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superare Dublino

Il Migration Pact è la mela avvelenata che nessuno vuole più

Luca Gambardella

Dopo tante attese si scopre che la solidarietà dell'Ue sui migranti è una scatola vuota. “I rimpatri? Sono troppo flessibili, così non va”

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La tanto agognata “solidarietà europea” sulla redistribuzione dei migranti rischia di trasformarsi nell’ennesimo nulla di fatto. Lo scorso settembre, la Commissione von der Leyen aveva sottoposto al Consiglio dell’Ue e al Parlamento europeo una proposta di Migration Pact. In un raro momento di intesa collettiva, il testo era stato accolto con il medesimo scetticismo sia dai recalcitranti paesi di Visegrád sia da quelli del fronte sud dell’Unione, già vessati da un Regolamento di Dublino che da anni definiscono discriminatorio. Le aspettative erano ben altre e il progetto patrocinato dalla commissaria agli Affari interni Ylva Johansson non è andato oltre le mere dichiarazioni di intenti, sintetizzate dall’abusatissimo slogan del “superare Dublino”. Nei fatti, la novità principale era quella della “solidarietà per i rimpatri”. Il sistema funziona così: se per esempio un migrante è tratto in salvo in Italia al termine di un’operazione di ricerca e salvataggio in mare, allora uno degli altri paesi dell’Ue, per esempio la Francia, potrà scegliere come dimostrare la propria solidarietà. Il primo modo per  farlo – secondo una logica tanto elementare quanto poco condivisa dai paesi membri –  è quello di offrirsi per accogliere il migrante e prenderne in carico la domanda di asilo. In alternativa – e qui invece la logica si complica di molto – la Francia potrebbe  decidere di prendere in carico l’iter di espulsione del migrante irregolare sbarcato in Italia (return sponsorship) sfruttando i suoi accordi bilaterali sottoscritti con i paesi terzi. I francesi a quel punto avranno otto mesi di tempo per tentare il rimpatrio e, alla scadenza di questo periodo, il migrante dovrà essere trasferito dall’Italia alla Francia.

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La tanto agognata “solidarietà europea” sulla redistribuzione dei migranti rischia di trasformarsi nell’ennesimo nulla di fatto. Lo scorso settembre, la Commissione von der Leyen aveva sottoposto al Consiglio dell’Ue e al Parlamento europeo una proposta di Migration Pact. In un raro momento di intesa collettiva, il testo era stato accolto con il medesimo scetticismo sia dai recalcitranti paesi di Visegrád sia da quelli del fronte sud dell’Unione, già vessati da un Regolamento di Dublino che da anni definiscono discriminatorio. Le aspettative erano ben altre e il progetto patrocinato dalla commissaria agli Affari interni Ylva Johansson non è andato oltre le mere dichiarazioni di intenti, sintetizzate dall’abusatissimo slogan del “superare Dublino”. Nei fatti, la novità principale era quella della “solidarietà per i rimpatri”. Il sistema funziona così: se per esempio un migrante è tratto in salvo in Italia al termine di un’operazione di ricerca e salvataggio in mare, allora uno degli altri paesi dell’Ue, per esempio la Francia, potrà scegliere come dimostrare la propria solidarietà. Il primo modo per  farlo – secondo una logica tanto elementare quanto poco condivisa dai paesi membri –  è quello di offrirsi per accogliere il migrante e prenderne in carico la domanda di asilo. In alternativa – e qui invece la logica si complica di molto – la Francia potrebbe  decidere di prendere in carico l’iter di espulsione del migrante irregolare sbarcato in Italia (return sponsorship) sfruttando i suoi accordi bilaterali sottoscritti con i paesi terzi. I francesi a quel punto avranno otto mesi di tempo per tentare il rimpatrio e, alla scadenza di questo periodo, il migrante dovrà essere trasferito dall’Italia alla Francia.

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“La solidarietà è obbligatoria”, aveva assicurato Johansson alla fine dello scorso anno per tranquillizzare i paesi della sponda sud. Alla fine però nel testo non sono stati inseriti incentivi o sanzioni di alcun tipo e il sistema è rimasto su base volontaria.  L’Italia aveva palesato le sue perplessità inviando alla Commissione una lettera  firmata anche da Spagna, Malta e Grecia. “Crediamo che le regole della solidarietà e i relativi impegni presi dagli stati membri – recitava il documento – debbano essere definiti con chiarezza”. “Il Migration Pact al momento assegna tante responsabilità a carico dei paesi di frontiera e ben poca solidarietà per tutti gli altri”, dice al Foglio una fonte diplomatica europea. “Da anni è una mela avvelenata che le varie presidenze di turno continuano a rimpallarsi. E’ successo lo stesso fra quella tedesca e quella portoghese”. Domani è prevista una riunione informale fra i ministri dell’Interno dei 27, “ma non sono previsti sviluppi particolari”.  

 

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La return sponsorship ha due punti deboli. Il primo è oggettivo ed è stato palesato la settimana scorsa dal paper di un think tank di Bruxelles, l’European Policy Centre (Epc). I ricercatori Olivia Sundberg e Diez Florian Trauner hanno notato come le prospettive della Commissione siano troppo ottimistiche. Se è vero che “quasi tutti i paesi europei hanno qualche legame diplomatico con quelli di origine dei migranti”, è anche vero che “alcuni hanno relazioni diplomatiche più forti di altri. Oltre il 70 per cento degli accordi bilaterali di estradizione conclusi tra paesi dell’Ue e paesi africani riguarda Francia, Italia e Spagna”, scrivono i ricercatori. Questo significa che gli altri paesi dell’Unione non sarebbero mai in grado di compiere un numero sufficiente di rimpatri. “Ungheria o Repubblica ceca, per esempio, hanno tassi di rimpatri effettivi ben al di sotto della media europea”, spiega il paper.  Il secondo punto debole della proposta è politico: i paesi di Visegrád (meno la Slovacchia), l’Estonia, la Slovenia, l’Austria e la Danimarca hanno già detto che non sono d’accordo con il meccanismo della return sponsorship. Se l’Italia lamenta un’eccessiva flessibilità, altri paesi vedono invece troppe insidie nel mantra del “superare Dublino”. Una cosa è certa, dicono da Bruxelles: “Così come è l’accordo non va bene praticamente a nessuno”. 

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