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Dopo Twitter e Facebook

Bezos, Trump, la fine di Parler e la rivolta repubblicana contro i Big Tech

Greta Privitera

L'ultimo gigante della tecnologia a scendere in campo contro the Donald è stato Amazon. Ma per Fox News "questo è un attacco spaventoso e oltraggioso alla libertà di parola"

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L’ultimo gigante a partecipare alla festa contro Trump e il trumpismo è stato Amazon. Il colosso tecnologico di Jeff Bezos ha disabilitato i server di sua proprietà che ospitavano Parler, il social network frequentato soprattutto dall’estrema destra americana e su cui si è organizzato l’assalto a Capitol Hill, costringendolo ad andare offline. I motivi sono sempre gli stessi, sono anche quelli degli altri giganti: “Parler non modera adeguatamente i contenuti dei suoi utenti”. Prima di Amazon, Apple e Google avevano rimosso il social network dai loro app store, rendendolo inscaricabile. Ad aprire le danze della rimozione, per alcuni “legittima e necessaria” e per altri “censoria”, sono stati Twitter e Facebook che, dopo le violenze al Campidoglio, hanno bloccato i profili di Donald Trump. Nei giorni in cui la sinistra grida al 25esimo emendamento e all’impeachment, gli unici, per ora, che hanno preso provvedimenti contro quello che è successo mercoledì 6 gennaio nelle sale del Congresso sono i colossi della tecnologia. E’ ormai da un po’ che l’opposizione più forte al trumpismo e alle sue derive pericolose non viene dai partiti o dalle corti di giustizia, ma dalla West Coast dei giganti tecnologici a cui batte un cuore dem.

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L’ultimo gigante a partecipare alla festa contro Trump e il trumpismo è stato Amazon. Il colosso tecnologico di Jeff Bezos ha disabilitato i server di sua proprietà che ospitavano Parler, il social network frequentato soprattutto dall’estrema destra americana e su cui si è organizzato l’assalto a Capitol Hill, costringendolo ad andare offline. I motivi sono sempre gli stessi, sono anche quelli degli altri giganti: “Parler non modera adeguatamente i contenuti dei suoi utenti”. Prima di Amazon, Apple e Google avevano rimosso il social network dai loro app store, rendendolo inscaricabile. Ad aprire le danze della rimozione, per alcuni “legittima e necessaria” e per altri “censoria”, sono stati Twitter e Facebook che, dopo le violenze al Campidoglio, hanno bloccato i profili di Donald Trump. Nei giorni in cui la sinistra grida al 25esimo emendamento e all’impeachment, gli unici, per ora, che hanno preso provvedimenti contro quello che è successo mercoledì 6 gennaio nelle sale del Congresso sono i colossi della tecnologia. E’ ormai da un po’ che l’opposizione più forte al trumpismo e alle sue derive pericolose non viene dai partiti o dalle corti di giustizia, ma dalla West Coast dei giganti tecnologici a cui batte un cuore dem.

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Ed è da un po’ che i repubblicani si trovano come rivali Jack Dorsey, Mark Zuckerberg, Tim Cook e Jeff Bezos. Un articolo di Liz Peek, una giornalista di Fox News, inizia così: “Come si permettono?”. Intende come si permettono i Big Tech a costringere gli americani a non seguire quello che è ancora il loro presidente. Secondo la giornalista, i repubblicani dovrebbero fare qualcosa. “Questo è un attacco spaventoso e oltraggioso alla libertà di parola. I legislatori repubblicani devono resistere e devono iniziare una campagna nel 2022 per revocare le protezioni concesse a queste aziende dalla sezione 230 del Communications Decency Act”, scrive. La legge afferma che “nessun fornitore e nessun utilizzatore di servizi Internet può essere considerato responsabile, come editore o autore, di una qualsiasi informazione fornita da terzi”. Ma di fatto Apple, Facebook, Twitter e Amazon si stanno comportando da editori. “E’ paradossale che nella nota di avvertimento a Parler, Apple dichiari il social di fatto responsabile dei contenuti pubblicati, che è l’opposto di quello che prevede l'emendamento che in realtà deresponsabilizzerebbe anche Apple”, continua Peek. Inutile dire che Parler è d’accordo con lei. L’amministratore delegato, John Matze, ha dichiarato in un'intervista al New York Times di non sentirsi responsabile di quello che viene pubblicato sulla piattaforma, “siamo una piazza neutrale che si limita a rispettare la legge. Se la gente organizza qualcosa, vuol dire che è arrabbiata. Si sente tradita. Ha bisogno di leader che fermino questo odio di parte. Ha bisogno di riunirsi e discutere, in un posto come il nostro“.

 

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In molti credono che se su Parler vengono pubblicate fake news, immagini razziste e nefandezze varie, cosa che accade di continuo, se i Proud Boys, i suprematisti bianchi, i complottisti organizzano assalti pericolosi alla democrazia, a occuparsene dovrebbero essere gli organi della giustizia ordinaria, non un’azienda privata come Apple o Google o si rischia la censura. Dietro a Parler ci stanno anche molti soldi. A finanziare il social è Rebekah Mercer, l’ereditiera conservatrice tra i maggiori donatori di Trump, figlia di Robert Mercer, fondatore di Cambridge Analytica. La Mercer è stata uno dei 16 membri del comitato esecutivo di transizione di Trump, e la Cnn ipotizza che sia stata proprio lei a consigliare al presidente uscente di assumere Steve Bannon e Kellyanne Conway, visto che finanziava anche Breitbart News. Secondo Sensor Tower, una società di dati, l’app è stata scaricata più di 10 milioni di volte, con oltre l’80 per cento dei download negli Stati Uniti. Giovedì, il giorno dopo la rivolta a Washington, Parler ha totalizzato 39 mila download, più del doppio rispetto al giorno prima. E ora molti chiedono: siamo sicuri che oscurare 10 milioni di persone sia una buona idea?

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