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Una crisi culturale

L'ultima sulle epurazioni al New York Times

Le pressioni dei giovani woke (e autoritari) dentro al quotidiano hanno fatto sì che il veterano McNeil perdesse il lavoro. Il dissenso è cancellato, ma anche la competenza

Paola Peduzzi

Il direttore Baquet ha detto che McNeil ha sbagliato, ma che le sue intenzioni non erano “cariche d’odio né maliziose” e quindi bisognava dargli “un’altra chance”. 150 dipendenti in una lettera dicono: le intenzioni non contano, McNeil ha utilizzato una parola proibita, deve essere rimosso.

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Donald McNeil è un giornalista americano il cui nome forse non vi dice niente ma che molto probabilmente avete letto di recente: al New York Times dal 1976, corrispondente dall’Africa e dall’Europa per molti anni, oggi 67enne, McNeil è specializzato in scienze, salute e soprattutto epidemie. Ha scritto del virus Hiv, di malaria, influenza suina e aviaria, di Zika, Ebola e naturalmente del coronavirus. Nell’ultimo anno la sua competenza è stata molto utile ai lettori e anche per il New York Times: nell’incertezza  emotiva e informativa della pandemia, McNeil è uno di quei giornalisti che hanno fatto la differenza. C’è chi dice che il Pulitzer è assicurato, ma intanto non ha più il suo posto di lavoro: è stato licenziato.

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Donald McNeil è un giornalista americano il cui nome forse non vi dice niente ma che molto probabilmente avete letto di recente: al New York Times dal 1976, corrispondente dall’Africa e dall’Europa per molti anni, oggi 67enne, McNeil è specializzato in scienze, salute e soprattutto epidemie. Ha scritto del virus Hiv, di malaria, influenza suina e aviaria, di Zika, Ebola e naturalmente del coronavirus. Nell’ultimo anno la sua competenza è stata molto utile ai lettori e anche per il New York Times: nell’incertezza  emotiva e informativa della pandemia, McNeil è uno di quei giornalisti che hanno fatto la differenza. C’è chi dice che il Pulitzer è assicurato, ma intanto non ha più il suo posto di lavoro: è stato licenziato.

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Nel 2019, McNeil era andato in Perù in un viaggio-studio con un gruppo di liceali e durante una cena una studentessa gli aveva posto una domanda: una sua amica, quando aveva 12 anni, aveva usato in un video l’n-word, il dispregiativo contro le persone di colore, era giusto sospenderla? McNeil le aveva chiesto il contesto dell’utilizzo di quella parola, se era stata usata come un insulto diretto o no, e chiedendolo lo stesso McNeil aveva citato la parola proibita. Così è partito lo scandalo interno al quotidiano newyorchese, che all’inizio è stato circoscritto dal direttore esecutivo Dean Baquet che ha compreso la differenza tra utilizzare una parola insultante e citarla. Baquet ha detto che McNeil ha sbagliato, ma che le sue intenzioni non erano “cariche d’odio né maliziose” e quindi bisognava dargli “un’altra chance”. Poi però è arrivata la lettera di 150 dipendenti del New York Times al management: “La nostra comunità è indignata e addolorata”, scrivono, e nonostante l’impegno a bandire questi comportamenti, s’è deciso di salvare McNeil che non soltanto ha usato la parola proibita ma che, secondo “odierni e passati dipendenti” del quotidiano, “ha mostrato pregiudizi verso le persone di colore nel suo lavoro e nelle interazioni con i colleghi”.

 

In quel viaggio poi, lui che era pagato per insegnare ai ragazzi, “ha dichiarato che il suprematismo bianco non esiste”. I 150 citano lo stylebook interno che definisce le regole del linguaggio in cui si  dice che insulti come quello utilizzato da McNeil contribuiscono “alla brutalità del discorso pubblico” (omettendo quello che il libro di stile dice subito dopo, cioè che se l’utilizzo delle parole “è essenziale alla comprensione del lettore” si può discutere insieme di fare un’eccezione). Soprattutto i 150 dicono: “Le intenzioni”, cioè la giustificazione di Baquet, “sono irrilevanti”. Il contesto non importa, la differenza tra utilizzare un insulto e citarlo non importa: l’ha detto e basta. Per di più che è anche un uomo intrattabile, è difficile lavorare con lui, non rispetta le sensibilità altrui: questo non era nei capi d’accusa formali, ma in quelli sui social sì.

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McNeil ha perso il lavoro. Baquet e gli altri si sono  sottomessi all’indignazione dei 150, questa nuova  polizia morale che dentro al New York Times ha già determinato altre epurazioni eccellenti, che è giovane, è sindacalizzata (anche se ha una solidarietà molto selettiva), è  woke, è autoritaria. Soprattutto ha un grande potere, che la direzione del New York Times non riesce a gestire con conseguenze che non riguardano soltanto la sua credibilità. Le grandi purghe autoritarie della storia insegnano che il dissenso viene cancellato, certo, ma spesso pure la competenza.

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