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Sconfitti e vincitori nell'America che arriva

Un viaggio tra chi perde tutti i giorni e non riesce a rialzarsi, mentre Biden e Harris imparano a maneggiare con cura la vittoria

Paola Peduzzi

In "Rinascita americana", Giovanna Pancheri racconta come è cambiata l'America negli ultimi quattro anni. Come in un'ideale staffetta, in "Una storia americana" Francesco Costa fa il ritratto incrociato del presidente e della vicepresidente democratici tracciando i contorni delle aspriazioni dell'Amministrazione entrante

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L’America non è un paese educato alla sconfitta, scrive Giovanna Pancheri in “Rinascita americana” (Sem)  e pare di vedere l’ormai ex presidente Donald Trump che s’aggrappa per settimane a riconteggi e complotti, che minaccia governatori, che s’accascia sul divano e ordina a i suoi: trovatemi un modo per vincere. L’ex moglie di Trump Ivana ha raccontato che alla nascita del loro primo figlio, lui era scettico sul fatto di chiamarlo Donald: se poi è un perdente, come facciamo che ha il mio stesso nome? “Qui e solo qui – scrive Pancheri, corrispondente di Sky Tg24 dagli Stati Uniti dal 2016 – uno degli insulti più crudeli che puoi ricevere è loser, perdente”, perché l’America è la terra delle opportunità, qui si cade ma ci si rialza, non ci si lamenta e poi si vince. Trump, che pure del sogno americano ha fatto stracci e che ci ha venduto come “prosciugare la palude” il suo nuovo sistema di amici e interessi (c’è chi sostiene che quando un populista-nazionalista dice il-proprio-paese “first” in realtà intende sempre se stesso), ha un senso molto americano e concreto della sconfitta: perdere è insultante. Questo non significa che ci sia un alibi culturale o nazionale a tutto quel che ha detto e fatto Trump per non accettare l’esito delle elezioni di novembre – il discorso di ammissione comunque non lo ha mai pronunciato, e se ne va dalla Casa Bianca giusto qualche ora prima dell’arrivo del suo successore Joe Biden per non doverlo incrociare – né che l’ultimo atto del trumpismo sia in qualche modo spiegabile. Non c’è ragione alcuna per il comportamento di Trump, né per il disprezzo e lo svilimento che hanno portato all’oscenità dell’attacco al Campidoglio, ma c’è in lui un tratto che è mancato e che forse manca nella cultura americana: saper perdere.

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L’America non è un paese educato alla sconfitta, scrive Giovanna Pancheri in “Rinascita americana” (Sem)  e pare di vedere l’ormai ex presidente Donald Trump che s’aggrappa per settimane a riconteggi e complotti, che minaccia governatori, che s’accascia sul divano e ordina a i suoi: trovatemi un modo per vincere. L’ex moglie di Trump Ivana ha raccontato che alla nascita del loro primo figlio, lui era scettico sul fatto di chiamarlo Donald: se poi è un perdente, come facciamo che ha il mio stesso nome? “Qui e solo qui – scrive Pancheri, corrispondente di Sky Tg24 dagli Stati Uniti dal 2016 – uno degli insulti più crudeli che puoi ricevere è loser, perdente”, perché l’America è la terra delle opportunità, qui si cade ma ci si rialza, non ci si lamenta e poi si vince. Trump, che pure del sogno americano ha fatto stracci e che ci ha venduto come “prosciugare la palude” il suo nuovo sistema di amici e interessi (c’è chi sostiene che quando un populista-nazionalista dice il-proprio-paese “first” in realtà intende sempre se stesso), ha un senso molto americano e concreto della sconfitta: perdere è insultante. Questo non significa che ci sia un alibi culturale o nazionale a tutto quel che ha detto e fatto Trump per non accettare l’esito delle elezioni di novembre – il discorso di ammissione comunque non lo ha mai pronunciato, e se ne va dalla Casa Bianca giusto qualche ora prima dell’arrivo del suo successore Joe Biden per non doverlo incrociare – né che l’ultimo atto del trumpismo sia in qualche modo spiegabile. Non c’è ragione alcuna per il comportamento di Trump, né per il disprezzo e lo svilimento che hanno portato all’oscenità dell’attacco al Campidoglio, ma c’è in lui un tratto che è mancato e che forse manca nella cultura americana: saper perdere.

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“Rinascita americana” è un viaggio nell’America che perde tutti giorni, che ha perso e non ha mai riconquistato, che si è via via appigliata a quel che trovava  per garantirsi un riscatto. Ci sono le sedie vuote nei tinelli di chi è morto di Covid, ma ci sono anche le tante contraddizioni di chi vuole uscire dalla disperazione, come quella di vivere e sopravvivere grazie all’Obamacare e poi votare Donald Trump che ha fatto tutto il possibile per cancellare la riforma sanitaria di Barack Obama (“a big fucking deal”, come la definì l’allora vicepresidente Biden). Giovanna Pancheri si avventura in questa America tortuosa che ha votato nel 2016 Trump perché era il candidato che più sapeva ammaestrare la voglia di riscatto e che in questi quattro anni è cambiata nuovamente, un po’ è rimasta delusa – come dice l’imprenditore agricolo dell’Iowa che pensava che le parole di Trump sul protezionismo fossero retorica non volontà – un po’ continua a considerare cose come regolamentare l’accesso alle armi un vezzo liberal ed europeo – Bob, gestore di un’armeria nella periferia di Cleveland, dice: “Questa è l’American way, noi siamo nati per procacciarci il cibo”. Ogni storia è scandita da un paragrafo sul “fattore C”, il fattore coronavirus, che ha contributo a peggiorare ogni ferita, senza  eccezione. Dove c’era dolore, il Covid-19 ne ha aggiunto ancora, e se è vero che il fattore C è l’impensabile che si è avverato, è altrettanto vero che l’Amministrazione Trump con la propria leggerezza e con il suo negazionismo sprezzante non ha aiutato a contenere i danni.

 

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 In quattro anni, in alcune sue parti l’America si è deformata come ha poi dimostrato l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio: l’insurrezione non c’è nel libro di Pancheri, ma ci sono gli incontri con gli attori di questa deformazione, lo scivolamento del movimento trumpiano verso l’estremismo, con l’ex presidente a fare da pifferaio. Quando molti, all’indomani del 6 gennaio, dicevano: c’era da aspettarselo, sintetizzavano i volti e le parole di alcuni interlocutori che si ritrovano in “Rinascita americana”,  ma per quanto le avvisaglie fossero ben presenti, la potenza del non saper perdere e del voler riscattare quel che non si ha e non si può avere non era così chiaramente quantificabile. E non lo è tuttora se si guardano le immagini che arrivano da Washington, dove migliaia di guardie vigilano sulla cerimonia del giuramento. Giovanna Pancheri è lì, racconta Washington come se fosse Kabul, ed è per questo che le ho chiesto come mai, dopo questi anni di conversazioni e scoperte e sconvolgimenti anche personali – il suo libro è scritto in prima persona – ha scelto nel titolo di puntare sulla rinascita. Dice che a ispirarla è stato il discorso di Gettysburg di Abramo Lincoln, “che sul finale dice: ‘che questa nazione, guidata da Dio, abbia una rinascita di libertà’. Lincoln aveva vinto la guerra, una delle battaglie più sanguinose della storia, il suo nord aveva vinto contro il sud. Poteva fare un discorso da vincente, scelse invece di parlare di unità, perché tutto il sangue non fosse stato versato invano. Dalla guerra alla rinascita, questo voleva Lincoln. E anche quando Biden ha fatto il suo primo discorso, ha avuto lo stesso istinto: solo con l’unità possiamo costruire una rinascita”.

 

L’ultimo capitolo del libro si intitola “Perdere male”, racconta l’incapacità di accettare il risultato elettorale di Trump, chiude il cerchio su un paese che non è educato alla sconfitta. Dai vittoriosi parte, come in una staffetta ideale, “Una storia americana” di Francesco Costa (Mondadori), il ritratto di Biden e della sua vicepresidente Kamala Harris con l’obiettivo di raccontare attraverso questa nuova leadership ancora un altro pezzo di America. In realtà la vittoria è il punto di arrivo  o d’inizio per noi che leggiamo e che ci apprestiamo a viverci la nuova Amministrazione – ma se non si sa quanto Biden e  Harris siano educati alla sconfitta, di certo sono educati al dolore. Più lui che lei, come si sa, così come la carriera lunga del presidente offre a Costa la possibilità di portare in primo piano, intrecciata con la vita di Biden, anche le trasformazioni dell'America e soprattutto degli americani. Biden e la Harris sono, come tutti i politici, scrive Costa, i rappresentanti e allo stesso tempo i fautori dei cambiamenti, ed è in questo senso che la loro storia diventa una storia americana. “Nella storia di Biden”, mi dice Francesco Costa, “l’elemento più americano è il suo continuo cadere e rialzarsi e reinventarsi rimanendo la stessa persona. Addirittura restando il politico che non mai perso un’elezione, mentre attorno a lui cambia quasi ogni cosa, persino nell’assurdo 2020”. Raccontando il futuro presidente quando c’era da decidere se candidarsi per le elezioni del 2020, Costa scrive che Biden “ha avuto una vita che ne contiene quattro, da almeno trent’anni pensava di essere in grado di fare il presidente degli Stati Uniti e nel 2016 era sicuro di avere qualcosa da offrire al paese. E’ stato vicepresidente per otto anni, oltre che uno dei parlamentari più importanti e influenti in circolazione. A settantasei anni non aveva più molto da chiedere alla sua vita e alla sua carriera, ed evidentemente non era guidato dall’ambizione personale”. Il carattere di Biden sta tutto qui, nella versione virtuosa del termine “disinteressato”: laddove non c’è un interesse personale, resta quello collettivo, ed è in questa ambizione trascinata e logorata dal tempo, dai lutti, dalle occasione perse e da quelle imprendibili che risiede la formula del presidente, la sua  carezza.

 

Di Kamala Harris Costa racconta un episodio che ha a che fare con la possibilità di restare in equilibrio anche tra le contraddizioni ma soprattutto con le ferite dell’America, una in particolare: la pena di morte. Nel 2004, quando  Harris aveva già avviato la sua rivoluzione equilibrista della procura di San Francisco, fu ucciso un agente di polizia, il primo da dieci anni a San Francisco: ventinove anni, un figlia di tre anni, si chiamava Isaac Espinoza.  Harris convocò una conferenza stampa durante la quale confermò la sua promessa elettorale: la pena di morte “è uno spreco di soldi”, non fa da deterrente e “darebbe un messaggio sbagliato” sui nostri valori. Tutto come voleva il suo copione e quello dei suoi sostenitori, ma  Harris aveva “fatto male i conti”, scrive Costa, perché Espinoza era un agente ed era amatissimo e al suo funerale Dianne Feinstein, ex sindaco di San Francisco e simbolo vivente del Partito democratico in California, disse: “Questa che piangiamo oggi non è soltanto una tragedia. E’ esattamente il tipo di tragedia che deve innescare la pena di morte”. Una donna liberal della California che chiede la pena di morte, ci pensate?  Harris quasi svenne, e ogni volta che viene citato questo episodio proviamo ancora lo stesso sgomento: fu  traumatico per lei. Quando chiedo a Costa che cosa c’è di americano nella storia della vicepresidente risponde: “L’ambizione sfrontata, trasparente, unapologetic come dicono loro, fin da quando era giovane. Ma c’è anche l’angolo in cui vengono strette le persone come lei che diventano ‘la prima afroamericana’ a fare una determinata cosa, cosa che dovrebbe suggerire prudenza nelle aspettative, e dopo essere state celebrate vengono massacrate per non aver fatto abbastanza”. Le aspettative alte vanno di pari passo con la voglia di rinascita e di riscatto, e poi con l’educazione alla sconfitta naturalmente.  

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Lo scontro sulla pena di morte è tornato d’attualità negli scorsi giorni: è stata eseguita una condanna capitale federale, non succedeva da quasi settant’anni. A subirla è stata Lisa Montgomery, trentacinquenne che non poteva avere figli e che uccise una ragazza di 23 anni incinta di otto mesi per portarle via il figlio e farlo passare per suo. L’iniezione letale è sembrata coerente con questo clima turpe di fine trumpismo, ma come molte altre fratture americane anche questa è ben più profonda dello strazio che pure sta lasciando l’ex presidente. La  storia di Harris racconta non soltanto una trasformazione collettiva ma anche la difficoltà di un leader nel tenere insieme tutte le esigenze: sul dibattito della pena di morte questo equilibrismo è stato portato agli estremi, perché  Harris passò per una troppo debole con il crimine (soft on crime, un insulto per un procuratore) ma l’alternativa dura non era, non è, necessariamente la più dura delle pene.  Harris disse una frase allora che ritorna ancora oggi e che si intravvede sullo sfondo di “Una storia americana”: “Daremmo un messaggio sbagliato”, non è quello che siamo.

 

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Al fondo, questi saggi appena arrivati in libreria cercano di capire che cos’è l’America oggi che ha appena scelto il suo nuovo presidente. Una risposta viene anche da un libro in uscita a inizio febbraio scritto da Federico Leoni, caporedattore di Sky Tg24, “Fascisti americani”. E’, come si intuisce dal titolo, una risposta drammatica, un’immersione nel cosiddetto “movimento di Trump” dove quel che era nascosto è emerso, dove quello che era indicibile è ripetuto più e più volte, dove la resistenza bianca travolge decenni complicati e luttuosi di integrazione. QAnon, suprematismo, predicatori estremisti, armi, tantissime armi: Leoni non lascia indietro nulla, e gli orfani di Trump messi tutti insieme così appaiono ancora più spaventosi, non sai più se l’assenza del pifferaio alla Casa Bianca possa placarli o se al contrario la presenza di Biden (e di Harris soprattutto) possa incitarli ancora di più. Un’altra risposta arriva anche dall’autobiografia di Kamala Harris, “Le nostre verità”, che la Nave di Teseo pubblica nei prossimi giorni.  Harris racconta il suo mondo e il suo sogno, il padre che se n’è andato, l’insegnamento supremo della mamma: non ti lamentare, fai, la carriera, le ambizioni, il passaggio dal mondo della giustizia alla politica, l’amore tardivo, il suo universo tutto al femminile che le ha fatto dire, nel suo primo discorso da vicepresidente eletta, che lei era la prima  ad arrivare fin lì, ma non di certo l’ultima.

 

A leggere insieme questi libri, tra le sconfitte che non si digeriscono e le vittorie che non si ostentano, tra i suprematisti che alzano la voce e la prima donna nera che diventa vicepresidente, appare quasi più straordinaria quest’America che ancora riesce a tenere insieme tutto, perennemente in bilico sulle sue frontiere, sul suo dolore e sul suo tormento, a caccia di un’unità difficile, che di solito è un attimo soltanto di equilibrio fragile, come siamo anche noi.
 

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