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Viva Kaja Kallas che ha buttato fuori i sovranisti dal governo

La prima-premier-donna dell’Estonia ha fatto una manovra splendida, che unisce i moderati litigiosi

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L’Estonia ha la sua prima premier donna: si chiama Kaja Kallas, da ragazzina giocava in salotto assieme con futuri capi di partito, di aziende, di dicasteri, perché viene da una delle famiglie politicamente più famose del paese. Suo padre, Siim Kallas, è stato primo ministro (anche ministro del Tesoro e degli Esteri) e poi commissario europeo; suo nonno, Eduard Alver, è uno dei fondatori della Repubblica d’Estonia; sua mamma Kristi fu deportata dai sovietici quando aveva sei mesi: i suoi genitori furono caricati su un carro bestiame assieme alla piccola e portati in Siberia, dove rimasero per dieci anni. Kaja Kallas era destinata alla politica, ha studiato giurisprudenza e business management, ma fin da piccola – ha raccontato in un’intervista a Vanity Fair – adorava sentir parlare gli ospiti di papà, s’incuriosiva, faceva domande e veniva accolta e ascoltata: quella era la strada, quella era la passione. Due mariti, un figlio e una bellezza riconosciuta da tutti (è anche  fotogenica, che invidia), Kaja è infine arrivata dove voleva, a guidare il governo, dopo aver fatto la parlamentare sia a Tallin sia a Strasburgo, ed è un peccato che, come altre colleghe – la premier finlandese Sanna Marin per esempio – abbia fatto notizia soltanto perché è una donna. E’ un peccato perché dentro a questa manovra di palazzo c’è stata anche la sapienza politica sufficiente a far saltare la convivenza scomodissima che guida il paese da due anni: il partito di estrema destra Ekre non è più in coalizione con il Reform Party della Kallas. Tanto per dire in sintesi cos’è Ekre: euroscettico, pensa che il Recovery fund sia un modo per creare una dipendenza con Bruxelles inscindibile, un patto del diavolo più o meno; uno dei suoi leader più citati, l’ex ministro dell’Interno Mart Helme (che ha anche un figlio che si chiama Martin e che gli assomiglia molto), pensa che i gay dovrebbero andarsene a vivere in Svezia, l’Estonia non fa per loro (è stato il primo stato ex sovietico a introdurre le unioni civili per gli omosessuali); fa campagna contro gli stranieri quando il paese ha bisogno di migranti (non ha nemmeno un milione e quattrocentomila abitanti) soprattutto esperti  del settore tecnologico, che è quello che rende l’Estonia all’avanguardia (vi ricordate i sospiri quando scoprimmo che lì si vota praticamente soltanto online?); coltiva teorie del complotto come quella secondo cui la leadership tutta femminile della vicina Lituania sia un lavoro del “deep state”.

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L’Estonia ha la sua prima premier donna: si chiama Kaja Kallas, da ragazzina giocava in salotto assieme con futuri capi di partito, di aziende, di dicasteri, perché viene da una delle famiglie politicamente più famose del paese. Suo padre, Siim Kallas, è stato primo ministro (anche ministro del Tesoro e degli Esteri) e poi commissario europeo; suo nonno, Eduard Alver, è uno dei fondatori della Repubblica d’Estonia; sua mamma Kristi fu deportata dai sovietici quando aveva sei mesi: i suoi genitori furono caricati su un carro bestiame assieme alla piccola e portati in Siberia, dove rimasero per dieci anni. Kaja Kallas era destinata alla politica, ha studiato giurisprudenza e business management, ma fin da piccola – ha raccontato in un’intervista a Vanity Fair – adorava sentir parlare gli ospiti di papà, s’incuriosiva, faceva domande e veniva accolta e ascoltata: quella era la strada, quella era la passione. Due mariti, un figlio e una bellezza riconosciuta da tutti (è anche  fotogenica, che invidia), Kaja è infine arrivata dove voleva, a guidare il governo, dopo aver fatto la parlamentare sia a Tallin sia a Strasburgo, ed è un peccato che, come altre colleghe – la premier finlandese Sanna Marin per esempio – abbia fatto notizia soltanto perché è una donna. E’ un peccato perché dentro a questa manovra di palazzo c’è stata anche la sapienza politica sufficiente a far saltare la convivenza scomodissima che guida il paese da due anni: il partito di estrema destra Ekre non è più in coalizione con il Reform Party della Kallas. Tanto per dire in sintesi cos’è Ekre: euroscettico, pensa che il Recovery fund sia un modo per creare una dipendenza con Bruxelles inscindibile, un patto del diavolo più o meno; uno dei suoi leader più citati, l’ex ministro dell’Interno Mart Helme (che ha anche un figlio che si chiama Martin e che gli assomiglia molto), pensa che i gay dovrebbero andarsene a vivere in Svezia, l’Estonia non fa per loro (è stato il primo stato ex sovietico a introdurre le unioni civili per gli omosessuali); fa campagna contro gli stranieri quando il paese ha bisogno di migranti (non ha nemmeno un milione e quattrocentomila abitanti) soprattutto esperti  del settore tecnologico, che è quello che rende l’Estonia all’avanguardia (vi ricordate i sospiri quando scoprimmo che lì si vota praticamente soltanto online?); coltiva teorie del complotto come quella secondo cui la leadership tutta femminile della vicina Lituania sia un lavoro del “deep state”.

 

Ekre non c’è più, e in compenso i litigiosissimi partiti moderati del paese sono riusciti a smettere di boicottarsi tra loro. Ora il Reform Party di centrodestra è in coalizione con il Center Party di centrosinistra, l’alleanza naturale che si tentò anche nel 2019 dopo le parlamentari ma che allora risultò impossibile, tanto che il Reform Party, che pure era risultato il primo partito, rimase fuori dal governo. Ora ci sono da maneggiare la pandemia (che all’inizio  non era stata così forte, ma a novembre e dicembre c’è stato un picco anomalo), la campagna di vaccinazione, il rilancio economico. L’obiettivo di Kaja Kallas è semplice e bello: “Sorrideremo ancora”.   

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