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blackwashing e giornalismo inclusivo

Blm ha cambiato le redazioni: direttori fotogenici, mondani e neri

Francesco Oggiano

Gli effetti delle proteste black sul mondo dell'informazione hanno portato quattro giganti del giornalismo americano a effettuare cambi al vertice. Senza nessuna denuncia o causa di lavoro

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È l’altra cronaca nera. Per i sostenitori, quella cronaca fatta per i neri, per lettori considerati ai margini del sistema informativo. Per i detrattori, è solo una variante giornalistica di quel blackwashing per cui è stata accusata Netflix, capace di piazzare attori neri al posto di personaggi storicamente bianchi, come Lupin e i nobili della serie Bridgerton. Capofila del nuovo genere giornalistico sono Lauren Williams e Patrice Peck. La prima ha annunciato le dimissioni dalla direzione della prestigiosissima testata Usa Vox per fondare il suo Capital B. Sarà una testata no-profit che racconterà esclusivamente le vicende della comunità nera d’America. La seconda, ex giornalista di Buzzfeed, è diventata una nuova firma della piattaforma Substack, dove ha creato la sua newsletter: “Coronavirus News for Black Folks”. Una testata pensata per offrire informazioni di servizio “alla comunità più colpita dal coronavirus e meno raccontata dai media: quella nera”.

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È l’altra cronaca nera. Per i sostenitori, quella cronaca fatta per i neri, per lettori considerati ai margini del sistema informativo. Per i detrattori, è solo una variante giornalistica di quel blackwashing per cui è stata accusata Netflix, capace di piazzare attori neri al posto di personaggi storicamente bianchi, come Lupin e i nobili della serie Bridgerton. Capofila del nuovo genere giornalistico sono Lauren Williams e Patrice Peck. La prima ha annunciato le dimissioni dalla direzione della prestigiosissima testata Usa Vox per fondare il suo Capital B. Sarà una testata no-profit che racconterà esclusivamente le vicende della comunità nera d’America. La seconda, ex giornalista di Buzzfeed, è diventata una nuova firma della piattaforma Substack, dove ha creato la sua newsletter: “Coronavirus News for Black Folks”. Una testata pensata per offrire informazioni di servizio “alla comunità più colpita dal coronavirus e meno raccontata dai media: quella nera”.

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Nelle stesse settimane anche gli editori tradizionali hanno cercato di rendere il loro giornalismo più inclusivo. E l’hanno fatto partendo dalle loro redazioni: hanno cambiato i direttori. Negli uffici di quattro giganti del giornalismo americano – Bon Appétit, Refinery29, Elle Decor e Harper’s Bazaar – sono arrivati i direttori freschi freschi di nomina. Tutti parecchio fotogenici, mondani il giusto. E tutti neri. Bon Appétit è la popolare testata di cucina della casa editrice Condé Nast. Per dieci anni il direttore è stato Adam Rapoport. Nell’estate 2020, l’estate in cui abbiamo iniziato a giudicare comportamenti del passato con gli occhi del presente, qualcuno è andato a ripescare una foto postata da sua moglie anni fa su Instagram. L’uomo era a una festa di Halloween del 2004. Era mascherato da gangsta-rapper-barra-spacciatore: t-shirt, bandana, cappellino con la scritta “Bronx” e catene al collo. Normale travestimento di 16 anni prima? No, quello è “Brownface”, hanno tuonato a centinaia. È la versione alternativa della “Blackface”, in questo caso riferita ai portoricani. Nel giro di poche ore, una dipendente accusa il magazine di pagare meno gli impiegati non bianchi. Tre giornalisti neri si rifiutano di apparire nei video prodotti dalla testata, altri due si dimettono.

 

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Nel corso di un drammatico meeting su Zoom con la redazione, il direttore Rapoport lascia. Due giorni dopo, lo segue un manager di Condé Nast, costretto a mollare appena è iniziata a girare online una petizione che chiedeva le sue dimissioni per aver supervisionato “un sistema discriminatorio”. Nessuna denuncia, nessuna inchiesta delle autorità per discriminazione. Ma il danno d’immagine, per una casa editrice che fattura milioni anche grazie all’immagine, è da minimizzare subito. Quelli di Condé Nast corrono ai ripari e nominano al posto del direttore maschio bianco una donna nera: Dawn Davis, ex promessa della finanza poi passata al giornalismo con ottimi risultati. “Dawn è un autorevole supporter di una comunità inclusiva e variegata di scrittori”, gongola presentandola Anna Wintour. E quelli di Black Lives Matter rimangono muti. Stessa pensata hanno avuto quelli di Vice Media. La media company che controlla l’omonima testata aveva già dovuto pagare quattro dipendenti per mettersi d’accordo su accuse di molestie nel 2017. Nel 2020 però le accuse hanno investito il suo Refinery29, magazine online femminile specializzato in fashion e beauty.

 

Un ex dipendente, particolarmente popolare su Twitter, ha parlato di “cultura tossica dominata dal’ego di donne bianche”: “Una delle fondatrici mi confondeva sempre con un’altra persona alla reception e le disparità di paga erano atroci”. Ancora nessuna denuncia, nessuna causa di lavoro. Ma tanto è bastato per far fuori la direttrice e co-fondatrice Christene Barberich, bianca. Al suo posto è arrivata Simone Oliver, 38 anni, nera. La prima in ordine di tempo a essersi insediata è stata invece Samira Nasr, prima direttrice nei 153 anni di storia di Harper's Bazaar. Ex fashion director di Vanity Fair, “come figlia di un libanese e di una Trinitaria”, ha detto sottolineando subito le sue origini, “la mia visione del mondo è basata sulla fiducia nella rappresentatività. Dobbiamo unire le forze per parlare di uguaglianza, perché Black lives matter”. Stesso messaggio, quello di Asad Syrke, neodirettore nero al posto del bianco Whitney Robinson a Elle Decor. “In quest’anno di ingiustizie razziali abbiamo notato ancora di più l’importanza di una casa bella e sicura, specialmente se quella casa rimane un bene inaccessibile a molti”. Black Lives Matter e Twitter approvano: “E’ un bel direttore!”.

 

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