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Il problema non è solo Friedman che chiama escort Melania, ma l'ipocrisia dei paladini pol. cor.

Simonetta Sciandivasci

Le parole del giornalista in diretta Rai e la domanda che nessuno vuole sentire: riusciamo a rispettare anche una donna come lei? Rispondere significa ammettere che la nostra maturità democratica è piuttosto lontana

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La ragione per la quale fa impressione che Alan Friedman dica, ridendo, che “Trump si mette in aereo con la sua escort, ops, la sua moglie” in uno studio televisivo che non è Galline da combattimento ma Uno Mattina, non è che sia mancata una massiccia levata di hashtag (che peraltro forse arriverà, ci vuole tempo, la bolla non guarda la tv generalista, e infatti il fattaccio è successo ieri mattina e Michela Murgia ha segnalato su Instagram, e Libero ne ha scritto, e Friedman prima ha detto che non c’era niente da rimproverargli perché si era confuso nella traduzione e poi si è scusato  – di Louis C.K. ce n’è uno solo, e nessuno ha imparato da lui che non ci si scusa e non ci si giustifica: si riconosce, punto – e il giorno dopo, a cerimonia conclusa, cerimonia che nessuna voleva rovinare, essendoci poetesse e pop star ragguardevoli a farci credere che l’America è tornata il paese dei sogni e dei progressi e dei progressisti, ce ne siamo resi conto tutti, Selvaggia Lucarelli su Twitter ha scritto che per una battuta sui capelli di Giovanna Botteri si sono scatenate le guerre puniche e per un escort al massimo c’è stata un’alzata di sopracciglio).

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La ragione per la quale fa impressione che Alan Friedman dica, ridendo, che “Trump si mette in aereo con la sua escort, ops, la sua moglie” in uno studio televisivo che non è Galline da combattimento ma Uno Mattina, non è che sia mancata una massiccia levata di hashtag (che peraltro forse arriverà, ci vuole tempo, la bolla non guarda la tv generalista, e infatti il fattaccio è successo ieri mattina e Michela Murgia ha segnalato su Instagram, e Libero ne ha scritto, e Friedman prima ha detto che non c’era niente da rimproverargli perché si era confuso nella traduzione e poi si è scusato  – di Louis C.K. ce n’è uno solo, e nessuno ha imparato da lui che non ci si scusa e non ci si giustifica: si riconosce, punto – e il giorno dopo, a cerimonia conclusa, cerimonia che nessuna voleva rovinare, essendoci poetesse e pop star ragguardevoli a farci credere che l’America è tornata il paese dei sogni e dei progressi e dei progressisti, ce ne siamo resi conto tutti, Selvaggia Lucarelli su Twitter ha scritto che per una battuta sui capelli di Giovanna Botteri si sono scatenate le guerre puniche e per un escort al massimo c’è stata un’alzata di sopracciglio).

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E nemmeno che tutti abbiano riso o sorriso, anche se poi Monica Giandotti, conduttrice del programma, ha detto che le parole di Friedman erano state eccessive e lei si dissociava (questo, se mai, è il baro destino che tocca a chi di mestiere dà la parola agli altri: il pubblico da casa ritiene ormai che se A dà la parola a B e B dice una fesseria, la colpa è di A che lo ha fatto parlare e soprattutto A la pensa come B – la cancel culture, eliminando gli impresentabili, eliminerebbe anche questa seccatura).

 

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La questione femminile c’è, naturalmente, ed è quella che andiamo dicendo e ripetendo così spesso che, purtroppo, l’abbiamo inflazionata. E se stasera da Twitter e Facebook rimbalzeranno cori di sostegno alla ex first lady non ci saremo mossi di un centimetro dalla questione che Melania Trump ci ha messo davanti agli occhi per tutto questo tempo e che purtroppo ci siamo forse lasciati sfuggire l’occasione di guardare: riusciamo a rispettare una donna come lei? Riusciamo a vedere dentro il suo silenzio e oltre il suo silenzio? Riusciamo a non mettere parole dove lei ha scelto di non metterle? A non vedere grave omissione ma significato nuovo in una mancanza?

 

A Melania Trump è stato dato della mignotta, fiancheggiatrice di mostro, scalatrice sociale, indegna, cozza, rozza, scema, incapace, complice, ignava, burattina, telecomandata, passivo aggressiva, cinica, eccetera eccetera, per tutti gli anni della presidenza Trump. È stato fatto perché lei ha sposato il nemico, il becero, il mostro, il trasfigurato, l’accidente della storia, e naturalmente perché è di destra – cosa che abbiamo dedotto dal fatto che ha sposato un repubblicano, un’inferenza tipica del liberal e che però non ha niente di liberal.

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Ci sono stati dei ripensamenti, naturalmente, non appena ha fatto quello che volevamo che facesse: ha evitato di dare la mano al marito, lo ha guardato in cagnesco, si è messa la mascherina, lo ha mandato spesso e volentieri in giro da solo. Abbiamo interpretato tutto questo a modo nostro, abbiamo pensato che fosse resistenza pacifica, lotta non violenta. Abbiamo detto che era il massimo che poteva fare una come lei, una bellona sposata a uno psicotico, rimpiangendo Michelle Obama, che invece era presenzialista, attiva, attivista, evidente, arrembante, e che tuttavia non ha fatto altro che la moglie: lo è stata con tutti i crismi - e bontà sua, e legittimamente, per carità. Melania, invece, volontariamente o meno chi lo sa, è stata la meno moglie di tutti, ma siccome suo marito è un retrogrado psicotico, allora la sua irritualità non è rivoluzione: al massimo, la leggiamo come inadempienza, inadeguatezza, svogliataggine, ignoranza, mancanza di rispetto (tutte cose che ce l’hanno fatta stare simpatica, a volte, ma niente di più: non volevamo prendere sul serio Melania Trump, suvvia, era Melania Trump!).

 

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Le indignazioni non servono, ma notare la parzialità di giudizio significa evidenziare che la nostra maturità democratica è piuttosto lontana: i diritti sono ancora discrezionali e quella discrezionalità è dettata dal giudizio. In parole povere: se a Concita De Gregorio viene dato del tu in uno studio televisivo ci indigniamo a tutte le latitudini e con tutti i mezzi (abbiamo buone ragioni per farlo, sia chiaro), ma se a Melania Trump viene dato della mignotta, ops della escort, ops della moglie, succede che dobbiamo far notare la flebilità dell’indignazione conseguente. E dobbiamo farlo per dovere di equità, anche se poi di Melania non ce ne frega niente, e sotto sotto pensiamo che è una furba meschina stronza o non pensiamo niente, ma se qualcuna se ne è accorta non possiamo fare a meno di partecipare alla class action.

 

Può darsi che siano questioni tendenziose, interessi di bolla, inezie: può darsi che il paese reale sia immune alle correzioni o, semplicemente, non ne abbia bisogno perché è più avanti. Può darsi che al bar nessun italiano ieri abbia parlato come Friedman. E allora andiamo più a fondo, arriviamo a quello che veramente fa impressione, e che forse ci dovrebbe preoccupare. A dire di Melania Trump il peggio del peggio sono stati gli stessi difensori della formalità, della dignità, della sacralità di riti e istituzioni democratiche: sembrano non aver capito che dei quattro disgustosi anni che abbiamo alle spalle, e che continueranno a soffiarci sul collo a lungo, questa loro ipocrisia è stata direttamente responsabile. La democrazia è in pericolo quando è in mano ai cialtroni, non c’è dubbio, ma pure quando a difenderla c’è chi la tradisce in pensieri, parole, opere e maldestre traduzioni.

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