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La danza degli outsider

Le facce nuove dell’America latina che teme un’unica cosa: gli eserciti

Cecilia Sala

La pandemia ha cambiato gli equilibri in molti paesi, ma c’è una variante recente del populismo. Ed è un anno superelettorale

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I populisti latinoamericani ora puntano al potere. Si potrebbe obiettare, non a torto: ce l’hanno già. Ma non ci sono limiti a una concezione della vita pubblica dominata dalla passione e dalla pretesa di unanimità. Al sogno dell’alchimia magica, della Nazione organica, che vede il “popolo” armonico come il corpo umano. Senza fratture, senza minoranze, senza conflitto. Con la comunità posta al di sopra dell’individuo e delle sue libertà. Al populismo insomma (secondo la declinazione del professor Loris Zanatta). C’entra il fatto che, nel mondo, una vittima di Covid su quattro è latinoamericana. C’entrano la paura, il caos, il disastro economico e sociale. Il Perù è ingovernabile, il Brasile “in bancarotta” (parola del presidente), il Venezuela in un dramma congelato, in Cile c’è stata una rivoluzione, in Ecuador l’austerity e le proteste, in Bolivia è successo di tutto, in Guatemala hanno assaltato e dato fuoco al Parlamento. Una banalità: gli sconvolgimenti economici modificano spesso gli assetti politici. Può accadere ovunque, in America latina è solo un po’ più visibile, rapido, estremo. Nella prima puntata di “El candidato”, una serie spionistica su Prime Video che segue la vita di due agenti della Cia a Città del Messico, c’è una scena in cui la protagonista Isa e il sindaco Lalo sono a un party in un museo d’arte contemporanea. Vicino a loro, un gruppo di persone chiacchiera con il calice in mano. Nel bisbiglio generale si distingue una voce di signora: “Non sentite anche voi questa atmosfera creativa e terrificante che ci circonda, non pare anche a voi di essere nella Repubblica di Weimar?”. Il presagio apocalittico viene particolarmente bene a queste latitudini, nella culla del realismo magico (in quel caso sarebbe scoppiata una guerra del narcotraffico che sconvolge il paese).

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I populisti latinoamericani ora puntano al potere. Si potrebbe obiettare, non a torto: ce l’hanno già. Ma non ci sono limiti a una concezione della vita pubblica dominata dalla passione e dalla pretesa di unanimità. Al sogno dell’alchimia magica, della Nazione organica, che vede il “popolo” armonico come il corpo umano. Senza fratture, senza minoranze, senza conflitto. Con la comunità posta al di sopra dell’individuo e delle sue libertà. Al populismo insomma (secondo la declinazione del professor Loris Zanatta). C’entra il fatto che, nel mondo, una vittima di Covid su quattro è latinoamericana. C’entrano la paura, il caos, il disastro economico e sociale. Il Perù è ingovernabile, il Brasile “in bancarotta” (parola del presidente), il Venezuela in un dramma congelato, in Cile c’è stata una rivoluzione, in Ecuador l’austerity e le proteste, in Bolivia è successo di tutto, in Guatemala hanno assaltato e dato fuoco al Parlamento. Una banalità: gli sconvolgimenti economici modificano spesso gli assetti politici. Può accadere ovunque, in America latina è solo un po’ più visibile, rapido, estremo. Nella prima puntata di “El candidato”, una serie spionistica su Prime Video che segue la vita di due agenti della Cia a Città del Messico, c’è una scena in cui la protagonista Isa e il sindaco Lalo sono a un party in un museo d’arte contemporanea. Vicino a loro, un gruppo di persone chiacchiera con il calice in mano. Nel bisbiglio generale si distingue una voce di signora: “Non sentite anche voi questa atmosfera creativa e terrificante che ci circonda, non pare anche a voi di essere nella Repubblica di Weimar?”. Il presagio apocalittico viene particolarmente bene a queste latitudini, nella culla del realismo magico (in quel caso sarebbe scoppiata una guerra del narcotraffico che sconvolge il paese).

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Secondo la rubrica dell’Economist “Bello” – che prende il nome da Andrés Bello, venezuelano della fine del XVIII secolo, uno dei più importanti pensatori della metà sud delle Americhe – gli strascichi lasciati dalla pandemia causeranno uno scompiglio paragonabile a quello che aveva portato la crisi del ’29 e la crisi del debito dei paesi sudamericani negli anni Ottanta. Per fare un esempio, il 1930 è l’anno in cui l’Argentina abbandona il “liberal consensus”. Le esportazioni verso Stati Uniti ed Europa l’avevano fatta ricca, e condividere alcuni valori serviva anche a commerciare meglio. Ma un anno dopo il tonfo di Wall Street l’occidente comprava meno, appariva meno utile, ci si poteva allontanare per essere finalmente “se stessi”. Prima il caos, la “decade infame” in cui i golpe militari si susseguono, poi arrivano Perón e il peronismo. Il generale e sua moglie Evita che sono il papà e la mamma del populismo contemporaneo. C’è da aspettarsi un “regime change”, un cambio nell’assetto politico anche nell’America latina post Covid? Per l’Economist, qualcosa di simile si intravede già: “E’ già accaduto che alcuni presidenti, come Nayib Bukele in El Salvador e Jeanine Áñez, presidente ad interim della Bolivia (fino alle ultime elezioni), abbiano usato la pandemia come pretesto per aumentare i propri poteri. Ora la più grande minaccia è che gli eserciti tornino a essere attori politici. Come hanno già fatto in Brasile, in Venezuela e in parte anche in Messico e Bolivia”. In Brasile, l’esercito ha tentato di commissariare Bolsonaro. L’Aeronautica e le Forze armate, durante la prima ondata, si sono rivolte al vicepresidente Hamilton Mourão, un generale, e hanno organizzato riunioni segrete in cui vagliare i presupposti giuridici per disarcionare il presidente. Entrando più nel dettaglio, con il 2021 si apre una stagione elettorale in molti paesi del subcontinente latinoamericano.

 

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Legislative o presidenziali, si andrà alle urne dal Messico all’Argentina, passando per il Perù, il Cile, il Salvador, il Nicaragua e l’Ecuador. Si è aperta la danza degli outsider e degli anticonformisti che vogliono spodestare governanti e classi dirigenti. “Qualsiasi pazzo in questi paesi decida di presentarsi promettendo grandi cose verrà eletto – ha detto un anonimo banchiere sudamericano al Financial Times – Le persone hanno attraversato un periodo molto difficile e sono particolarmente suscettibili alle grandi promesse”. In Perù regna il caos istituzionale e di recente tre presidenti si sono susseguiti in poco più di una settimana. Nel 2021 ci saranno le elezioni generali e a dominare i sondaggi c’è George Forsyth, 38 anni, ex giocatore di baseball, ex concorrente di un popolare reality “El gran show: primera temporada”, più o meno il nostro “Ballando con le stelle”; il suo mentore politico è un pastore evangelico. Forsyth guida un partito che è nato nel 2020, si chiama Victoria Nacional e il più importante endorsement ricevuto finora è un inquietante video degli hacker attivisti di Anonymous in cui si denuncia “la corruzione dilagante nel paese” e si sentenzia che l’unico candidato “pulito” è appunto Forsyth. In Cile è in testa Daniel Jadue, palestinese e comunista, sindacalista e architetto; appartiene a un partito sparito durante la dittatura di Augusto Pinochet, e considerato “fuori dal mondo” dal ritorno della democrazia fino a un anno fa. Intanto nel paese più liberale e “occidentale” dell’America latina sono esplose proteste incendiarie, prima represse brutalmente infine culminate in un referendum che lo scorso ottobre ha abrogato la Costituzione. Un paese da rifare. Reinventare il Cile infatti spetterà a un’assemblea di cittadini che saranno eletti in primavera, tra i candidati a occupare i 155 posti dell’Assemblea costituente spiccano soprattutto i giovani volti delle proteste. La crisi cilena non è come le altre, è iniziata come una richiesta di fare i conti con il passato, tagliare i legami con la dittatura come con i privilegi ereditati da quell’epoca, si è evoluta in contestazione di un modello economico, è finita per “chiedere l’impossibile”.

 

Altrove, le cause della sfiducia sono più semplici da rintracciare. Riguardano soprattutto le conseguenze economiche di un lungo periodo di lockdown totali o parziali. In Ecuador, il presidente in carica Lenín Moreno ha un indice di consenso che ormai da mesi non raggiunge la doppia cifra. I sondaggi vedono in testa Andrés Arauz, un economista di orientamento socialista, subito seguito da Guillermo Lasso, un banchiere milionario e conservatore. Arauz è amico dell’ex presidente Rafael Correa, che portò l’Ecuador all’interno dell’alleanza socialista e bolivariana voluta da Hugo Chávez nei primi anni 2000. E’ il presidente che, rivolgendosi all’Amministrazione americana, disse che avrebbe accettato di mantenere la base militare statunitense sul suo territorio solo se gli avessero concesso in cambio una base ecuadoregna a Miami e lo stesso che aveva dato asilo politico a Julian Assange. In un simile scenario, l’unica eccezione sembra essere il Brasile, dove Bolsonaro continua a salire nei sondaggi, paradossalmente proprio perché (a differenza dei leader dei paesi sopra citati) si è sempre opposto alle chiusure. Per questo, oggi si deresponsabilizza rispetto alle conseguenze economiche del virus. E molti cittadini brasiliani lo seguono, prendendosela con i governatori che negli ultimi mesi si sono ritrovati da soli a contrastare l’epidemia, e hanno deciso i lockdown.

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