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Aung San Suu Kyi, l’ex simbolo di libertà che molti non difendono più

Massimo Morello

Perché i generali della Birmania hanno deciso proprio adesso di fermare il premio Nobel per la pace

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Il “Comma 22” è il protocollo della Birmania. Il paradosso, formulato nel romanzo di Joseph Heller, riguarda un’apparente possibilità di scelta quando non è possibile alcuna scelta. Secondo tale comma in Birmania non c’è stato un golpe. Anche se il copione è stato rispettato. All’alba di lunedì, prima dell’apertura del Parlamento eletto nel novembre scorso, il generale Min Aung Hlaing, comandante di Tatmadaw, le Forze armate, ha ordinato l’arresto del presidente Win Myint, dei leader della National League for Democracy (Nld), il partito che ha dominato le elezioni, di politici e attivisti democratici. E, soprattutto, l’arresto della Signora, Aung San Suu Kyi

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Il “Comma 22” è il protocollo della Birmania. Il paradosso, formulato nel romanzo di Joseph Heller, riguarda un’apparente possibilità di scelta quando non è possibile alcuna scelta. Secondo tale comma in Birmania non c’è stato un golpe. Anche se il copione è stato rispettato. All’alba di lunedì, prima dell’apertura del Parlamento eletto nel novembre scorso, il generale Min Aung Hlaing, comandante di Tatmadaw, le Forze armate, ha ordinato l’arresto del presidente Win Myint, dei leader della National League for Democracy (Nld), il partito che ha dominato le elezioni, di politici e attivisti democratici. E, soprattutto, l’arresto della Signora, Aung San Suu Kyi

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Myint Swe, vicepresidente allineato ai militari, è stato nominato presidente pro tempore sino allo svolgimento di nuove elezioni. La giustificazione ufficiale è questa: un ritorno alla democrazia violata nelle elezioni per i brogli compiuti dalla Nld di Aung San Suu Kyi. Tutto ciò non si può formalmente definire un golpe. “La Costituzione è la legge madre. Dobbiamo seguire la Costituzione”, ha dichiarato il generale Min Aung Hlaing. E la Costituzione è quella riscritta dai militari nel 2008 per assicurarsi il potere in ogni condizione. Anche dichiarando lo scioglimento del Parlamento. E’ per questo che Aung San Suu Kyi non era “la leader de facto”, come veniva spesso definita per aggravare l’accusa di violazione dei diritti umani, in particolare della minoranza musulmana dei rohingya. Negli anni Aung San Suu Kyi è riuscita in realtà a incarnare il male anche per gli estremisti nazionalisti e buddisti che l’accusano di connivenza coi rohingya.

  
Per un ulteriore paradosso, a novembre le elezioni   sono state sospese in alcune regioni del Myanmar per evitare possibili violenze da parte degli ultraortodossi, azioni che oggi sono usate dai militari per giustificare le accuse di brogli. Il paradosso del Comma 22 o chi incarnasse la leadership non sono disquisizioni esoteriche dei cultori di politica asiatica. Rappresentano una realtà che può apparire surreale o che viene giudicata secondo parametri  diversi. Come paragonare i phi, gli spiriti, con i santi.

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Così si è privata Aung San Suu Kyi di ogni protezione. Non solo di quella del premio Nobel che volevano revocarle, ma di ogni altro riconoscimento. Sarà difficile, per i virtuosi del j’accuse, difenderla nel nome dei principi che avrebbe violato. Tanto più ai tempi del Covid, che nel sud-est asiatico è diventato giustificazione per l’autocrazia viste le inefficienze delle democrazie, come quella che ha generato l’anomalia trumpiana. Quando Than Htay, segretario del partito sostenuto dai militari, ha contestato l’esito delle elezioni, ha avuto il supporto del segretario di stato americano Mike Pompeo, che sembrava volerlo accomunare a Trump senza rendersi conto del grottesco. Le “Covid elections” avevano dominato la psiche locale dal giorno in cui Suu Kyi aveva affermato che le elezioni “erano più importanti del Covid”. Secondo i suoi oppositori, lo aveva fatto per sfruttare la visibilità ottenuta con la gestione della pandemia. Più probabile perché i militari chiedevano un rinvio, in seguito a cui avrebbero potuto dichiarare lo stato d’emergenza, sciogliere il Parlamento e reclamare il potere. Andata a monte la manovra e sopraffatti da una sconfitta schiacciante, i militari hanno temuto che la Signora potesse davvero divenire la leader de facto, magari con una modifica alla Costituzione che levasse loro il 25 per cento dei parlamentari e a lei il veto alla presidenza.

   

“Ha azzardato” si limita a dire una fonte del Foglio in un momento in cui si riesce a stabilire la connessione con Yangon. Forse è vero: la Signora aveva deciso che era giunto il momento di assumere il ruolo che era stato del padre, il generale Aung San, artefice dell’indipendenza, padre della patria. Magari confidando nel sostegno del presidente Biden che aveva incontrato e conosciuto durante l’Amministrazione Obama. 

   

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Aung San Suu Kyi sembra destinata a una nuova incarnazione, quella di un personaggio da tragedia greca. Probabilmente passerà i prossimi tempi nella sua abitazione di Naypyidaw. Non avrà nemmeno la consolazione di ritrovarsi nella villa di famiglia a Yangon, dove ha trascorso da reclusa circa quindici anni. Difficile prevedere quanto dovrà restarci. E se avrà la forza che ha dimostrato sino a oggi, a 75 anni.

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