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Green Zone, Washington DC

Daniele Ranieri

La capitale americana è una zona militarizzata in stile Iraq per proteggere l’insediamento di Joe Biden dagli attacchi armati dei trumpiani che considerano illegittimo il governo

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Dopo l’attacco della folla trumpiana contro il Congresso del sei gennaio, ventimila uomini della Guardia nazionale sono arrivati a Washington per proteggere la cerimonia di insediamento del prossimo presidente americano Joe Biden il venti gennaio, fra cinque giorni. In questo momento ci sono circa duemilacinquecento soldati americani impegnati in Afghanistan e altri duemilacinquecento in Iraq: sono appena un quarto di quelli mandati a difendere la giornata dell’inaugurazione dalla possibilità di un attacco da parte di sostenitori armati del presidente Donald Trump convinti di combattere contro un governo americano illegittimo. La progressiva riduzione delle forze militari all’estero era in effetti una promessa fatta da Trump in campagna elettorale e poi in parte mantenuta, ma lo scotto da pagare è che adesso l’insurgency è in casa. Gli uomini della Guardia nazionale di guardia a Washington sono stati avvisati durante il briefing del possibile uso di Ied, che sta per Improvised explosive device ed era la sigla più conosciuta della guerra in Iraq. Indicava le bombe artigianali confezionate dalla guerriglia e piazzate un po’ ovunque per uccidere e ferire le truppe. Il giorno dell’assalto al Congresso due bombe artigianali funzionanti sono state lasciate davanti alle sedi del Partito democratico e di quello repubblicano, l’ipotesi è che fossero un diversivo per distrarre da quello che stava per succedere. L’uso di bombe da parte dell’assortimento di fazioni che vuole Trump presidente è soltanto una possibilità, ma dopo quello che è successo il sei gennaio il Servizio segreto – che si occupa della sicurezza dei presidenti e in questa occasione speciale dirige tutti gli uomini anche delle altre agenzie – non può permettersi di trascurare scenari. 

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Dopo l’attacco della folla trumpiana contro il Congresso del sei gennaio, ventimila uomini della Guardia nazionale sono arrivati a Washington per proteggere la cerimonia di insediamento del prossimo presidente americano Joe Biden il venti gennaio, fra cinque giorni. In questo momento ci sono circa duemilacinquecento soldati americani impegnati in Afghanistan e altri duemilacinquecento in Iraq: sono appena un quarto di quelli mandati a difendere la giornata dell’inaugurazione dalla possibilità di un attacco da parte di sostenitori armati del presidente Donald Trump convinti di combattere contro un governo americano illegittimo. La progressiva riduzione delle forze militari all’estero era in effetti una promessa fatta da Trump in campagna elettorale e poi in parte mantenuta, ma lo scotto da pagare è che adesso l’insurgency è in casa. Gli uomini della Guardia nazionale di guardia a Washington sono stati avvisati durante il briefing del possibile uso di Ied, che sta per Improvised explosive device ed era la sigla più conosciuta della guerra in Iraq. Indicava le bombe artigianali confezionate dalla guerriglia e piazzate un po’ ovunque per uccidere e ferire le truppe. Il giorno dell’assalto al Congresso due bombe artigianali funzionanti sono state lasciate davanti alle sedi del Partito democratico e di quello repubblicano, l’ipotesi è che fossero un diversivo per distrarre da quello che stava per succedere. L’uso di bombe da parte dell’assortimento di fazioni che vuole Trump presidente è soltanto una possibilità, ma dopo quello che è successo il sei gennaio il Servizio segreto – che si occupa della sicurezza dei presidenti e in questa occasione speciale dirige tutti gli uomini anche delle altre agenzie – non può permettersi di trascurare scenari. 

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Gli uomini della Guardia nazionale sono armati di fucili e di pistole e per la gioia dei fotografi se li portano dietro anche quando dormono fra i marmi e le statue del Campidoglio – perché così vuole la regola. Nei giorni che hanno preceduto l’assalto dei trumpiani la Guardia nazionale di Washington DC aveva offerto la sua disponibilità per collaborare all’ordine pubblico. La polizia del Congresso aveva rifiutato e poi era stata sopraffatta in pochissimo tempo. La sindaca della capitale Muriel Bowser aveva invece accettato l’offerta, ma aveva voluto soltanto un contingente ridotto di trecento uomini e soltanto con il compito di sorvegliare il traffico e le stazioni della metro. Durante l’irruzione i trecento dovettero correre in armeria a prendere l’equipaggiamento antisommossa (scudi, elmetti e manganelli) e poi tornare sul campo assieme ad altri rinforzi — non prima di avere ottenuto l’autorizzazione per intervenire. Quel giorno però il Pentagono e la sindaca esitarono prima di autorizzare l’intervento della Guardia nazionale contro la folla trumpiana perché temevano molto l’effetto che avrebbero avuto le immagini di militari in mimetica mandati dentro una sede così importante delle istituzioni a lottare contro civili –  si voleva evitare di trasmettere al mondo l’idea di un’operazione autoritaria in un paese fuori controllo, secondo una ricostruzione delle telefonate fatta dal Washington Post. Quella preoccupazione è sparita. La Guardia nazionale è arrivata da sei stati con convogli militari e ha scaricato fucili e grate di metallo davanti alle telecamere. In questi giorni il centro della capitale americana sembrerà la Zona verde, quell’area fortificata di Baghdad dove durante la guerra le persone normali non potevano entrare e dove si concentravano tutti gli edifici delle istituzioni nella speranza che isolarsi dietro un muro sorvegliato bastasse a evitare gli attentati (è ancora così, ma la responsabilità adesso è del governo iracheno). Anche a Kabul c’è una Zona verde, creata sempre a partire dalla stessa idea: un pezzo di città diventa inaccessibile e un po’ più sicuro. Adesso per qualche giorno sarà applicata a Washington DC. “Creeremo una bolla di sicurezza” ha detto l’agente responsabile di tutta l’operazione, Michael Plati, che ha pure pronunciato la definizione “zero fail mission” – una missione che non può permettersi fallimenti (è sperabile, viene da dire). Uno degli scenari più temuti è l’attacco di più persone con armi da fuoco in contemporanea. Una fonte del Pentagono descrive i problemi di sicurezza come “senza precedenti”, perché per settanta giorni Trump ha rifiutato di concedere la vittoria e ha aizzato milioni di sostenitori a impedire la transizione democratica. 

 

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Gli uomini della Guardia nazionale hanno eretto una barriera fatta di grate di metallo attorno al Campidoglio che blocca al pubblico una zona molto più larga delle transenne inutili di una settimana fa. Tredici stazioni della metro da oggi chiudono, i treni tireranno dritto e salteranno le fermate all’interno della zona interdetta fino al 21 gennaio. I palchi per la folla non ci sono e i biglietti d’invito sono limitati, ma queste sono misure previste da molto tempo come precauzioni anti Covid-19 e anche gli arrivi del pubblico erano sconsigliati. Airbnb ha sospeso le prenotazioni per una settimana perché non vuole fare da appoggio logistico a eventuali bande di aggressori. Non sarà un’inaugurazione come le altre del recente passato. Joe Biden arriverà in treno, per rispettare una tradizione consolidata durante la sua carriera politica e poi giurerà all’aperto perché non accetta le possibili alternative come farlo in un posto più riparato. Ci tiene a dare una parvenza di normalità. Poi andrà al cimitero militare di Arlington a rendere omaggio ai caduti come primo atto da commander in chief – la maggioranza dei militari in servizio ha votato per Biden e non per Trump, che è sospettato di disprezzare i militari perché sarebbero dei “perdenti”. Anche questo passaggio sarà difficile, per l’apparato che deve pensare alla sicurezza. Con lui ci saranno gli ex presidenti Barack Obama, George W. Bush e Bill Clinton, con le mogli Michelle, Laura e Hillary. Il 20 gennaio è il sogno invitante di tutti i fanatici anti-establishment d’America. 

 

Come nelle Zone verdi di guerre lontane, c’è diffidenza anche a Washington, non si capisce di chi ci si può fidare, chi sono gli amici e chi sono i nemici. La scorta di Joe Biden è stata ripulita dagli agenti considerati troppo fan di Trump, che sono stati spostati ad altre mansioni perché considerati non affidabili. Ayanna Pressley, rappresentate democratica alla Camera, ha raccontato al Boston Globe di avere scoperto mentre i trumpiani facevano irruzione al Congresso che qualcuno aveva strappato via la pulsantiera nel suo ufficio che serve a dare l'allarme in caso di attacco. Spiega che mentre era trascinata via ha cercato di essere molto attenta a chi la circondava, inclusi i poliziotti perché alcuni non li conosceva e non si fidava. La rappresentante Alexandria Ocasio-Cortez ha detto di essersi barricata in un luogo diverso perché non si fidava a farsi chiudere da qualche parte con i repubblicani. Trenta democratici hanno firmato una lettera per sapere perché alcuni repubblicani hanno concesso visite guidate del Campidoglio a gruppi di sostenitori il giorno prima dell’attacco – in teoria sospese da marzo scorso a causa del Covid-19. Il sospetto è che servissero da ricognizione per il giorno seguente. Nelle immagini dell’assalto finora sono stati identificati ventotto poliziotti e due politici repubblicani – in mezzo ai rivoltosi. Ali Alexander, fondatore della campagna “Stop the Steal”, dice di avere organizzato la presenza della massa di sostenitori di Trump al Campidoglio assieme a tre deputati repubblicani, Andy Biggs e Paul Gosar dell’Arizona e Mo Brooks dell’Alabama, non per lanciare un attacco ma per far sentire ai politici dentro all’edificio l’effetto intimidente “del ruggito della folla”. L’Fbi indaga sull’ipotesi solida che l’assalto fosse stato pianificato in anticipo, in particolare ha filmati di gente che abbandona il comizio di Trump per andare altrove e torna come se fosse andata a prendere qualcosa e poi si unisce all’attacco contro il Campidoglio. Adesso anche senatori e rappresentanti devono passare per i controlli agli ingressi che rivelano la presenza di armi. Quando alcuni di loro, tutti repubblicani, si sono rifiutati, i democratici si sono infuriati e la leader della  Camera, Nancy Pelosi, ha imposto una multa contro chi si sottrae. Ricorda la storia del picchetto d’onore del presidente Hamid Karzai, in Afghanistan, al quale in occasione delle cerimonie e degli arrivi di leader stranieri venivano date munizioni a salve. Vedi mai che a qualcuno venisse l’idea di sparare davvero. 

 

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Fuori dalle grate che circondano il Campidoglio la situazione è ignota. Sappiamo che almeno sedici gruppi pro Trump, alcuni di loro con una linea molto dura, hanno chiesto l’autorizzazione a manifestare a Washington il giorno dell’inaugurazione com’è loro diritto – ma c’è la possibilità che le manifestazioni siano il preludio di scontri. Sappiamo che c'è una Million Militia March in programma per il 20 gennaio che si propone di raccogliere adesioni da tutto il paese per marciare contro l’insediamento di Joe Biden. Ci sono manifesti di propaganda su molti canali social che chiamano alle armi per quel giorno e prima, per domenica 17 gennaio. L’Fbi inoltre segnala che mentre il presidente democratico giura ci potrebbero essere raduni di milizie davanti ai palazzi del governo in tutti gli stati d’America. Un rapporto d’intelligence visto dal New York Times dice che le agenzie di sicurezza sono preoccupate per il potenziale materializzarsi “di una popolazione DVE sparsamente connessa, duratura e numerosa, capace di mobilitarsi con violenza e di seguire le istigazioni che appaiono sui social media ad attaccare infrastrutture e persone del governo. La narrazione falsa e condivisa di elezioni ‘rubate’ potrebbe convincere individui che non c’è altra alternativa e che la violenza è necessaria”. DVE in questo caso è una sigla che indica i Domestic violent extremist, gli estremisti violenti di casa, da distinguere dai terroristi stranieri. Conviene familiarizzare con la definizione. Ma per ora non è possibile sapere in quanti aderiranno davvero, in quanti preferiranno passare la mano, in quanti si rassegneranno per sempre e in quanti invece sceglieranno di attendere un’occasione migliore. Il livello d’allarme è così alto e lo schieramento di forze per il momento è così potente che quella cerimonia specifica dovrebbe dissuadere gli attacchi. E dopo? 

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In teoria la sconfitta di Trump alle elezioni con un distacco enorme nel voto popolare avrebbe dovuto scoraggiare i suoi sostenitori, inclusi i due ceppi più pericolosi. Il primo è quello di QAnon che credono con fanatismo in un complotto che giustificherebbe qualsiasi atrocità contro i nemici di Trump – perché il presidente uscente è un eroe in lotta contro il male, ovvero contro democratici pedofili e cannibali. Il secondo ceppo è quello del cosiddetto “boogaloo”, quindi gli accelerazionisti che sperano in una seconda guerra civile e fanno di tutto per scatenarla. Entrambi hanno fatto una doccia fredda a novembre. La rivolta del sei gennaio però ha creato un clima nuovo di entusiasmo, di resistenza collettiva, di scambi di contatti da una parte all’altra degli Stati Uniti. Su Telegram i loro canali sono eccitati e raccolgono nuovi iscritti di ora in ora. Quelli di Q continuano a spostare in là il giorno della resa dei conti e sono ancora incerti sul come spiegare la situazione attuale. Forse Trump ha già giurato in una località segreta ed è il vero presidente degli Stati Uniti? Il tenore delle chat è questo. Quelli del boogaloo continuano a parlare di “revolting citizens” e raccomandano di mettere via provviste per far fronte ai disordini dei prossimi mesi. Per ogni canale cancellato ne restano altri che stanno attenti a non incitare direttamente alla violenza, ma fanno circolare manuali militari per preparare i volontari alla guerra. Di tutto questo il presidente Biden e il suo servizio di scorta dovranno tenere conto nei prossimi anni. Viene da chiedersi se, oltre alla temporanea Zona verde di Washington, ci saranno aree del paese più o meno rischiose per il presidente degli Stati Uniti. San Francisco in California sarà considerata meno pericolosa di Lansing in Michigan, dove c’è più densità di miliziani? Più adatta a una “zero fail mission”? Sono domande da post-presidenza Trump. C’è anche la possibilità che il presidente uscente, tagliato fuori dai social e alle prese con molti guai fiscali e giudiziari, perderà la presa che ha oggi sul Partito repubblicano e sulla massa enorme dei suoi sostenitori e diverrà irrilevante assieme ai suoi fan. 

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Postilla. A leggere nelle chat di Telegram dei gruppi di insurgents trumpiani del ramo boogaloo, quindi quelli che attendono con speranza una seconda guerra civile, si nota disprezzo per i tipi di QAnon, considerati degli scemi che credono a qualsiasi cosa e che aspettano troppo senza fare nulla. In teoria sono sodali nella lotta, in pratica c’è malanimo. Ecco cosa c’era scritto ieri su uno dei canali considerati più pericolosi, ed è un messaggio ricorrente e ripreso più volte anche da altri: “QAnon è soltanto un gruppo di supporto per gente che s’inventa teorie sempre più elaborate e complesse per sostenere che la situazione è ok e non darsi una mossa. Se ti limiti a sbattere la testa contro il muro dai un contributo alla causa comunque utile quanto quelli che partecipano a QAnon. Se non vuoi fare niente e finire in un campo Fema (la Protezione civile americana che secondo questi del boogaloo rinchiuderà molti americani dentro a campi profughi) e poi in una fossa comune quando decideranno di fare pulizia, allora ammetti che sei troppo pigro o codardo per imparare a fare qualcosa e stattene a giocare con i videogames”.  
  

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