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Che cosa vedi quando dici: America

C’è un gran dibattito su quel che è americano e quel che invece non lo è, ancora più acceso ora che si entra in una nuova fase

Paola Peduzzi

“This is not who we are”, noi non siamo l'insurrezione, il disprezzo, il semigolpe, ha detto lo stesso Joe Biden commentando i fatti del Campidoglio,  Ma allora che cos'è l'America? I primi passi della nuova Amministrazione e il desiderio di risolvere una tensione eterna (almeno non c'è più la deformazione Trump)

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La pandemia in coppia con l’ultimo atto del trumpismo ci hanno tolto la gioia del giorno dell’inaugurazione, quell’eccitazione che sa di riti, di tradizioni, di commozione e goffaggine, perché il passato e il presente si ritrovano occhi negli occhi, e tutto luccica. L’inaugurazione è da sempre il momento della tregua, ci si passa il testimone civilmente, e un pochino di popolo americano applaude, festeggia, fa suo un pezzo di quella colonna della democrazia che è l’alternanza. Nel 2021, questa gioia va trovata nei ricordi e nella speranza per il futuro, perché la festa è un po’ vietata dalle regole anti Covid e un po’ dalla paura che la battaglia del Campidoglio del 6 gennaio possa ripetersi: le truppe sono il pubblico quasi esclusivo di questa festa e quasi quasi viene da rimpiangere la prima scaramuccia del mandato Trump, che ci fu per l’appunto nel giorno dell’inaugurazione, quando il neo entrato si offese perché i giornalisti dicevano che la sua folla era molto più piccola di quella che aveva celebrato Barack Obama. Ridevamo ancora quando ci fu quella polemica, poi abbiamo smesso di farlo – e ora anche una folla di dieci persone ci è vietata.

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La pandemia in coppia con l’ultimo atto del trumpismo ci hanno tolto la gioia del giorno dell’inaugurazione, quell’eccitazione che sa di riti, di tradizioni, di commozione e goffaggine, perché il passato e il presente si ritrovano occhi negli occhi, e tutto luccica. L’inaugurazione è da sempre il momento della tregua, ci si passa il testimone civilmente, e un pochino di popolo americano applaude, festeggia, fa suo un pezzo di quella colonna della democrazia che è l’alternanza. Nel 2021, questa gioia va trovata nei ricordi e nella speranza per il futuro, perché la festa è un po’ vietata dalle regole anti Covid e un po’ dalla paura che la battaglia del Campidoglio del 6 gennaio possa ripetersi: le truppe sono il pubblico quasi esclusivo di questa festa e quasi quasi viene da rimpiangere la prima scaramuccia del mandato Trump, che ci fu per l’appunto nel giorno dell’inaugurazione, quando il neo entrato si offese perché i giornalisti dicevano che la sua folla era molto più piccola di quella che aveva celebrato Barack Obama. Ridevamo ancora quando ci fu quella polemica, poi abbiamo smesso di farlo – e ora anche una folla di dieci persone ci è vietata.

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I simboli e i riti americani non sono mai stati in discussione quanto adesso: mentre Donald Trump non ammetteva la sconfitta elettorale e faceva di tutto per avvelenare i pozzi, fuori e dentro i confini dell’America buona parte del mondo si chiedeva com’è possibile che la più grande democrazia del mondo preveda ancora oggi, nel secondo millennio, una transizione di due mesi che era stata prevista perché, nell’Ottocento, prima di raccogliere tutti i voti ci voleva almeno quel tempo. Mentre una folla benestante, eversiva e violenta faceva irruzione nel palazzo del Congresso per rompere tutto, buona parte del mondo faceva paragoni apocalittici – sembra di essere a, mettete voi il vostro regime preferito – che si sarebbero infranti qualche ora dopo, quando il Congresso si è riunito e ha certificato la vittoria di Joe Biden, cioè ha fatto il lavoro sospeso dall’insurrezione (qui da noi era notte, il fuso orario ci ha rovinato il finale). In generale ci siamo ritrovati a discutere di quanto sia sempre stata brutta e stolta l’America, di quanto siano ingenui e ciechi i cosiddetti innamorati dell’America: il trumpismo ha soltanto mostrato, a tratti ostentato, questa bruttezza, ma era tutta già lì. All’ultimo miglio insomma, l’incubo del 2016 si è fatto realtà assieme a sciamani, bandiere confederate, cassetti rovesciati, vetri rotti, morti: a furia di detestare Trump s’è finito per amare un po’ meno anche l’America, con grande gaudio degli odiatori storici dell’America, che si sono trovati nuovi compagni di viaggio inaspettati e numerosi.
Dentro i confini americani il dibattito si è svolto attorno alla frase: “This is not who we are”, noi non siamo questa insurrezione, questo disprezzo, questo semigolpe, come ha detto lo stesso Joe Biden commentando i fatti del Campidoglio, questo episodio non ci rappresenta. Michael Kazin, storico, professore e condirettore della rivista Dissent, ha scritto un articolo bello e doloroso dal titolo: “Questo è quel che siamo”. Kazin ha citato il famoso appello pacificatore  di Abramo Lincoln, quello ai “better angels of our nature”, i nostri spiriti migliori, i ponti tra le diverse anime dell’America: la retorica dei “better angels” è bella e promettente, ma non ci salverà, perché “i rivoltosi infiammati dalle bugie senza fine e dalle teorie del complotto blaterate dalla Casa Bianca sono soltanto gli ultimi rappresentanti di una tradizione ininterrotta che è genuinamente americana come le persone di tutte le razze che hanno combattuto per una nazione tollerante, ugualitaria e democratica”, scrive Kazin. E’ nato quasi un movimento di commentatori e intellettuali che contrastavano tutti i politici che ripetevano e ripetano: noi non siamo quell’insurrezione lì. Non si tratta della solita e trita diatriba sulle due Americhe, non sono il blu e il rosso a colorare questa nuova fase, c’è dentro una tensione molto più profonda, che riguarda tutte le società democratiche del mondo, ma che in America si è vista in tutta la sua concreta drammaticità.

Fuori dai confini americani, il dibattito si è svolto in modo molto meno complesso. Abbiamo visto e sentito i commenti di russi e cinesi e di tutti quelli che da sempre criticano l’America per la sua presunta superiorità – volevano esportarci la democrazia! – e soprattutto abbiamo notato le loro risatine. Il palazzo dell’istituzione di fronte al quale giura il presidente degli Stati Uniti è finito sotto assalto, ci sono le guardie che devono difenderlo: più chiara di così, la poca superiorità dell’America, non potrebbe essere. Anzi qualcuno più sfrontato ha aggiunto: devono ringraziarci ora gli Stati Uniti se noi rispettiamo il principio di ingerenza e non ci facciamo prendere dalla mania americana di fare il poliziotto del mondo.

Il punto adesso è da dove si riparte. Joe Biden ha introdotto l’elemento dell’unità e del dialogo sul fronte interno: bisogna ritrovare modi e metodi per andare d’accordo, e il punto di partenza è proprio quello lincolniano dei “better angels” e della capacità di non rivolgersi tra americani come si fosse nemici. Sul fronte internazionale, Biden ha schierato tutto il meglio e la competenza dell’establishment democratico di politica estera del paese, cresciuto tra il clintonismo e l’obamismo: l’obiettivo è riportare un po’ di ordine, ristabilire un codice relazionale basato sulla fiducia. Come ha scritto sull’Atlantic la saggista Anne Applebaum, la forza dell’America rispetto agli altri paesi è “stato l’esempio”, è questo il soft power che ha cementato l’eccezionalismo americano e che si traduce nella capacità di rispettare la regola globale di convivenza conosciuta come ordine liberale.
 Ma la restaurazione di un ordine è soltanto l’inizio. Poi c’è l’offerta alternativa che l’Amministrazione Biden dovrà fare ad americani e mondo per dare forma e futuro all’affermazione “non siamo questa cosa qui”, intesa come deformazione della democrazia. Il chief of staff di Biden, Ron Klain, ha spiegato i dettagli di un documento intitolato “First Ten Days” in cui, oltre al piano di vaccinazione (sostenuto da uno stimolo economico molto corposo), c’è il ritorno dell’America nell’accordo sul clima siglato a Parigi, c’è l’annullamento del divieto di ingresso di stranieri provenienti dai paesi musulmani, c’è l’estensione di alcune limitazioni di viaggio e ingresso dovute alla pandemia (l’Amministrazione Trump le ha appena tolte), c’è una nuova politica di accoglienza da sud e un’altra per consentire i ricongiungimenti tra i genitori e i figli minorenni separati al confine (laddove si riesce). I primi dieci giorni di Biden sono quindi improntati a emendare quel che di poco americano, secondo il nuovo presidente, c’è stato nelle politiche della precedente Amministrazione. Alcune conseguenze sono immediate: David Frum, un intellettuale conservatore straordinariamente anti Trump, ha scritto su Twitter che “il piano sull’immigrazione può far deragliare tutta l’Amministrazione Biden fin dalla partenza: incoraggia un arrivo di persone al confine che costringerà il presidente a scegliere tra le detenzioni di massa o l’accelerazione dell’immigrazione non autorizzata”. Nel ristabilire l’ordine insomma, nel definire cos’è l’America o cos’è americano, ci sono molte sfumature che possono avere effetti contraddittori.

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Andrew Sullivan, saggista e giornalista che è rimasto sconvolto dalla battaglia al Campidoglio e che ha raccontato l’ascesa di Trump come un declino della forza americana, è già convinto che il ritorno della normalità che vuole Biden sia in realtà una riaffermazione di un politicamente corretto che nel frattempo si è fatto molto più cruento, come dimostra la cancel culture e la virulenza con cui la sinistra censura e cancella il dissenso. Molte delle scelte delle persone che faranno parte dell’Amministrazione sono state scandite da commenti lapidari di Sullivan: vince l’identity politics, siamo rovinati. Per quanto riguarda l’immigrazione e la proposta di Biden, Sullivan ha detto: è la dimostrazione che il prossimo presidente ha già capitolato davanti all’estrema sinistra, e sì che i suoi otto anni da vicepresidente con Obama avrebbero dovuto metterlo in guardia rispetto a certe decisioni.
Una volta esaurito il momento dell’unità e del dialogo – che vogliamo comunque goderci: speriamo non sia troppo breve – lo scontro sui “better angels” ricomincerà, aspro come è sempre stato. In fondo la normalizzazione è questa, la continua ricerca di “quel che siamo”, di quel che è l’America e di quel che siamo noi che la osserviamo. Senza la deformazione trumpiana, almeno, amore e odio si potranno risentire per quel che sono, ed è questa, nel giorno dell’inaugurazione senza festa, la nostra gioia.

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