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Dalla Grecia a Lipa e Trieste: le toppe dell'Ue per contenere i migranti

Luca Gambardella

Nonostante il Covid, il flusso lungo la rotta balcanica nel 2020 è aumentato del 78 per cento, addirittura del 420 per cento quello che passa per le frontiere italiane in Friuli Venezia Giulia. Quanto costa all'Ue esternalizzare la sua politica migratoria

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A intrappolare fra le neve di Lipa, a nord-ovest della Bosnia Erzegovina, circa 2.500 migranti che da mesi tentano di raggiungere la Croazia è stato il sistema di appalti esterni su cui si regge la politica migratoria europea. Le immagini drammatiche che da settimane mostrano centinaia di persone costrette a temperature sotto lo zero hanno messo l'Ue sotto pressione. Per Bruxelles, la situazione è “completamente inaccettabile”: non solo i paesi europei, ma anche quelli candidati a diventare membri dell'Ue devono prendersi cura dei migranti. Dal 2018 a oggi l'Europa ha finanziato la Bosnia con 88 milioni di euro, una cifra destinata unicamente alla gestione dei flussi migratori. Lo scorso 3 gennaio, quando l'attenzione generale era già concentrata su Lipa, l'Alto rappresentante Josep Borrell ha annunciato altri 3,5 milioni extra. “Questo disastro umanitario può essere evitato”, aveva detto il leader della politica estera europea rivolgendo un appello sia alla Federazione croato-musulmana sia alla Repubblica serba, le due entità che compongono lo stato della Bosnia Erzegovina. Invece no, evidentemente, e le cose al confine fra Bosnia e Croazia non accennano a migliorare. Nel corso di una recente telefonata con Borrell, Milorad Dodik, leader serbo bosniaco noto per le sue tesi negazioniste sul massacro di Srebrenica, ha chiarito che non accetterà in alcun modo di accogliere migranti o rifugiati nei territori della Repubblica serba. Rifiuti analoghi sono arrivati anche dai bosniaco-croati. Le mance non bastano, quindi e i leader locali preferiscono speculare sulle condizioni tragiche in cui sono costretti i migranti per ottenere molto di più.

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A intrappolare fra le neve di Lipa, a nord-ovest della Bosnia Erzegovina, circa 2.500 migranti che da mesi tentano di raggiungere la Croazia è stato il sistema di appalti esterni su cui si regge la politica migratoria europea. Le immagini drammatiche che da settimane mostrano centinaia di persone costrette a temperature sotto lo zero hanno messo l'Ue sotto pressione. Per Bruxelles, la situazione è “completamente inaccettabile”: non solo i paesi europei, ma anche quelli candidati a diventare membri dell'Ue devono prendersi cura dei migranti. Dal 2018 a oggi l'Europa ha finanziato la Bosnia con 88 milioni di euro, una cifra destinata unicamente alla gestione dei flussi migratori. Lo scorso 3 gennaio, quando l'attenzione generale era già concentrata su Lipa, l'Alto rappresentante Josep Borrell ha annunciato altri 3,5 milioni extra. “Questo disastro umanitario può essere evitato”, aveva detto il leader della politica estera europea rivolgendo un appello sia alla Federazione croato-musulmana sia alla Repubblica serba, le due entità che compongono lo stato della Bosnia Erzegovina. Invece no, evidentemente, e le cose al confine fra Bosnia e Croazia non accennano a migliorare. Nel corso di una recente telefonata con Borrell, Milorad Dodik, leader serbo bosniaco noto per le sue tesi negazioniste sul massacro di Srebrenica, ha chiarito che non accetterà in alcun modo di accogliere migranti o rifugiati nei territori della Repubblica serba. Rifiuti analoghi sono arrivati anche dai bosniaco-croati. Le mance non bastano, quindi e i leader locali preferiscono speculare sulle condizioni tragiche in cui sono costretti i migranti per ottenere molto di più.

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La storia si ripete: la strategia europea dell'esternalizzazione della gestione dei confini ha i suoi pro – diminuire il flusso di migranti all'interno dell'Ue – ma anche i suoi contro, primo fra tutti quello di rendersi ricattabile. Lo sa bene la Turchia, che è parte del problema di Lipa. Dopo un anno di tensioni con l'Ue – su Mediterraneo orientale, Siria, Libia, Nagorno-Karabakh – finalmente a Natale il presidente Recep Tayyip Erdogan ha rivolto parole distensive nei confronti dell'Europa: “Non abbiamo nulla da guadagnare nel voltare le spalle all'occidente”, ha detto Erdogan. Ed è quantomai vero, visto che l'obiettivo numero uno sull'agenda del presidente turco per il 2021 è quello di riaprire il tavolo dei negoziati con l'Ue per rinnovare l'accordo sui migranti del 2016. Accordo che sta dando i suoi frutti, ma che evidentemente mostra delle crepe. Ieri, la Grecia ha chiesto all'Ue di aiutarla a convincere Ankara a riprendersi almeno 1.450 migranti irregolari che i turchi – secondo quanto previsto dall'accordo con l'Europa – dovrebbero riaccogliere. La Grecia resta una bomba pronta a esplodere ai confini dell'Ue: a fronte di oltre 100.000 richieste di asilo ancora da esaminare, lo scorso anno i migranti irregolari che ufficialmente sono stati rispediti dalle coste elleniche alla Turchia – al netto dei respingimenti illegali, ovviamente – sono stati appena 139. Notis Mitarakis, ministro greco dell'Immigrazione, ha detto che si augura che ora Ankara “acconsenta alla ricollocazione dei migranti sulla base degli accordi fra l'Ue e la Turchia”. Difficile credere che le cose migliorino a breve termine.

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L'epidemia di Covid-19 e i timori di creare nuovi focolai di infezione hanno di fatto bloccato l'afflusso di irregolari dalla Grecia alla Turchia. Il risultato è che nel quadrante sud-est del Mediterraneo si è creato un primo tappo, su cui la pressione resta incessante. L'Ue si attendeva che la pandemia rallentasse l'afflusso dei migranti lungo la rotta dei Balcani occidentali ma i numeri dimostrano che le attese sono state disattese e la pezza messa in Grecia non si sta dimostrando abbastanza impermeabile. I dati dello scorso 8 gennaio diffusi da Frontex – l'agenzia europea per la gestione delle frontiere esterne, a sua volta finita in uno scandalo di respingimenti illegali di migranti – certificano che la rotta balcanica nel 2020 è stata interessata da un incremento dei flussi migratori pari al 78 per cento rispetto al 2019, con un totale di 29.928 persone sconfinate dalla Grecia ai Balcani. 

  

   

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Se la strategia europea di esternalizzare i flussi migratori non si traduce in un automatico azzeramento degli arrivi, è invece la polizia di frontiera croata a fare il resto. Alla fine del 2020, il Danish Refugee Council, un'ong molto attiva in Bosnia, ha denunciato decine e decine di respingimenti illegali da parte della polizia croata al confine. Gli agenti si sono accaniti sui migranti con pestaggi, furti ed episodi di violenza sessuale. Si parla di oltre 75 vittime di cui si ha avuto notizia solamente lo scorso ottobre, ma i migranti che ogni giorno rischiano la vita per tentare di sconfinare in Croazia sono circa un migliaio, accampati al valico di Velika Kladuša.

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Il sistema dei “tappi” adottato dall'Ue lungo il suo fianco orientale si esaurisce ovviamente in Italia, dove i valichi di Trieste e Gorizia hanno conosciuto un afflusso in netto aumento rispetto all'anno precedente. Si parla di 1.240 respingimenti informali registrati nel 2020, il 420 per cento in più rispetto al 2019. “Non esiste accordo che possa rendere legale ciò che apre la strada alla violazione delle persone e dei loro diritti”, è stata qualche giorno fa la condanna rivolta dalla consigliera regionale del Pd in Friuli Venezia Giulia, Chiara Da Giau. “Le modalità con cui l'Italia e la Regione Fvg operano per il rispetto della convenzione di Dublino non possono eludere la responsabilità su quello che succede una volta varcato quel confine, specie se mancano trasparenza e certezza di regolarità anche sui comportamenti sul suolo italiano”.

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