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E' morto il magnate di Natura Siberica

La vera success story del capitalismo russo inizia da una saponetta

Anna Zafesova

Ma quale petrolio, Andrei Trubnikov mescolava formiche nelle creme, ha conquistato il mondo partendo da zero. A colpi di maschere e storytelling

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Gas e petrolio, Novichok e kalashnikov, nel migliore dei casi vodka e caviale. A nessuno verrebbe in mente di associare il Made in Russia a qualcosa di inoffensivo e carino. Eppure la più grande success story del capitalismo russo è fatta di saponette, cremine e scrub per la doccia, e il magnate russo che ha conquistato il mondo partendo da zero era uno che si metteva i pantaloncini e si provava i lucidalabbra che inventava su TikTok. Andrei Trubnikov, morto nella sua dacia di Mosca il giorno del Natale ortodosso, a 61 anni, ha lasciato orfano il suo coloratissimo e profumatissimo impero proprio alla vigilia del tanto agognato sbarco in Cina. Presente in una settantina di paesi dell’Europa e dell’Asia, con negozi monomarca a Barcellona, Hong Kong e Copenhagen e spa specializzate nelle Alpi francesi e al Four Seasons di Mosca, il suo marchio Natura Siberica si vende da Harrods come da Esselunga, e ha collezionato tutti i certificati europei dei prodotti organici, e una sfilza di premi internazionali. Una multinazionale familiare in un paese di oligarchi di stato, guidata da un tycoon che di glamour non aveva nulla: pochi capelli, molta pancia, una Rolls Royce - “l’auto più bella del mondo, ho anche una Maybach, ma a confronto sembra una scatola di latta” – e un borsellino ricavato da un rospo appeso al collo sopra magliette sformate, Trubnikov era indifferente al suo aspetto tanto quanto era maniacale nella cura dei suoi prodotti.

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Gas e petrolio, Novichok e kalashnikov, nel migliore dei casi vodka e caviale. A nessuno verrebbe in mente di associare il Made in Russia a qualcosa di inoffensivo e carino. Eppure la più grande success story del capitalismo russo è fatta di saponette, cremine e scrub per la doccia, e il magnate russo che ha conquistato il mondo partendo da zero era uno che si metteva i pantaloncini e si provava i lucidalabbra che inventava su TikTok. Andrei Trubnikov, morto nella sua dacia di Mosca il giorno del Natale ortodosso, a 61 anni, ha lasciato orfano il suo coloratissimo e profumatissimo impero proprio alla vigilia del tanto agognato sbarco in Cina. Presente in una settantina di paesi dell’Europa e dell’Asia, con negozi monomarca a Barcellona, Hong Kong e Copenhagen e spa specializzate nelle Alpi francesi e al Four Seasons di Mosca, il suo marchio Natura Siberica si vende da Harrods come da Esselunga, e ha collezionato tutti i certificati europei dei prodotti organici, e una sfilza di premi internazionali. Una multinazionale familiare in un paese di oligarchi di stato, guidata da un tycoon che di glamour non aveva nulla: pochi capelli, molta pancia, una Rolls Royce - “l’auto più bella del mondo, ho anche una Maybach, ma a confronto sembra una scatola di latta” – e un borsellino ricavato da un rospo appeso al collo sopra magliette sformate, Trubnikov era indifferente al suo aspetto tanto quanto era maniacale nella cura dei suoi prodotti.

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Non aveva mai studiato nelle business school, ma era il laureato più folle e geniale della scuola darwiniana del primo capitalismo russo, quello davvero selvaggio, nel quale si era cimentato in alcolici più o meno taroccati e in detersivi da quattro soldi. Era finito in bancarotta nel default del 1998: “Mi rimasero 5 mila dollari, con i quali fondai la società che possiedo oggi, vale 500 milioni, ma dovrebbe valere 2-3 miliardi”. In un paese ridotto, per l’ennesima volta, alla fame, decise di scommettere sulla bellezza, sulla cura di sé, contrapponendo alle ambizioni da potenza globale un ideale privatissimo, edonista e ambientalista. Le etichette di Natura Siberica si leggono come un romanzo d’avventura: creme al latte di alce, maschere al tè rosso delle Kurili, impacchi al bucaneve della Kamchatka e tonici al gingseng della taigà. Viene il dubbio che tutte queste sostanze siano state inventate, ma Trubnikov – che sceglieva personalmente le confezioni e i testi – aveva capito perfettamente che lo spirito del tempo era lo storytelling: “Le ricette dei cosmetici sono più o meno sempre le stesse, l’importante è raccontare la fiaba che c’è dietro”. Per poi confermare che la fiaba era vera, aveva lanciato le coltivazioni organiche certificate più grandi dell’Asia, in Khakassia, dove donne delle minoranze siberiane, vestite con tute e guanti bianchi con il logo di Natura Siberica, raccolgono erbe curative dai nomi esotici: “La Russia all’estero significa Putin, vodka e missili, io vendo la Siberia”, diceva.

 

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Nessun giudizio, il re degli shampoo non andava a votare, la politica per lui era marketing come tutto il resto. Aveva appeso un ritratto di Putin nel suo ufficio ricoperto di graffiti e lanciato una linea alle erbe della Crimea, ma teneva pronta una serie di prodotti “antisovietici” da mettere sul mercato quando la nostalgia per l’Urss si sarebbe esaurita. Una follia imprenditoriale che, caso più unico che raro in Russia, non aveva dietro né il Cremlino, né il Kgb, anche se Trubnikov si lamentava che in America non lo volevano dopo che aveva confessato in un’intervista di essere stato bocciato dal Kgb quando era giovane. Difficile dare torto al Kgb: il genio delle saponette era incapace di funzionare all’interno di un sistema. Il suo identikit dell’investitore ideale, che infatti non riusciva a trovare, era “uno che non chiede business plan e non convoca consigli d’amministrazione con presentazioni di slide due volte a settimana”. Un padre-padrone possibile solo in un capitalismo esordiente, che disprezzava le analisi di mercato e snobbava le società di consulenza: “Io sento il mercato sulla punta delle dita, non voglio perdere tempo a convincere gli azionisti”, diceva. Comandava i suoi dipendenti a colpi di messaggini e emoji con cuoricini, in una sete di onnipresenza totalitaria. Mescolava formiche nelle creme, come un Ferrero che creava la futura Nutella, e controllava le commesse e voleva diseredare i figli, come un Caprotti. Sognava lo zar ma sembrava uscito dai sogni dei liberisti: “L’imprenditore non lavora per il profitto, ma per creare qualcosa che resti, per colmare dei buchi”.

 

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