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il foglio del weekend

Armin Laschet e l’oro del Reno

Stefano Cingolani

Il successore della cancelliera Merkel,viene dalla regione della Germania che guarda di più verso occidente. Come Kohl e Adenauer

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Il futuro della Germania ha una patina d’antico: l’odore acre del carbone, la rovente colata dell’acciaio, l’infernale fucina di Thor, l’incanto di Lorelei ondina del Reno. Evoca il mito e la potenza, ricorda la storia che ha segnato l’Europa. Nomi che minacciano, nomi che spaventano, nomi che promettono: Colonia la città di Agrippina, Treviri la capitale di Costantino, Aquisgrana la cittadella di Carlo Magno, la Rhur madre matrigna di tanti massacri. E poi lui, il grande fiume che taglia il continente dal Ticino al Mare del Nord, fa da sponda con la Francia, bagna i Paesi Bassi. Oggi torna al vertice della politica la Germania che ha sempre guardato a occidente, e non solo perché è la patria di Armin Laschet, che guiderà l’unione cristiano democratica, la Cdu, alle elezioni del 26 settembre prossimo, ma perché sono in ballo i nuovi equilibri mondiali dopo l’elezione di Joe Biden e la vittoria dei democratici negli Stati Uniti.

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Il futuro della Germania ha una patina d’antico: l’odore acre del carbone, la rovente colata dell’acciaio, l’infernale fucina di Thor, l’incanto di Lorelei ondina del Reno. Evoca il mito e la potenza, ricorda la storia che ha segnato l’Europa. Nomi che minacciano, nomi che spaventano, nomi che promettono: Colonia la città di Agrippina, Treviri la capitale di Costantino, Aquisgrana la cittadella di Carlo Magno, la Rhur madre matrigna di tanti massacri. E poi lui, il grande fiume che taglia il continente dal Ticino al Mare del Nord, fa da sponda con la Francia, bagna i Paesi Bassi. Oggi torna al vertice della politica la Germania che ha sempre guardato a occidente, e non solo perché è la patria di Armin Laschet, che guiderà l’unione cristiano democratica, la Cdu, alle elezioni del 26 settembre prossimo, ma perché sono in ballo i nuovi equilibri mondiali dopo l’elezione di Joe Biden e la vittoria dei democratici negli Stati Uniti.

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Considerato il più vicino ad Angela Merkel, presidente del Nordreno-Vestfalia (Nordreihn-Westfalen), un Land artificiale creato nel 1946 dagli americani vincitori, Laschet è nato ad Aquisgrana (Aachen) sessant’anni fa, da una  famiglia cattolica di classe media. E’ vero che il padre ha lavorato in una miniera ad Alsdorf, ma come dirigente: non era esattamente coperto di fuliggine. Il nonno veniva dal Belgio, dalla Vallonia, e anche questo dà il segno di quanto integrata sia la vita tra le due sponde del Reno, almeno fin da quando i Franchi ottennero da Roma di insediarsi al di di qua e al di là dal limes. Aachen in francese è Aix-la-Chapelle in omaggio alla cappella palatina nucleo del Duomo la cui costruzione risale all’800 e venne eretto da Karl der Grosse. O Charlemagne? Un imperatore tedesco o francese? I Franchi erano germani, ma non hanno dato il loro nome e la loro impronta a quella che un tempo si chiamava Gallia? Non è una baruffa linguistica perché per mille anni la nazionalità di Carolus (come lo chiamava Leone III il Papa che lo incoronò il giorno di Natale dell’800) è stata un motivo di conflitto risolto solo nel 1962 da Charles de Gaulle e Konrad Adenauer, nati a 276 chilometri di distanza, il primo a Lilla il secondo a Colonia. Il generale e il cancelliere celebrarono l’amicizia tra i due paesi (mettendo fine a conflitti secolari) a Reims, nella cattedrale dei re francesi fin da Ugo Capeto, duca dei Franchi e conte di Parigi, incoronato nel 986. Che intreccio inestricabile per una storia che arriva fino a noi: si chiama Palazzo Charlemagne il colosso in vetro e acciaio che ospita a Bruxelles il Parlamento dell’Unione europea.

   

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Non solo la Renania settentrionale: anche la Vestfalia è stata ridisegnata a tavolino e non coincide con la più ampia area che faceva parte del Ducato di Sassonia (comprendeva anche Brema e Amburgo), finché i prussiani non la trasformarono in una provincia, con capoluogo Münster. La Germania resta un mosaico di genti, di costumi, di linguaggi, al contrario di quel che si è soliti pensare nel resto d’Europa, Italia compresa. E non tanto per colpa della riunificazione incompiuta (tra Est e Ovest il divario resta molto ampio: il reddito pro capite ad Amburgo è di 61 mila euro l’anno, in Pomerania 25 mila), ma perché la “nazione tedesca” unita da sangue, cultura, religione e lingua, è stata prima un sogno romantico, poi una proiezione psicoanalitica dagli effetti catastrofici. Il vero oro del Reno non è quello dei Nibelunghi reinventato tragicamente da Richard Wagner, e non è nemmeno l’acciaio che renderà potente il Reich; no, la vera ricchezza viene piuttosto dalla unità nella diversità che rappresenta lo spirito liberale dell’occidente e il lascito della “Germania che abbiamo amato”, come scrisse Benedetto Croce.

   

La Vestfalia richiama la pace del 1648 che mise fine a trent’anni di sterminio e divise il continente europeo come una torta. Tra battaglie e pestilenze, la guerra aveva ucciso un terzo della popolazione, lasciando un vero caos politico non solo economico-sociale, con 1.800 staterelli, una cinquantina di città libere, 60 principati ecclesiastici dove i vescovi erano signori. Altro che l’Italia. Tra il Reno, l’Elba e il Danubio, la confusione divenne totale, sembrava che i tre grandi fiumi dell’Europa centrale volessero dilaniare le colline e le pianure che attraversavano. Un mosaico mobile schiacciato tra la potenza della Francia, quella degli Asburgo, che da Vienna governavano l’impero, e la rampante Prussia degli Hohenzollern, che da Königsberg guardava ad ovest dopo aver sconfitto e ridimensionato l’impero nordico degli svedesi, tenendo a bada l’ambizioso e scomodo alleato Pietro Primo di Russia detto il Grande.

    

In nessun modo gli staterelli occidentali avrebbero potuto rivendicare l’eredità carolingia nonostante le speranze di Karl von Dalberg (1744-1817) arcivescovo elettore di Magonza, massone, amico di Goethe e Schiller, il quale si fece paladino di una alleanza della “terza Germania” che facesse da cuscinetto tra Austria e Prussia e guardasse alla Francia come sponda. A dargli sostegno fu Napoleone Bonaparte con la Confederazione del Reno nata dopo la vittoria di Austerlitz del 1805 che mise fine al Sacro Romano Impero. Tra la Germania rivolta a Occidente (Goethe apprezzò Napoleone il quale gli concesse la Legion d’Onore) e quella inesorabilmente legata all’Oriente, la frattura era non solo politica, ma anche religiosa (i cattolici a ovest i luterani a est), sociale (mercanti, borghesi, capitalisti a ovest, Junker latifondisti a est) e culturale (l’Illuminismo universalista rischiarava le rive del Reno, il cupo nazionalismo aristocratico ammantava le terre tra l’Elba e l’Oder).

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La sconfitta di Napoleone e il Congresso di Vienna danno alla Prussia anche buona parte della Renania, con l’appoggio determinante dell’Inghilterra che, nell’equilibrio delle potenze vincitrici, usava la Prussia come ago della bilancia tra Russia, Austria e Francia. Sarà poi Otto von Bismarck a unificare la Germania sotto le insegne prussiane tra il 1866 e il 1871. Come era accaduto con il Piemonte e l’Italia? Non esattamente. Lo spiega bene A.H.L. Fisher nella sua “Storia d’Europa”. Grazie a Cavour l’Italia unita divenne una monarchia costituzionale di impronta liberale sul modello inglese, il Cancelliere di ferro invece rafforzò una monarchia autoritaria dove il Parlamento esercitava una funzione secondaria. I Savoia seppero lasciare Torino per Roma, gli Hohenzollern non pensarono mai di passare da Berlino a Colonia. E’ una distinzione che va sempre tenuta in mente: il Risorgimento non fu “una rivoluzione mancata”, come si dice da Antonio Gramsci in poi, ma quella rivoluzione borghese che in Germania venne sostituita dal Reich guglielmino. “Se il Risorgimento italiano era stato il capolavoro dello spirito liberale europeo”, ha scritto Croce, “quello tedesco era il capolavoro dell’arte politica e della virtù militare”.

    

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Oggi è l’oriente sassone-prussiano, conquistato dall’Armata Rossa e dominato per 44 anni dall’Unione Sovietica, a sentirsi emarginato, sfruttato, dimenticato; invece con Bismarck era vero proprio il contrario. Scrive James Hawes (La più breve storia della Germania che sia mai stata scritta, Gazanti): “L’intero sistema finanziario dell’impero tedesco era una gigantesca macchina per sottrarre ricchezza alla Germania sud-occidentale, liberale e cattolica, e consegnarla gli Junker dell’Ostelbien, l’élite della Prussia”, che avrà un ruolo molto importante nell’ascesa di Adolf Hitler e nel regime nazista. E non bisogna dimenticare, sottolinea ancora Hawes che “gli unici collegi elettorali in cui Hitler nel 1933 ottenne la maggioranza assoluta sono tutti lì”: è lo straordinario 55 per cento all’est che consente al Partito nazionalsocialista di ottenere il 43,9 per cento su base nazionale. Storicamente Ostelbien, il territorio “a est dell’Elba”, è sinonimo della vecchia Prussia. Oggi Ostelbien è il nome della squadra di calcio di Dornburg che, guarda caso, è nelle mani dell’estrema destra neonazista.

   

 Un’analisi troppo inglese? In realtà fu Adenauer a sognare nel 1945 una singola unità politica con il confine sull’Elba e la capitale sul Reno (avrebbe voluto la sua Colonia, ma venne scelta la vicina Bonn) dove le finestre sono “spalancate sull’Occidente tra i vigneti”. Risolvendo così una volta per tutte quella che Thomas Mann nelle “Considerazioni di un impolitico” chiamava “la solitudine tedesca tra Oriente e Occidente”. Allora lo scrittore era attratto dall’est, da Dostoevskij, dal panslavismo persino, per opporsi, sulle orme di Nietzsche, a Roma, alla Chiesa, al liberalismo, alla “Entante cordiale della civilizzazione”… e al fratello maggiore Heinrich. Poi cambiò campo ben prima dell’avvento di Adolf Hitler. 

   

Torniamo alla Renania settentrionale dove la storia, mai dimenticata, balza in superficie come un fiume carsico e s’impone dopo le sconfitte dell’imperialismo tedesco: con la Repubblica di Weimar e soprattutto con la Repubblica di Bonn. Due volte dalla polvere all’altare, occupata e demilitarizzata nel 1919 e poi nel 1946, resta oggi il cuore pulsante dell’intera Germania con 18 milioni di abitanti (in maggioranza di religione cattolica) concentrati in un’unica grande megalopoli suddivisa in città e municipi, ciascuna ovviamente con la propria birra e la propria salsiccia registrata e controllata, diversità della quale i tedeschi vanno fieri. Essen, Dortmund, Duisburg, Bochum e Gelsenkirchen occupano il bacino della Rhur, una regione metropolitana dove vivono 11 milioni di persone, con la più alta concentrazione industriale d’Europa (ThyssenKrupp, Bayer, Deutz, Ford Europe, Henkel e un’altra trentina di grandi imprese), che ha attraversato lunghe fasi di dolorose crisi e difficili ristrutturazioni. La Rhur nera e fumosa è un ricordo, anche se la transizione energetica non è compiuta e il duomo di Colonia, una “fabbrica” durata ben sei secoli, più di quella milanese, continua ad annerirsi. Il Reno lambisce Düsseldorf (la capitale amministrativa) e, più a sud, Leverkusen, Colonia e Bonn. Il Land ha il prodotto lordo più alto della Germania (645 miliardi di euro, un sesto del totale, oltre un terzo di quello italiano); il reddito pro capite (36.500 euro l’anno) supera del 15 per cento la media europea, anche se nel paese si colloca al quarto posto dopo Amburgo, Brema, la Baviera e l’Assia.

   

Non ci sono dubbi sulla capacità amministrativa di chi ha gestito un Land che in realtà può essere paragonato all’Olanda. Ma come eventuale cancelliere? Laschet avrà visione, sarà in grado di assumere la guida nel suo paese e in Europa? Anche Angela Merkel ha impiegato molto prima di diventare quella che oggi conosciamo: il primo mandato le è servito per uscire dall’ombra di Helmut Kohl e di Berlino est dove è cresciuta; nel secondo ha faticato per prendere, tra errori e molte sbandate, le redini dell’Unione europea; il suo terzo cancellierato è quello delle riforme, della svolta sull’immigrazione, della consacrazione in patria e all’estero; l’ultimo, cominciato il 14 marzo 2018, resta segnato dalla pandemia.

   

Al congresso della Cdu, Laschet ha annunciato i suoi tre punti cardinali: “centro, fiducia e integrazione”. Il centro è il punto d’equilibrio da mantenere nel partito e nel paese, con in mano non grandi sogni, ma “una cassetta con attrezzi artigianali”. La fiducia è da trasmettere a una popolazione colpita duramente dalla pandemia, ma è anche strumento di governo: nella sua concezione il leader è primo tra pari, sostituendo il carisma alla sapienza del capitano che guida la squadra. L’integrazione è l’antidoto alla polarizzazione politica e sociale che attraversa la Germania, anche se in modo per ora meno lacerante che altrove. Non ci sono subbi sulla sua vocazione renano-occidentale e quindi atlantica, tuttavia Laschet non ha esperienza in politica estera. Con Joe Biden torna nel mirino la Russia e qui il ruolo della Germania diventerà essenziale. Angela Merkel ha mediato il conflitto in Ucraina, ma adesso tutto sarà ancor più complicato. Il guanto di sfida lanciato dal segretario di stato Anthony Blinken, non lascia dubbi: Vladimir Putin, non solo Xi Jinping, è l’avversario strategico degli Usa. Una lotta su due fronti (o meglio tre, perché Blinken ha parlato esplicitamente dell’Iran) che richiede una rafforzata alleanza nella quale chi governa a Berlino è chiamato a recitare una parte da protagonista.

    

Il nuovo presidente della Cdu non ha molto tempo per farsi valere. Intanto dovrà affrontare alcune elezioni locali molto importanti, a meno che non vengano bloccate da un lockdown generalizzato: in Baden-Würrtemberg, dove governa con i Verdi, e in Renania-Palatinato, dove invece è all’opposizione. Sull’Europa sarà incalzato dai falchi del suo partito, in particolare Friedrich Merz, il grande sconfitto. Laschet ha sempre definito il Recovery Plan uno strumento finanziario fondamentale per favorire la ripresa dell’Unione, sottolineando il contributo comune e l’importanza che tutti i paesi escano insieme dalla crisi. Ciò implica che la svolta tedesca a favore di una condivisione degli oneri e dei rischi, maturata durante la pandemia, non venga rimessa in dubbio. Ma chi guiderà la Cdu non potrà dimenticare le spinte in senso contrario e le carte in mano agli altri contendenti. L’alleato bavarese, il leader della Csu Markus Söder, aspira a diventare candidato cancelliere. E non vanno certo trascurate le ambizioni dei socialdemocratici oggi al governo, ma rivali numero uno alle elezioni politiche. Olaf Scholz, ministro delle Finanze e vice della Merkel, è il leader della Spd. Già sindaco di Amburgo non amato dalla sinistra del partito, ha saputo superare la pesante eredità di Wolfgang Schäuble dimostrando flessibilità anche sullo scacchiere europeo (è lui ad aver proposto un Mes senza alcuna condizione). Difficile che vinca, ma potrà comunque avere un ruolo ancor più decisivo in un prossimo governo di coalizione. Tutto dipende dal risultato di Laschet sostenuto fortemente da Angela Merkel la quale, checché se ne dica, non farà la pensionata Unter den Linden, sotto i tigli di Berlino.

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