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“All Times Favorites”

Kamala su Spotify

Mario Tuccio

Dall'hip hop al soul, passando per reggae e sonorità africane, fino ai grandi classici. Un piccolo viaggio nella musica preferita della Harris, dove si curano le ferite dell’America

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Figlia di una ricercatrice indiana e di un economista giamaicano, Kamala Harris, vicepresidente eletta, cresce avendo come contesto culturale l’impegno politico dei suoi genitori nei movimenti sociali degli anni Sessanta e Settanta, ma fin dal periodo universitario ad Hastings in California molti suoi detrattori la dipingono più come una spietata arrampicatrice sociale dedita alla carriera che come una paladina dei diritti civili o un’attivista in stile Angela Davis. Diventata anni dopo procuratrice distrettuale a San Francisco si fa notare per la sua determinazione e per un atteggiamento ritenuto forse troppo accondiscendente con i metodi spesso brutali della polizia locale. Ondivaga anche la sua posizione sulla pena di morte, tema sempre attuale e dibattuto negli Stati Uniti. Troppo liberal per i conservatori che la detestano e troppo poco di sinistra per i più radicali, Kamala resta comunque una scommessa molto interessante anche in vista di una sua possibile candidatura alle elezioni presidenziali del post Biden.

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Figlia di una ricercatrice indiana e di un economista giamaicano, Kamala Harris, vicepresidente eletta, cresce avendo come contesto culturale l’impegno politico dei suoi genitori nei movimenti sociali degli anni Sessanta e Settanta, ma fin dal periodo universitario ad Hastings in California molti suoi detrattori la dipingono più come una spietata arrampicatrice sociale dedita alla carriera che come una paladina dei diritti civili o un’attivista in stile Angela Davis. Diventata anni dopo procuratrice distrettuale a San Francisco si fa notare per la sua determinazione e per un atteggiamento ritenuto forse troppo accondiscendente con i metodi spesso brutali della polizia locale. Ondivaga anche la sua posizione sulla pena di morte, tema sempre attuale e dibattuto negli Stati Uniti. Troppo liberal per i conservatori che la detestano e troppo poco di sinistra per i più radicali, Kamala resta comunque una scommessa molto interessante anche in vista di una sua possibile candidatura alle elezioni presidenziali del post Biden.

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Forse però qualche indizio in più sui suoi riferimenti culturali, stilistici e di sensibilità verso ciò che la circonda, e quindi forse sulla sua visione del mondo, si potrebbe avere dalla playlist “All Times Favorites” che lei stessa ha pubblicato su Spotify. Magari un domani potrebbe essere riletta come la perfetta colonna sonora di questo momento di trasformazione – o normalizzazione, chissà – che stiamo attraversando. Play. Si parte subito forte con gli A Tribe Called Quest, storico gruppo del Queens di New York che seppe riscoprire le origini jazz mixandole con l’hip hop e una certa dose di spiritualità africana delle origini. Padri Fondatori. Poi l’altro mito del rap The Notorious B.I.G. con la profetica “Ready To Die” e la messianica sacerdotessa dell’afro R&B con venature neosoul e una spruzzata di reggae Lauryn Hill, una delle voci più belle e suadenti di tutta la musica contemporanea unita a una magnetica presenza scenica. Per chi ha avuto la fortuna di poterla ascoltare dal vivo, cosa non sempre facile anche a causa del suo carattere piuttosto volubile, è un’esperienza difficile da dimenticare. Altre selezioni interessanti e indicative di questo viaggio generazionale nella black music sono i Jackson 5 di ABC, Erykah Badu, vera e propria dea per noi adepti del Baduizm, oltre che ovviamente i miti immortali Stevie Wonder, Aretha Franklin, Al Green, Ray Charles, James Brown, Tina Turner, Billie Holiday e Nina Simone, che con la sua “Sinnerman” trascina tutti noi peccatori incalliti nell’allucinata e disperante fuga verso una redenzione impossibile. Il giorno del giudizio sta arrivando per tutti. Forse anche per l’immancabile “Happy” di Pharrell Williams, onnipresente in ogni festa di matrimonio, presentazione di libri o convention aziendale che ci riporta così a una dimensione quotidiana perduta in questa epoca di pandemia mondiale.

 

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Ma è tempo invece di ripartire con la magia di Marvin Gaye e la sua pietra miliare “What’s Going On”. Una gemma che dà il titolo anche all’album omonimo pubblicato su etichetta Tamla-Motown Records nel 1971 dallo stesso artista di Washington Dc, uno dei più grandi eroi della musica Soul e dell’R&B che ci ha lasciato troppo presto. Una canzone diventata poi simbolo di una generazione sconfitta e di un paese che doveva fare i conti con i traumi e le cicatrici lasciate dalla guerra in Vietnam e dalle eterne fratture razziali, di genere ed economiche di vasti strati della sua società. Il tutto sotto forma di lettera/supplica ai suoi familiari e di riflesso a tutti noi. “Mother, mother, there’s too many of you crying /Brother, brother, brother, there’s far too many of you dying / You know we’ve got to find a way To bring some lovin’ here today, yeah”. What’s going on, cosa succede? Una forma di saluto tipica della comunità afroamericana diventa così una specie di manifesto esistenziale oltre che implicitamente politico. Già ma adesso cosa succede? In “Marching into the dark” John Legend ricorda il sacrificio di Martin Luther King e di altri come lui che hanno dato tutto, anche la vita, per un ideale. Le tappe del viaggio di Kamala Harris saranno ancora molte, ogni scena è una scelta obbligatoriamente parziale e definita nel tempo e nello spazio, ma bisogna pur sempre scegliere un punto di inizio per arrivare ad una possibile conclusione. Quello della prossima vicepresidente d’America è questo.

 

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