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Il lato pulp del contratto Brexit

Paola Peduzzi

Che cosa manca nel testo dell’accordo tra Londra e Bruxelles e come sarà punito chi proverà a sgarrare. L’equivoco su Tarantino, la supernegoziatrice francese e il favore alla Bbc

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Il negoziato va “resuscitato come nella scena di Pulp Fiction in cui iniettano l’adrenalina direttamente nel cuore di Uma Thurman”, disse Boris Johnson all’inizio di dicembre a Ursula von der Leyen. “Non ho visto quel film”, rispose la presidente della Commissione europea, mentre i suoi collaboratori si affannavano sui loro iPad per cercare su YouTube quella scena e spiegare alla dama tedesca di che cosa stesse parlando il premier britannico. 
Questo è uno degli aneddoti emerso nei tanti, meravigliosi retroscena che sono stati scritti sui giornali inglesi ed europei dopo che tutti hanno tirato un sospiro di sollievo, il 24 dicembre, quando l’accordo sulle relazioni future tra Regno Unito e Unione europea è stato infine trovato. Ce ne sono molti altri, di aneddoti, uno ha a che fare con “il martello”, l’arma usata da Bruxelles attorno al 20 dicembre per costringere Londra ad accettare le condizioni (punitive per gli inglesi) sull’ultimo capitolo della trattativa: l’accesso dei pescherecci europei alle acque britanniche. In occasione del martello, Johnson parlò in tedesco, disse “Viel hummer, kein hammer”, che vuole dire molte aragoste e nessun martello, ed era il suo modo per dire che no, non avrebbe accettato le condizioni europee e si sarebbe incamminato sulla “via australiana”, che era il codice utilizzato per dire: no deal (Johnson ripeteva agli europei e ai suoi che l’Australia è un bellissimo paese, e quelli si guardavano attorno spaesati). Ma nulla spiega meglio del riferimento a Pulp Fiction che cosa si è rischiato, che cosa si è infine trovato, perché ha un che di gigantesco e tragico questo accordo. A molti questo testo lunghissimo e complicato pare una lista astrusa di tecnicismi e invece è quasi un miracolo. Lui dice Pulp Fiction, lei dice: non so di cosa parli. Secondo Bloomberg, i negoziati sono durati duemila ore, spesso in stanze buie e senza luce naturale. Anzi, a novembre, il caponegoziatore europeo, Michel Barnier, ha lavorato da casa a lume di candela perché era in quarantena e a Bruxelles c’era stato un blackout. Poteva andare malissimo, è andata in modo ragionevole. 

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Il negoziato va “resuscitato come nella scena di Pulp Fiction in cui iniettano l’adrenalina direttamente nel cuore di Uma Thurman”, disse Boris Johnson all’inizio di dicembre a Ursula von der Leyen. “Non ho visto quel film”, rispose la presidente della Commissione europea, mentre i suoi collaboratori si affannavano sui loro iPad per cercare su YouTube quella scena e spiegare alla dama tedesca di che cosa stesse parlando il premier britannico. 
Questo è uno degli aneddoti emerso nei tanti, meravigliosi retroscena che sono stati scritti sui giornali inglesi ed europei dopo che tutti hanno tirato un sospiro di sollievo, il 24 dicembre, quando l’accordo sulle relazioni future tra Regno Unito e Unione europea è stato infine trovato. Ce ne sono molti altri, di aneddoti, uno ha a che fare con “il martello”, l’arma usata da Bruxelles attorno al 20 dicembre per costringere Londra ad accettare le condizioni (punitive per gli inglesi) sull’ultimo capitolo della trattativa: l’accesso dei pescherecci europei alle acque britanniche. In occasione del martello, Johnson parlò in tedesco, disse “Viel hummer, kein hammer”, che vuole dire molte aragoste e nessun martello, ed era il suo modo per dire che no, non avrebbe accettato le condizioni europee e si sarebbe incamminato sulla “via australiana”, che era il codice utilizzato per dire: no deal (Johnson ripeteva agli europei e ai suoi che l’Australia è un bellissimo paese, e quelli si guardavano attorno spaesati). Ma nulla spiega meglio del riferimento a Pulp Fiction che cosa si è rischiato, che cosa si è infine trovato, perché ha un che di gigantesco e tragico questo accordo. A molti questo testo lunghissimo e complicato pare una lista astrusa di tecnicismi e invece è quasi un miracolo. Lui dice Pulp Fiction, lei dice: non so di cosa parli. Secondo Bloomberg, i negoziati sono durati duemila ore, spesso in stanze buie e senza luce naturale. Anzi, a novembre, il caponegoziatore europeo, Michel Barnier, ha lavorato da casa a lume di candela perché era in quarantena e a Bruxelles c’era stato un blackout. Poteva andare malissimo, è andata in modo ragionevole. 

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Libera circolazione delle persone. Per i cittadini degli stati membri dell’Ue significa: nessun controllo alle frontiere, circolazione senza visti, nessun roaming, diritto di studio, lavoro e permanenza in un altro stato membro, passaporto per gli animali domestici. Che cosa significa per gli inglesi: nessun visto se la permanenza è inferiore ai tre mesi, nuove e specifiche regole per quel che riguarda lo studio e il lavoro e la vita in un paese dell’Ue. A proposito di studio: nonostante le promesse, Johnson considera il programma di scambio studentesco Erasmus troppo costoso. Chi è già nel programma, può terminarlo. Per tutti gli altri sarà introdotto il programma Alan Turing, che al momento costa nel 2021-22 100 milioni di sterline. Per Nicola Sturgeon, premier scozzese che ha rilanciato l’indipendenza per contrastare Londra sulla Brexit e non voterà a favore dell’accordo, ha definito l’uscita dal programma Erasmus “vandalismo culturale”. 


I paesi europei hanno accettato in modo unanime l’accordo: ieri si sono riuniti gli ambasciatori dei 27 e hanno dato il via libera, oggi nel primo pomeriggio ci sarà la procedura formale di accettazione. Resta la ratifica del Parlamento europeo, prevista per l’inizio del 2021. Nel Regno Unito, come al solito, le cose sono più complicate: mercoledì si riuniscono i Comuni e i Lord a Westminster, per il dibattimento e il voto dell’accordo. Molti deputati dicono che non c’è abbastanza tempo per leggere tutto il documento (1.246 pagine più appendici), all’improvviso affezionati ai dettagli. In una chat su Whatsapp vista da un giornalista di Sky News, il premier Johnson ha scritto ai conservatori: “Sono convinto che ora abbiamo messo le basi per un’amicizia di lungo periodo con l’Unione europea come pari in termini di sovranità. So che il diavolo sta nei dettagli, ma sono certo che questo testo può sopravvivere anche allo scrutinio spietato e talmudico delle aquile” della Star chamber, il gruppo di avvocati euroscettici nato nel 2019 e guidato dal conservatore Bill Cash, quando c’era da affossare il negoziato dell’allora premier Theresa May. E’ atteso in queste ore il verdetto degli avvocati euroscettici, ma i commentatori sono piuttosto certi: ci saranno delle ribellioni di sicuro, ma l’accordo passa, la maggioranza di Johnson è enorme e si è formata con lo slogan elettorale del dicembre dello scorso anno, “get Brexit done”. 

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Il commercio di beni non è senza frizioni. L’accordo prevede che la maggior parte dei beni commerciati tra continente e Regno Unito non abbia dazi o quote. Ma per gli esportatori britannici ci saranno nuove regole che renderanno più complicato lo scambio con l’Ue. Qualche esempio: per non avere dazi, i prodotti esportati  potranno avere un numero limitato di parti assemblate in paesi stranieri (extra Ue), altrimenti il “made in UK” non sarà valido e ci saranno dazi. Ogni settore ha le sue regole che cambieranno  (diventeranno più rigide) col tempo, come dimostrano le auto ibride che per ora possono avere il 60 per cento delle parti provenienti dall’estero, ma questa percentuale nel 2026 scenderà a 55. 

   

Per il Labour questi saranno giorni amari: l’unica consolazione è che poi il dilemma Brexit potrà essere un pochino dimenticato. Il leader laburista, Keir Starmer, aveva detto qualche settimana fa che il principale partito d’opposizione del Regno si sarebbe astenuto sul voto. Polemiche: come si fa ad astenersi su una cosa tanto importante? Starmer aveva fatto un calcolo a suo modo razionale: non vogliamo né il caos di un’eventuale bocciatura né mettere il nostro sigillo sull’accordo, quindi meglio non dire nulla, tanto in ogni caso il partito è diviso e l’accordo passerebbe ai Comuni. Poi Starmer ha cambiato idea, e forse questo è un errore che gli peserà molto di più: ha detto che il Labour voterà a favore dell’accordo. C’è una piccola rivolta interna, alcuni ministri ombra minacciano di andarsene, i remainer dicono: perché non lasciare libertà di coscienza, visto che bastano i voti conservatori per far passare l’accordo? In effetti in questo modo Starmer si sarebbe levato un bel guaio, ma molti politologi ricordano: è l’ennesima tempesta nel bicchiere, poi passa. 

 

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Il settore finanziario è poco citato nell’accordo e non è stata presa alcuna decisione sulla cosiddetta “equivalenza” che permette alle aziende della City di vendere i suoi servizi nel mercato unico. La discussione su questa questione (rilevante, essendo il Regno Unito un’economia di servizi) deve ancora essere fatta: l’Ue ha detto di aver bisogno di maggiori informazioni da parte di Londra e che non ha intenzione di prendere ora decisioni in proposito. Le parti però hanno fatto una dichiarazione congiunta per mantenere la collaborazione sul controllo delle operazioni finanziarie: vogliono accordarsi su un Memorandum of Understanding a marzo, che non sarà vincolante. Sulla questione del settore finanziario il dibattito è spaccato a metà: i Brexit-scettici sono preoccupati, dicono che l’accordo rischia di essere troppo sottile e quindi fragile. I Brexit-entusiasti invece dicono che il fatto che non ci siano regole su un settore tanto rilevante è un’opportunità da non mancare: meno si dice, più margine di manovra c’è. In mezzo ci sono gli esperti che sottolineano: le barriere, nel mondo finanziario, sono molto più basse rispetto al commercio di beni, quindi preoccuparsi va bene, allarmarsi troppo no.

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La domanda che tutti si fanno ora è: che cosa se ne farà Johnson della sovranità ritrovata? Sul Wall Street Journal, due giornalisti hanno messo a fuoco la questione con una premessa importante: “Boris Johnson non è un conservatore a favore del libero mercato in stile Thatcher. Ha promesso finora ai britannici più regolamentazione, non meno, con piani ambiziosi per aumentare il salario minimo e contenere le emissioni inquinanti. Ha promesso più spesa, non meno, in modo da ‘level up’, come dice lui, l’economia oggi troppo dipendente da Londra e dal sud dell’Inghilterra. Proprio queste promesse hanno permesso a Johnson di vincere in aree storicamente ostili al conservatorismo in stile Thatcher, cosa che naturalmente ha avuto un effetto alienante sul mondo del business tradizionalmente alleato ai Tory. Tutte queste decisioni rappresentano un enigma: se Johnson non vuole un’altra rivoluzione economica in stile Thatcher, cosa vuole farci con tutta questa libertà riconquistata?”. 

 

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Anton Spisak, ricercatore del Tony Blair Institute, ha fatto un lavoro straordinario sul testo dell’accordo. In particolare, mentre i brexitologi si avventuravano in un testo scritto con un carattere piccino, Spisak ha pubblicato una specie di organigramma delle nuove relazioni tra Regno Unito e Unione europea. Ci sono delle nuove infrastrutture create dall’accordo: un nuovo Partnership Council, 19 commissioni specializzate, 4 gruppi di lavoro. “Ogni commissione si riunisce almeno una volta l’anno”, dice Spisak, “quindi ci saranno almeno 21 incontri tra inglesi ed europei ogni anno, senza contare le strutture istituzionali create dal Protocollo sull’Irlanda del nord e dall’accordo di ritiro siglato nel 2019. Non voglio che la gente tragga conclusioni errate da questo mio ragionamento: è importante che ci siano strutture di collegamento e di cooperazione. Quel che voglio dire è che l’accordo non stabilisce alcuna fine, ma predispone un nuovo modo di relazionarsi al quale dobbiamo tutti abituarci”.
  

Dopo il vertice europeo di ottobre c’era stato uno stallo nei negoziati. A risolverlo è stata in larga parte Stéphanie Riso, che aveva lavorato con Barnier e che ora è nel team di consiglieri della von der Leyen. Molto esperta di budget europeo e di Brexit, la Riso è una delle poche personalità francesi a essere amata anche al di là della Manica, forse perché è anche parecchio riservata e a differenza di altri europei non si è mai lasciata andare a provocazioni e ironie. La Riso è una di quelle esperte che ha visto Pulp Fiction e che sa come si riavviano i cuori e infatti dopo il suo intervento “all’improvviso”, dicono le cronache, il negoziato ha ripreso vita. E in particolare si è preso atto, mentre la Riso stava con i negoziatori inglesi in presenza e Barnier al telefono, che ci si poteva accordare sulla famigerata “freedom clause”, quella che secondo gli inglesi doveva dare a Londra licenza di fare quel che voleva e che gli europei invece trattavano come una richiesta di chi non vuole alcun accordo. Il compromesso è stato raggiunto così: se ci sono divergenze o abusi rispetto a quel che ci siamo detti, si apre un contenzioso solo su quella questione, non si manda all’aria tutto. Fonti di Downing Street dicono che la Riso ha accolto con un sorriso “lo stimolo intellettuale” dato da questa concezione responsabile della libertà, e Uma Thurman ha aperto gli occhi.

  
Rispettare i patti. Se le due parti violano gli standard comuni a partire dal 1 gennaio 2021, e se questo ha un impatto negativo sull’altra parte, può essere avviato un meccanismo per regolamentare la disputa che in sostanza si traduce in una minaccia: si mettono i dazi (o si fa all’australiana, come direbbe Johnson). Il meccanismo si fonda su una clausola di “riequilibrio” che dà all’Ue e al Regno Unito il diritto di muoversi di fronte a violazioni evidenti: la clausola è considerata “rigida” rispetto a clausole dello stesso tipo in altri trattati commerciali, ed è stata una richiesta dell’Ue. Questo significa che nelle relazioni future tra Europa e Regno Unito la minaccia di introdurre dazi sarà un po’ una costante. 


Londra ha lanciato messaggi confusi sulla sua visione del paese dopo la Brexit. Ora tornano gli slogan di sempre (“take back control” e riconquista della sovranità), ma dovranno essere declinati in una strategia precisa. E qui si arriva a un altro personaggio chiave della storia Brexit che abbiamo visto per l’ultima volta con uno scatolone tra le mani: Dom Cummings. Il principale consigliere di Johnson aveva non soltanto architettato la Brexit ma scritto anche (è un autore prolisso) come andava ricostruito il paese assieme al divorzio dall’Ue. Nella visione di Cummings, la libertà dalle regole europee avrebbe dato al governo la possibilità di intervenire a proprio piacimento su questioni come il cambiamento climatico, l’immigrazione, l’innovazione. La forza economica del Regno era nella possibilità di farlo diventare un hub di tecnologia e investimento in intelligenza artificiale e green economy. Secondo alcuni commentatori c’era anche una rapacità insita in questa visione che si è materializzata sulla faccenda dei vaccini: Londra è corsa per prima a prendere il miglior prodotto su piazza (che non era made in UK). Per questa trasformazione, il governo ha detto di voler valorizzare i cosiddetti “freeport”, le zone di manifattura con tasse basse che secondo gli scettici agevolano l’evasione e che invece sono il punto d’attrazione su cui poggia la strategia inglese di attirare investimenti stranieri. O forse è meglio dire “poggiava”? Quanto Cummings resterà nel governo Johnson? Oggi nessuno sa rispondere alla domanda. Tim Shipman del Times ha raccontato che Cummings ha mandato un messaggio a un ex collega il giorno della vigilia: “E’ un buon accordo?”. La risposta è stata: “Sì”. Cummings ha fatto altre domande e poi l’ultimo messaggio: “Sembra che ce l’abbiate fatta”. 

    

Il Regno Unito continuerà a far parte del programma spaziale Copernico, ma non del progetto Galileo, che non è compreso (come l’Erasmus) nell’accordo Brexit. E’ un piccolo dettaglio che ha fatto sobbalzare molti perché sembra che, dopo tante promesse e annunci sull’anima “europea” del Regno nonostante il divorzio, gli aspetti culturali e progettuali siano stati i più sacrificati. 

   

La mattina del 24 dicembre, il Brexit day, un manager della Bbc ha chiamato Downing Street chiedendo: annunciate quando volete, ma non mentre trasmettiamo il film di Natale, “Kung fu Panda”. All’una e mezza, Johnson ha telefonato alla von der Leyen: “Dobbiamo arrivare a un accordo, devo mandare Frosty (David Frost, il caponegoziatore britannico) a casa per le feste”. Un’ora dopo, Frost su Whatsapp: “Penso che ci siamo”. 

 

Venti minuti più tardi, Johnson ha chiamato la von der Leyen: “Quindi abbiamo un accordo, Ursula”. 

 

“Yes, we do”, ha detto lei, che incidentalmente è quel che si dice quando ci si sposa, o forse quando si realizza che la guerra è finita. 

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