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Da che parte mi siedo

Nella big tent dei repubblicani c’è un “gran casino”. Cosa si tiene, cosa si butta, chi fa ordine

Il primo bersaglio del trumpismo è stato l’establishment conservatore, ora alle prese con i test di lealtà. Il peso della scelta

Paola Peduzzi

Nel gop devono scegliere cosa fare del trumpismo e dei suoi figli. Per ora scelgono di far convivere la Cheney e la Greene, ma sanno che non durerà. Storia di un riposizionamento valoriale che ci riguarda

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Dopo cinque ore di riunione, il Partito repubblicano alla Camera americana ha votato con scrutinio segreto per confermare Liz Cheney come numero tre del partito, nonostante sia a favore dell’impeachment dell’ex presidente Donald Trump, e per confermare (e applaudire) Marjorie Taylor Greene nella commissione Istruzione e Lavoro del Congresso, nonostante abbia sostenuto idee complottiste di QAnon. Come ha scritto Mike Debonis sul Washington Post: “Il Partito repubblicano ha fatto la scelta più ovvia: mantenere la big tent, anche se dentro c’è un gran casino”. La resa dei conti è rimandata: ci sono attività che i partiti politici tendono a evitare o procrastinare, anche se sanno di non poterlo fare all’infinito. Prima o poi bisogna scegliere, come stiamo vedendo anche noi in Italia, dove il mandato a Mario Draghi impone a tutte le forze politiche di schierarsi a favore o contro un approccio moderato, negoziato, di buon senso alla gestione di un paese. Il riposizionamento, come per il Gop americano, non segue le linee partitiche, anzi le spezza in modo netto, e pretende una risposta urgente.

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Dopo cinque ore di riunione, il Partito repubblicano alla Camera americana ha votato con scrutinio segreto per confermare Liz Cheney come numero tre del partito, nonostante sia a favore dell’impeachment dell’ex presidente Donald Trump, e per confermare (e applaudire) Marjorie Taylor Greene nella commissione Istruzione e Lavoro del Congresso, nonostante abbia sostenuto idee complottiste di QAnon. Come ha scritto Mike Debonis sul Washington Post: “Il Partito repubblicano ha fatto la scelta più ovvia: mantenere la big tent, anche se dentro c’è un gran casino”. La resa dei conti è rimandata: ci sono attività che i partiti politici tendono a evitare o procrastinare, anche se sanno di non poterlo fare all’infinito. Prima o poi bisogna scegliere, come stiamo vedendo anche noi in Italia, dove il mandato a Mario Draghi impone a tutte le forze politiche di schierarsi a favore o contro un approccio moderato, negoziato, di buon senso alla gestione di un paese. Il riposizionamento, come per il Gop americano, non segue le linee partitiche, anzi le spezza in modo netto, e pretende una risposta urgente.

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Ai repubblicani sembra di avere più tempo a disposizione: in fondo si è appena votato, e il nuovo presidente Joe Biden si è insediato da sedici giorni. Ma è un’illusione: c’è un impeachment da gestire, ci sono leggi necessarie da votare (lo stimolo anti pandemia, per dire il più importante), ci sono fondi da distribuire, soprattutto quelli che restano nelle casse dei Pac (comitati di azione politica che sostengono partiti e candidati) che portano nomi inequivocabili come Make America Great Again e Save America (più di 60 milioni di dollari), e c’è il prossimo ciclo elettorale da organizzare. Le elezioni di mid-term del 2022 appaiono lontane, ma non lo sono: l’America è un paese che vive in campagna elettorale permanente. Il tempo è un’illusione e il “gran casino” dentro ai repubblicani è enorme e rumoroso, ancor più se colui che è considerato il regista di questa fase di trasformazione e riposizionamento, Mitch McConnell, è così enigmatico che l’unica risorsa rimasta ai commentatori è contare le ore dei suoi silenzi, interpretare i suoi sguardi, scrutare i suoi gesti come fondi di tè. 

   

La crisi su Liz Cheney mostra bene quanto è dilaniato il Partito repubblicano. Deputata del Wyoming dal 2017, Liz è figlia di Dick Cheney, il vicepresidente di Bush junior, e inevitabilmente il simbolo di una tradizione del Partito che fa riferimento al doppio mandato bushiano, l’ultimo per i repubblicani prima del trumpismo, e a quel che rappresenta oggi, dopo che Trump ha volutamente fatto a pezzi proprio quella tradizione, quei riferimenti, quei valori del Partito repubblicano prima di lui. Nella “palude” che Trump voleva bonificare, non c’erano soltanto i democratici, anzi: c’era prima di tutto l’establishment del Partito repubblicano, il primo che risultò sconfitto nel 2016 durante le primarie (stessa sorte toccò dopo a Hillary Clinton, ma appunto: dopo). Una ragazza che ha partecipato a un comizio organizzato in Wyoming contro la Cheney, ha detto al New York Times: “Ero sinceramente convinta che la Cheney fosse the swamp”, la palude. Questa ragazza ha poi cambiato idea, a dimostrazione del fatto che il tormento dei repubblicani non finisce di certo dentro al palazzo. 

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Liz Cheney ha attraversato la seconda fase del trumpismo con tutto il realismo che aveva in corpo, lo stesso che ha segnato molti altri suoi colleghi: si ripetevano ogni giorno che alla Casa Bianca c’era un repubblicano, quella era la cosa importante, ai suoi eccessi si pone rimedio di volta in volta. Dopo l’assalto al Congresso del 6 gennaio, però, dopo settimane in cui Trump ha negato la sconfitta alle presidenziali di novembre e ha chiesto ai suoi elettori di non credere al presidente-impostore (Biden) e di ribellarsi al furto delle elezioni, la Cheney ha deciso di schierarsi contro di lui. “Non c’è mai stato prima d’ora un tradimento più grande da parte di un presidente degli Stati Uniti del proprio ruolo e del giuramento fatto alla Costituzione”, ha detto la Cheney il 12 gennaio, inimicandosi buona parte del suo partito e in particolare i leader al Congresso che tutto vogliono tranne mettere in ordine adesso la big tent. Soprattutto: non vogliono accanirsi su Trump, un po’ perché è un ex, un po’ perché sanno che l’effetto potrebbe essere dirompente. Se fosse Trump, a un certo punto, a voler mettere ordine, spaccherebbe il partito: non è mai stato un paladino dell’unità e della collaborazione, non lo sarebbe certo ora che è fuori dalla Casa Bianca con chi non gli manifesta lealtà assoluta. 

    

   

La lealtà è un altro tormento non piccolo. Liz Cheney si è salvata dal voto interno con un ampio margine perché il voto era segreto: probabilmente ce l’avrebbe fatta in ogni caso, ma con numeri diversi. In privato l’antitrumpismo è spiccato – non si spiegherebbero altrimenti tutte le indiscrezioni e i commenti che hanno scandito la presidenza di Trump e la sua successiva resistenza – ma come è naturale che sia s’indebolisce quando deve diventare pubblico. In questo molti repubblicani assomigliano a molti democratici: la voglia di mettere Trump tra due parentesi e dimenticarselo è molto alta. C’è chi spera in un ritorno del business as usual senza troppi strappi, senza spargimenti di sangue, ma anche questa è un’illusione: bisogna schierarsi, bisogna dire da che parte si sta. 

  
Uno dei sondaggisti della ex Casa Bianca di Trump, Tony Fabrizio, ha pubblicato un documento (chiamato “post mortem”) in cui analizza la sconfitta elettorale e i temi che più hanno alienato i sostenitori repubblicani: spicca il continuo ricorso dell’ex presidente a teorie del complotto sui brogli, sulla transizione non assicurata, sul furto che i democratici si apprestavano a compiere il 3 novembre scorso. Quest’analisi porterebbe a dire che il radicalismo trumpiano si ritrova in un mercato saturo. Ma un sondaggio pubblicato in questi giorni dal sito Axios e condotto su elettori repubblicani dice l’opposto, cioè che la popolarità di Liz Cheney è niente se confrontata con quella di Marjorie Taylor Greene. I repubblicani infatti, nel giorno in cui avrebbero dovuto iniziare la loro resa dei conti, hanno salvato anche lei, tra gli applausi. C’è da dire che la Greene ha fatto di tutto per essere salvata, è arrivata quasi a pentirsi di quel che ha detto, fatto e creduto fino adesso. Ai suoi colleghi, la Greene ha detto di aver commesso un errore a incuriosirsi di QAnon: era un periodo buio della sua vita, ha raccontato, e si è lasciata affascinare. Ma ora questo fascino non lo sente più e anzi ha detto ai suoi figli di aver imparato la lezione di non utilizzare i social media per ostentare l’estremismo personale e del dibattito. Non crede più nelle teorie del complotto sull’11 settembre, ha detto, né in quelle sulle sparatorie nelle scuole e anzi si è scusata per aver causato dolore ai genitori delle vittime di quelle stragi. Secondo la ricostruzione del sito Politico, alla fine di questo discorso, il deputato di New York Tom Reed si è alzato in piedi per ringraziarla di questa sua testimonianza ed è partito un lungo applauso. Così la Greene si è salvata con quasi maggior trasporto da parte dei convenuti rispetto alla votazione della Cheney, anche se nessuno è in grado di dire quanto sia sincero il suo pentimento (non si è fatto accenno, non nelle cronache almeno, al post su Facebook del 2018 in cui la Greene sosteneva che erano stati i Rothschild con un satellite di loro proprietà che lanciava raggi laser di colore blu ad aver scatenato l’incendio di Camp Fire in California, il più letale della storia dello stato. “Sono stati i Rothschild” è uno dei grandi classici del complottismo antisemita). Continuano a emergere dettagli osceni del suo complottismo, la sua mascherina con scritto “Trump ha vinto” è diventata in alcuni ambienti un must have, e la Greene ha lanciato una campagna di raccolta fondi contro quella che lei chiama “cancellazione” nei suoi confronti, perpetrata dai democratici.

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La battaglia contro la “cancellazione” in realtà è un altro fronte di questa lotta interna ai repubblicani.  Basta vedere come è stata trattata sui social la stessa Cheney, che a differenza della Greene non ha messo in circolo complotti falsi e violenti: ha voltato le spalle a Trump. Nella furia contro la Cheney c’è l’astio che i repubblicani covano nei suoi confronti da tempo ma anche l’espressione del tormento di questa fase. L’arrivo di Biden alla Casa Bianca sta rimettendo l’America nella posizione in cui era prima che arrivasse Trump a capovolgerla. Mentre si ritorna dritti bisogna scegliere: si convive con l’estremismo o lo si esclude. Le conseguenze sono diverse e il conto verrà saldato soltanto nelle urne, ma intanto le regole di questa nuova convivenza vanno scritte. Lo sanno i democratici che ancora maneggiano l’azzardo dell’impeachment, e lo sanno i repubblicani che vagano nel “gran casino” della big tent sperando di trovare qualcuno che riesca a fare ordine, senza fare troppo male.
   

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