cina. 

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Sarà la prima volta, dopo almeno un paio di anni, in cui i leader del mondo guarderanno all’Italia con occhi diversi. Perché tra le discontinuità più importanti di questo nuovo governo, di cui forse si discuterà meno in Italia, c’è il nostro rapporto con Pechino. Già nei giorni delle consultazioni Mario Draghi ha insistito continuamente, e con tutti, sulla vocazione dell’esecutivo guidato da lui: europeista e atlantista. Nessuno spazio per ripensamenti e per nuove amicizie di convenienza. Un messaggio forte, ripetuto anche per chiarire il rapporto di fiducia con gli alleati tradizionali, non solo americani, in un momento di estrema delicatezza dopo l’insediamento della nuova Amministrazione Biden. Un rapporto che era stato messo in discussione dalla superficialità della Lega, che era al governo durante l’adesione dell’Italia alla Via della Seta cinese, e soprattutto dal Movimento cinque stelle che, fino all’improvvisa e recente conversione del ministro degli Esteri Luigi Di Maio all’atlantismo, aveva sempre difeso le attività cinesi, in patria e all’estero.  


A Pechino piaceva molto il governo Conte, perché c’erano “ampi margini di collaborazione win-win”, come ripetono ossessivamente i funzionari cinesi. Ma a Pechino piacciono anche di più gli interlocutori autorevoli. Sono loro quelli che tradizionalmente la Cina rispetta di più: chi si fa fregare in modo facile, chi si presta alla propaganda senza avere statura politica, ma anche chi insulta senza avere l’autorevolezza, non ha molto potere d’influenza nel mondo della politica asiatica. Soprattutto perché, specialmente con la Cina, la diplomazia si costruisce con i rapporti personali, con gli incontri, le conversazioni, la fiducia. Per capire la differenza con cui, da Pechino, è stato accolto Mario Draghi a Palazzo Chigi, basta ricordare un piccolo episodio che qualche tempo fa ha avuto per protagonista Luigi Di Maio.

 

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Il 5 settembre del 2019, con il cambio di governo dal Conte I al Conte II,  l’allora capo politico del Movimento cinque stelle passò dal ministero dello Sviluppo economico al ministero degli Esteri. Attraverso il suo ufficio di Bruxelles la Xinhua, l’agenzia di stampa statale di Pechino,  seguiva con interesse i cambi in corso a Roma e venne pubblicato un primo resoconto, un po’ commentato,  sull’evoluzione politica di Di Maio. Nel ritratto del ministro si leggeva: “Luigi Di Maio, capo del M5s, è una scelta inusuale per il ministero degli Esteri. Il 33enne non si è mai laureato, ha competenze linguistiche molto limitate e ha sempre mostrato scarso interesse per le questioni globali nella sua vita pubblica”. Dopo qualche ora, l’intero paragrafo è stato eliminato dall’articolo. Per riparare, due giorni dopo un’altra analisi rassicurava: la Cina resterà una priorità nel nuovo governo Conte. E poi si spiegava che “Ettore Francesco Sequi, ambasciatore d’Italia a Pechino dal 2015, tornerà a Roma come capo di gabinetto di Luigi Di Maio, segno dell’importanza che il nuovo governo e lo stesso Di Maio stanno dando ai suoi legami con la Cina. Luigi Di Maio, esperto uomo di stato italiano, che ha visitato più volte la Cina come vice primo ministro e ministro dello Sviluppo economico nel primo governo di Conte, ha già detto che il rafforzamento delle relazioni con la Cina è coerente con la politica di ‘Italy First’”. Il cambio in corsa del ritratto di Xinhua aveva una ragione: era stato proprio quel ministro, nel marzo del 2019, ad  apporre la firma sul Memorandum d’intesa sulla Via della Seta, il mastodontico progetto politico della Cina per aumentare l’influenza strategica globale, e che parlar male di lui avrebbe significato svelare il trucco: li abbiamo fregati. E insomma sono ormai lontanissimi quei momenti un po’ improvvisati del 2018, quando Di Maio,  alla sua prima volta in Cina, a Shanghai,  durante conferenze stampa un po’ imbarazzanti, le uniche  in italiano,   chiamò il presidente Xi Jinping “presidente Ping” (lo ha fatto anche Rudy Giuliani, giorni fa, che lo ha chiamato “Zi Jingming”).

 


  

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La conferma di Luigi Di Maio alla guida del ministero degli Esteri dimostra che qualcosa è cambiato, che la conversione all’atlantismo ha pagato, e due anni di esperienza in uno dei ministeri più complicati – ma anche tra i più controllati, grazie al lavoro di funzionari e diplomatici di carriera – valgono forse come una laurea in Scienze delle relazioni internazionali.   Eppure la decisione di Draghi ha sorpreso molte sedi diplomatiche romane. Quasi tutti erano infatti convinti che alla Farnesina sarebbe arrivata Elisabetta Belloni, dal 2016 segretaria generale degli Esteri, molto apprezzata in questi anni e da tempo in attesa di un ruolo  esecutivo.  

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Su Mario Draghi, soprattutto dopo la convocazione del presidente Mattarella, la Xinhua ha scritto poco o niente. Negli articoli dedicati alla crisi italiana è definito solo “l’ex governatore della Banca centrale europea”: ci sarebbe molto altro da dire, ma non serve dirlo. 

 

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Se i due governi di Giuseppe Conte erano considerati pro-Cina perfino dai cinesi, dopo la svolta atlantista di Di Maio, ci spiega una fonte diplomatica brussellese, la sensazione era che l’Italia stesse tornando alla difesa del modello di libertà e dello stato di diritto. Del resto, tutte le promesse fatte dopo l’adesione alla Via della Seta non sono arrivate, e il deficit commerciale con la Cina continua ad aumentare: nel 2020 il saldo è stato negativo per l’Italia, perché a fronte di una contrazione dell’export abbiamo importato tantissimo (più venti per cento di media). Dopo l’inizio dell’emergenza sanitaria in Italia, con Di Maio che ringraziava gli “aiuti cinesi” di mascherine e respiratori che in verità abbiamo acquistato (per la modica cifra di 1,57 miliardi di euro secondo i dati openpolis, un dato che ha pesato tantissimo sulla ripresa dell’export cinese nell’annus horribilis 2020), in ogni occasione istituzionale il ministro degli Esteri spiegava di avere una visione “saldamente” atlantista ma di voler esplorare la Cina come partner commerciale. Una  semplificazione azzardata se guardata da un osservatore straniero: non basta dirle le cose, bisogna dimostrare di distinguere tra propaganda e opportunità. Ad aumentare la confusione tra le cancellerie asiatiche è arrivato poi Giuseppe Conte, che nel suo discorso alle Camere, il 18 gennaio scorso, ha inserito un passaggio molto criticato, che non è passato inosservato nelle sedi diplomatiche romane. Conte ha detto che l’Italia, “quale autorevole membro dell’Ue – funzione pienamente recuperata in questo tratto di legislatura – ha la possibilità di offrire un importante contributo a un’utile azione di raccordo fra i principali attori internazionali, a partire naturalmente dagli Stati Uniti – nostro principale alleato e fondamentale partner strategico – e dalla Cina, il cui innegabile rilievo sul piano globale ed economico va associato a rapporti coerenti con un chiaro ancoraggio al nostro sistema di valori e principi”. Forse Conte voleva dire che la Cina di Xi Jinping è un interlocutore in quanto seconda economia del mondo, ma il passaggio, inserito in quel contesto, fa il gioco della propaganda di Pechino, e cioè: l’America non è più l’unico modello possibile. E pure la folle ambizione di assumere il ruolo di intermediario tra Washington e Pechino, per un esecutivo che ha detto tutto e il contrario di tutto (oppure niente) sulla politica estera, è sembrata una forzatura. Ma che l’Unione europea non si fidasse dell’Italia quando c’era di mezzo la Cina e i dossier più delicati si era capito perfettamente il 31 dicembre scorso, quando la cancelliera tedesca Angela Merkel, il presidente francese Emmanuel Macron e la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen hanno annunciato la fine dei negoziati con la Cina per l’Eu-China Comprehensive Agreement on Investments (Cai). L’Italia, che pure fino ad allora aveva millantato un “rapporto privilegiato” con Pechino dopo la firma della Via della Seta, non ha nemmeno visionato il testo dell’accordo prima della sua stesura finale, e si parla di un furioso Pietro Benassi, sottosegretario e braccio destro di Conte prima del passaggio ai servizi segreti, che voleva un po’ di Italia (e un po’ di Conte) anche in quel negoziato con la Cina. Ma niente, zero. 

 


Eppure se lo litigavano, il favore di Pechino, Conte, Di Maio e Michele Geraci, il sottosegretario della Lega tornato a fare il professore in Cina, onnipresente sui media cinesi. Soprattutto Alessandro Di Battista, “il Bruce Chatwin che ci meritiamo”, come ha scritto Guia Soncini su Linkiesta. In un intervento pubblicato sul Fatto quotidiano il 19 aprile 2020, se la prendeva con Mario Draghi, “l’apostolo Draghi”, che quando parla “tutti i valletti si spellano le mani”, e poi, qualche paragrafo più in basso, scriveva che “il rapporto privilegiato con Pechino, piaccia o non piaccia è anche merito del lavoro di Di Maio ministro dello Sviluppo economico prima e degli Esteri poi”. “La Cina vincerà la terza guerra mondiale senza sparare un colpo e l’Italia può mettere sul piatto delle contrattazioni europei tale relazione”: ecco, non è andata proprio così. Ma nessuno ha fatto caso, in Asia, al fatto che Di Battista è uscito dal Movimento quando il Movimento ha deciso di lavorare con l’atlantista Draghi. Per l’altro sostenitore dei rapporti speciali con Pechino, il sottosegretario agli Esteri uscente che forse sarà riconfermato, Manlio Di Stefano – che visitò Hong Kong nel mezzo delle proteste e disse che erano affari interni della Cina, che non si è perso, fino a che ha potuto, un evento Huawei, che sosteneva che Pechino era la soluzione dei problemi di export italiani – dicevamo: anche per lui inizia un nuovo governo europeista e atlantista.

 

 

Ma il filo rosso cinese degli ultimi governi non si fermava al Movimento. Come ha scritto su queste colonne Valerio Valentini, ad aiutare “Giuseppi” nella ricerca dei “responsabili” per un Conte ter c’era anche l’avvocato Luca Di Donna, presidente del primo corso di laurea della Sapienza in Cina, ospitato dall’Università Zhongnan di Wuhan. Quando nel 2019 è stato inaugurato questo pezzo della romanità accademica in Cina, Conte ha mandato un messaggio di congratulazioni, e a Wuhan sono volati tutti: Di Donna, l’allora rettore Eugenio Gaudio, il delegato per la Cina della Sapienza, il sinologo Federico Masini, che da ben quindici anni è l’incontrastato direttore dell’Istituto Confucio di Roma, uno dei più grandi d’Europa, l’unico luogo dell’università italiana dove girano i soldi per via del cospicuo contributo del ministero dell’Istruzione cinese. In tutto il mondo gli Istituti Confucio sono guardati con sospetto perché sono gli unici a essere “ospitati” direttamente dalle università (e dai licei, ma soltanto in Italia). E perché oltre alla lingua ci sarebbe anche un’influenza sull’attività accademia, se non diretta, ma almeno di autocensura. Per questo in America, Europa, Canada, Australia, molte università hanno già chiuso le loro collaborazioni con questi enti di promozione della lingua cinese, tanto che Pechino gli ha dovuto cambiare nome, e ora si chiamano Center for Language Education and Cooperation (Clec). In Italia il dibattito sugli Istituti Confucio nelle università non è mai nemmeno decollato. 


Di Mario Draghi è difficile trovare anche solo un’intervista su un media cinese. Ed è il funzionario che menziona meno la Cina nei suoi discorsi. E’ un record, in un periodo in cui tutti parlano della Cina per accusarla di qualcosa o per trasformarla nella terra promessa delle opportunità economiche. Oltre alla cornice del  dichiarato atlantismo ed europeismo, la sua visione si rintraccia nei dettagli. In un discorso del 2019 all’Università di Bologna, per esempio, Draghi ribadisce ciò che ripete spesso e da tempo. Da un lato la globalizzazione è l’opportunità, ma va costruita coordinandosi: “La cooperazione, proteggendo gli Stati nazionali dalle pressioni esterne, rende più efficaci le sue politiche interne”. Con paesi rapaci come la Cina se negoziamo da soli siamo esposti, deboli. Se negoziamo insieme no. E vale davvero la pena propagandare l’apertura del mercato cinese per l’Italia come la panacea per tutti i mali economici, come pure hanno fatto i Cinque stelle ai tempi della firma dell’intesa con la Cina?  In quel discorso Draghi spiega che “la maggior parte del commercio mondiale avviene all’interno di tre grandi blocchi: l’Unione europea, l’Accordo nordamericano per il libero scambio e l’Asia che, nonostante una crescita nelle loro relazioni commerciali, restano relativamente chiusi tra loro, con una quota di scambi al di fuori del blocco inferiore al 15 per cento del prodotto. Fra questi tre blocchi, l’Ue è il più integrato. […]  In concreto, significa che l’Italia esporta di più in Spagna che in Cina e più in Austria che in Russia o in Giappone. Nel 2017 gli investimenti tedeschi in Italia sono stati pari a 5 volte quelli americani”. La differenza è notevole: quando Di Maio esaltava le arance siciliane esportate dall’Italia  in Cina  era per pura mediaticità (quella che un tempo si chiamava propaganda), così come quando ringraziava la Cina per gli aiuti contro il virus, ma la verità è che  l’Italia aveva ricevuto molti più aiuti dai paesi dell’Unione. 


Quando si parla dei rapporti di Draghi con la Cina con osservatori esteri viene menzionata  soprattutto una cosa: nel periodo in cui era governatore della Banca centrale europea, Draghi mise la firma sul primo investimento in valuta cinese per le riserve ufficiali, approvato all’inizio del 2017. Il renminbi (o yuan) si era per la prima volta  aggiunto al dollaro – che resta la principale riserva valutaria d’Europa – allo yen giapponese, all’oro e ai diritti speciali di prelievo. Un investimento simbolico, da 500 milioni di euro, che secondo la nota della Bce rifletteva “anche l’importanza della Cina come uno dei più grandi partner commerciali dell’Unione”. Era stata una mossa di certo non politica, ma di sicuro tecnica, fatta per mettere in sicurezza i mercati. Insomma Draghi non esclude la Cina dalla globalizzazione, né la ignora, ma sa guardare a oriente, e forse sa che le opportunità, anche commerciali, è meglio farle con chi ci si può fidare. Per esempio “l’altra” Cina, cioè la Repubblica di Cina. Un’altra fonte diplomatica in Italia racconta al Foglio che all’inizio degli anni Novanta Mario Draghi, allora super direttore generale del ministero del Tesoro, insieme con il ministro Piero Barucci “riuscì a piazzare Btp italiani nei mercati asiatici. La Banca centrale di Taiwan ne acquistò circa 500 milioni in dollari americani”. E’ un aneddoto simbolico, perché  Taiwan è una delle vittime più importanti di due anni di governo in cui la politica estera, specialmente quella asiatica, è stata un po’ improvvisata. A un certo punto  dell’epidemia il ministero degli Esteri ha deciso per uno stop a tutti i voli da e per la Cina. E nonostante l’isola di Taiwan avesse pochissimi casi (è ancora oggi l’unico paese dove il virus, sin dall’inizio, è stato tenuto sotto controllo) l’Italia ha deciso di inserirla nella lista dei luoghi proibiti. Di certo lo ha fatto per non urtare Pechino, che tiene molto alla “One China Policy”, cioè al suo diritto di considerare Taiwan parte del suo territorio. Per rappresaglia, pochi giorni dopo, il governo di Taipei ha sospeso l’importazione di carne di maiale dall’Italia, con gli allevatori (soprattutto sardi) sul piede di guerra: solo nel 2019 il valore delle esportazioni per Taiwan dall’Italia hanno raggiunto quasi i 3 milioni di euro. E l’Italia è il quarto partner commerciale dell’Unione per Taiwan, insomma non proprio insignificante. Per non parlare di quello che l’Italia condivide con l’isola di Formosa: il sistema democratico. 

 

 

La Cina, al contrario,  è un partner commerciale magari ghiotto, ma complicato e  imprevedibile. Diverse lezioni su questo punto ce le hanno date le aziende: essere dipendenti a livello commerciale dalla Cina significa che al primo passo falso di politica estera che non piace a Pechino la rappresaglia si sposta su un piano economico. Per esempio, le aziende del fashion, pur di evitare il boicottaggio della nuova classe media cinese, farebbero qualunque cosa ormai (ricordate il caso Dolce & Gabbana?). E poi c’è l’esempio calcistico: le due squadre che hanno avuto a che fare con proprietari cinesi, il Milan e l’Inter, sono finite nei guai. Deng Xiaoping  negli anni Settanta vuole usare il calcio per aprirsi all’occidente, Xi Jinping ne vede soprattutto l’elemento di soft power e il vantaggio economico. Le due squadre milanesi sono molto conosciute in Cina sin dal primo tour  dell’Inter nel paese, nel giugno del 1978, quando il trentenne Xi assistette insieme ad altre 80 mila persone alla partita contro la nazionale. I milionari cinesi negli ultimi cinque anni hanno investito molto nelle squadre straniere, ma poi, periodicamente, hanno mollato: “Da un lato c’è il controllo dei capitali che Xi sta applicando ai suoi ricchi, soprattutto quando portano i loro soldi all’estero”, dice al Foglio un vecchio diplomatico giapponese ormai in pensione, che preferisce restare anonimo per la delicatezza dell’argomento, “nel caso dell’Inter, la Suning Holdings Group di Zhang Jindong, che ha legami strettissimi con Alibaba di Jack Ma, potrebbe essere caduta nel controllo dei capitali del colosso tech che sta facendo la Consob cinese”. L’accusa di corruzione e l’esproprio, quello di cui hanno più paura i ricchi cinesi, è sempre dietro l’angolo. Altra lezione per i Cinque stelle:  la Cina potrà anche avere i soldi (e su questo non sono tutti d’accordo), ma di sicuro non è un partner affidabile. E non lo è anche per altre ragioni.      


In un commento pubblicato il 4 febbraio scorso su Project Syndicate, Melvyn Krauss, docente emerito di Economia alla New York University e senior fellow della Hoover Institution, scrive che l’arrivo di Mario Draghi al governo italiano, “subito dopo l’insediamento di Joe Biden alla Casa Bianca e con l’imminente ritiro della cancelliera Merkel, significa che il presidente francese Emmanuel Macron non sarà più una figura isolata quando si schiererà per l’occidente e i valori democratici”. Secondo l’influente economista, dopo l’indebolimento dei valori occidentali dovuto alla presidenza Trump e al diffondersi del  populismo europeo – con Boris Johnson e i governi in Ungheria, Polonia, Slovenia – Draghi può trasformarsi nell’alfiere della democrazia non solo in Italia, ma anche dentro all’Unione europea: “Viste le sfide esterne come Russia e Cina e le minacce interne del populismo e degli autoritarismi, un’Europa post-Merkel ha bisogno di leader in sintonia con l’Amministrazione Biden e a favore della democrazia. Avere Draghi, che è molto filoamericano, nella leadership centrale dell’Unione, rappresenta un notevole passo in quella direzione”. 


Non è un segreto che la Cina sia  la priorità della politica estera di Joe Biden. E ormai abbiamo capito che non cambieranno i fondamentali della politica di Donald Trump, tranne che per i modi. Per capirlo basta leggere “The Longer Telegram”, un paper di cui si è discusso moltissimo ovunque – tranne che in Italia. Pubblicato dall’Atlantic Council, il paper è firmato da un anonimo ex funzionario del Dipartimento di stato (si parla di un obamiano, non un falco anticinese dell’èra Trump) che conosce bene la Cina. Il titolo della relazione si ispira a quella del celebre telegramma che George Kennan, ex ambasciatore a Mosca, inviò al segretario di stato James Byrnes per rifondare la politica  dei rapporti con l’Unione sovietica e dare il via alla “strategia del contenimento”. L’anonimo diplomatico contemporaneo scrive un telegramma ben più lungo, di oltre settanta pagine, per spiegare quanto l’ascesa di una sempre più autoritaria Cina sotto il presidente Xi Jinping sia la sfida più seria e importante per il mondo democratico sin dalla Seconda guerra mondiale. E’ un documento fondamentale, che spiega le priorità di Pechino, le vulnerabilità di Pechino, e quello che dobbiamo aspettarci: “La Cina di Xi Jinping, a differenza di quella sotto Deng Xiaoping, Jiang Zemin e Hu Jintao, non è più una potenza che preferisce lo status quo. E’ diventata una potenza revisionista”. 


David Shambaugh, direttore del programma sulla Politica della Cina alla Elliott School of International Affairs della George Washington University, che era in lista per un posto nel team asiatico di Biden, raggiunto via email dal Foglio spiega perché bisogna cominciare a studiare davvero la figura del leader cinese: “Non vedo alcun segnale che ci faccia pensare che Xi sia interessato a dimettersi, al contrario. Quindi tutti gli altri paesi avranno a che fare con lui per molti anni a venire – ammesso che la sua salute resista o che non ci sia un colpo di stato”. Contrariamente a quanto qualcuno aveva suggerito un anno fa, sul fatto che la pandemia avrebbe potuto mettere nei guai la leadership di Xi e del Partito comunista, “penso che Xi a livello domestico sia ancora forte, e forse più forte, proprio grazie a questo anno”, dice al Foglio lo storico Kerry Brown, uno dei più famosi e influenti sinologi al mondo, direttore del Lau China Institute al King’s College di Londra. “In parte è successo che la pandemia, come problema di salute pubblica, è stata contenuta, e l’impatto economico che sembrava serio all’inizio poi è migliorato. D’altro lato, i cittadini possono vedere che il resto del mondo ha fallito dove la Cina invece è riuscita, quindi hanno aumentato la loro tolleranza nei confronti del governo. Non ci sono evidenze di possibili contendenti di Xi Jinping attualmente, e non ha nemmeno un successore diretto”, spiega il professor Brown. “Tuttavia, a livello internazionale, la Cina ha subìto un duro colpo” per via della pandemia. “Il virus è il primo problema, ma poi c’è il gioco delle colpe su come è iniziato e se la Cina avrebbe dovuto fare di più per allertare il resto del mondo su cosa stava succedendo. Oltre a questo, sono aumentate anche le critiche per la situazione Hong Kong e nello Xinjiang”. Questa situazione, secondo Brown, è inedita: “Il vero problema è la Cina non è mai stata forte come adesso, e non ha mai provocato così forti sentimenti nel mondo esterno, che però ha pochissimo spazio per fare qualcosa a riguardo”. Insomma, conclude Brown, “ci aspettano anni difficili!”. 


In un contesto simile, per scegliere da che parte stare, pur continuando a non ignorare la seconda economia del mondo e anzi facendoci affari, bisogna avere una statura politica di rilievo. Tutto il resto è complicato e scivoloso. E infatti a oggi non solo l’Italia, ma a volte anche l’Unione europea sembra non aver capito l’importanza delle politiche asiatiche in questa fase, e la trasformazione della Cina in una superpotenza autoritaria alla quale servono soprattutto spot pubblicitari. Melvyn Krauss cita l’esempio dei negoziati per il Cai, chiusi in tutta fretta mentre Donald Trump stava uscendo dalla Casa Bianca e il team di Biden era in piena transizione. Pur essendo un accordo commerciale negoziato a lungo e probabilmente vantaggioso per l’Ue, continuare a dividere il piano commerciale da quello politico, con la Cina, può essere pericoloso: “L’Europa è stata ben consigliata a lavorare a stretto contatto con la nuova Amministrazione americana per rafforzare la sua autonomia a lungo termine”, dice al Foglio Janka Oertel, direttrice del programma Asia allo European Council on Foreign Relations. “Gli Stati Uniti non sono più in grado di gestire da soli le sfide non militari che la Cina pone all’economia globale e all’ordine internazionale, hanno bisogno e vogliono lavorare con gli alleati in Europa e in Asia. Continuare a rafforzare le relazioni commerciali con la Cina probabilmente  porterà ad aumentare la dipendenza dal mercato cinese e dalla buona volontà della leadership cinese. Sarebbe l’opposto dell’autonomia”. Con l’obiettivo di  costruire un sano rapporto con Pechino, bisogna sempre di più guardare all’esempio che arriva da oriente ed essere alleati credibili.  Draghi a Palazzo Chigi è già un gran bel passo avanti.

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