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Presentarsi uniti sul fronte. La dottrina Borrell

Il capo della diplomazia europea spiega come costruire una politica estera più efficace, anche a costo di rivedere alcune regole. La distribuzione del vaccino è la sfida più grande

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Pubblichiamo in esclusiva italiana ampi stralci dell’articolo che l’Alto rappresentante dell’Ue per la Politica estera e vicepresidente della Commissione europea, Josep Borrell, ha scritto sulla rivista online francese Le Grand Continent

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Pubblichiamo in esclusiva italiana ampi stralci dell’articolo che l’Alto rappresentante dell’Ue per la Politica estera e vicepresidente della Commissione europea, Josep Borrell, ha scritto sulla rivista online francese Le Grand Continent

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L’impatto della crisi del Covid-19 sull’Unione europea e la sua politica estera è strettamente legato alle decisioni che prenderemo nei prossimi mesi. Stiamo vivendo una grave crisi del multilateralismo. Il G7 e il G20 sono praticamente assenti; il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite è paralizzato e molti altri forum, come l’Organizzazione mondiale del commercio o l’Organizzazione mondiale della sanità, sono stati trasformati in arene in cui i paesi combattono tra di loro. Per la prima volta dall’inizio del XX secolo, stiamo attraversando una crisi in cui gli Stati Uniti non hanno finora svolto un ruolo di primo piano, mentre la Cina si sta imponendo sempre di più sulla scena mondiale e i regimi autoritari si stanno rafforzando ovunque. La crisi attuale ha alimentato crescenti divergenze tra i paesi. Non tutti gli stati hanno la stessa capacità di affrontare le sfide poste dalla pandemia, che ci sta facendo arretrare su povertà e disuguaglianza.

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La situazione è difficile anche per l’Europa. L’elezione di Joe Biden negli Stati Uniti apre prospettive più incoraggianti per il multilateralismo e per i nostri valori democratici su scala globale, ma non dobbiamo aspettarci miracoli. L’Europa è troppo divisa? Per rendere più efficace la nostra politica estera, fin dall’inizio del mio mandato ho insistito sul fatto che l’Unione debba “imparare a parlare il linguaggio delle potenze”. Spesso mi viene rinfacciato che è troppo divisa per raggiungere questo obiettivo. (…) Le divisioni sono aumentate dopo l’allargamento verso est, tuttavia non è questa l’unica ragione . La “spaccatura” sulle migrazioni, per esempio, non segue esclusivamente un asse ovest-est, e la “spaccatura” nord-sud tra debitori e creditori riguarda soprattutto i paesi che erano già membri dell’Unione prima dell’allargamento. A causa della nostra diversità, noi europei spesso non abbiamo la stessa visione del mondo. Permettetemi di fare un esempio personale per chiarirlo. I miei amici polacchi dicono spesso che devono la loro libertà a Papa Giovanni Paolo II e agli Stati Uniti di Ronald Reagan, che hanno vinto la Guerra fredda. E hanno ragione. Ma io credo anche, come molti spagnoli, che sia proprio per gli Stati Uniti e i Papa che abbiamo subìto per 40 anni la dittatura di Franco, che ha potuto restare al potere tanto a lungo perché fin dall’inizio ha avuto il sostegno della Chiesa cattolica e poi quello degli Stati Uniti nel contesto della Guerra fredda.  

 

 

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Queste differenze possono arricchirci, se riusciamo a concentrarci su ciò che ci unisce. Ma pongono anche serie sfide in politica estera. Lo abbiamo visto anche di recente con le sanzioni in seguito ai brogli elettorali nelle elezioni presidenziali in Bielorussia. Ci sono voluti quasi due mesi per prendere una decisione e la nostra credibilità è stata danneggiata (…). Come decidere in politica estera? La risposta principale sta nella creazione di una cultura strategica comune: più gli europei sono d’accordo su come vedono il mondo e i suoi problemi, più facilmente concorderanno su cosa fare al riguardo. Questo è il nostro obbiettivo nel costruire con i nostri stati membri uno “Strategic Compass”, una bussola strategica per l’Unione. Per sua stessa natura, si tratta di un compito a lungo termine. E nel frattempo, dobbiamo essere in grado di prendere decisioni su questioni difficili in tempo reale. La politica estera e quella di sicurezza rimangono di competenza esclusiva degli stati e le decisioni in questo ambito devono essere prese all’unanimità e ogni paese ha diritto di veto. Ma molte di queste decisioni sono binarie: riconoscere o no un governo, lanciare o no un’operazione di gestione delle crisi. E spesso questo conduce a un blocco. Questo è in netto contrasto con quanto accade in altri settori, dal mercato unico al clima, passando per le migrazioni, in cui l’Ue può prendere decisioni con un voto a maggioranza qualificata (55 per cento degli stati membri e 65 per cento della popolazione). E nonostante il fatto che su questi temi si scontrino importanti interessi nazionali, tanto quanto accade in politica estera. Tuttavia l’Ue fa pochissimo uso della maggioranza qualificata anche in quei settori in cui si potrebbe. Perché? Perché preferiamo cercare compromessi su cui tutti possano concordare. Ma per conseguire questo risultato, tutti gli stati devono accettare di investire nell’unità. La minaccia del ricorso al voto a maggioranza qualificata può incoraggiarli a farlo.

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Fin dall’inizio del mio mandato, ho sostenuto che per evitare la paralisi in politica estera dovremmo valutare di adottare alcune decisioni senza l’unanimità dei 27. Lo scorso febbraio, quando è stato bloccato il lancio dell’operazione Irini per monitorare l’embargo sulle armi in Libia, ho sollevato la questione. Naturalmente non si tratta di assoggettare tutte le decisioni di politica estera al voto a maggioranza qualificata. Ma esso potrebbe essere utilizzato in quelle aree in cui siamo rimasti spesso bloccati in passato – a volte per ragioni del tutto estranee – come per esempio in materia di diritti umani o di sanzioni. Nel suo ultimo discorso sullo stato dell’Unione la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, , ha fatto sua questa proposta, ma il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, ha espresso il suo disaccordo. Esistono certamente altre possibilità. A volte è preferibile, come mi è già capitato, rendere pubblica una posizione sostenuta da 25 stati membri piuttosto che dover aspettare prima di rilasciare una dichiarazione a 27 ridotta al minimo comune denominatore. Come previsto dal Trattato, si può anche ricorrere all’“astensione costruttiva”: un paese non sostiene una posizione senza impedire all’Unione di andare avanti. E’ così , per esempio, che nel 2008 fu lanciata la missione Eulex in Kosovo. Mi auguro che nei prossimi mesi saremo in grado di discutere su come rendere più agevole il processo decisionale in politica estera, e in particolare nel contesto della Conferenza sul futuro dell’Europa. (…) Un nuovo inizio con gli Stati Uniti I risultati delle elezioni presidenziali americane sono un altro motivo di cauto ottimismo. Dopo quattro anni difficili, è tempo di ricominciare da capo. Questo non significa che saremo sempre d'accordo. Non lo eravamo prima di Donald Trump, e non lo saremo con Joe Biden presidente. Ma abbiamo una partnership duratura con gli Stati Uniti basata su valori condivisi e su decenni di esperienza di lavoro comune. E nei prossimi quattro anni avremo a che fare con un presidente americano che crede nella collaborazione con gli alleati democratici. L’Europa intende cogliere l’occasione al meglio: non ci avviciniamo alla presidenza Biden solo con richieste, ma anche con proposte. Come Alto rappresentante ho presentato alla Commissione europea nel dicembre 2020 una “Nuova agenda transatlantica per un cambiamento globale" che copre molte aree.

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Qui voglio concentrarmi su tre assi che riguardano la politica estera e di sicurezza. Gli Stati Uniti rimangono indispensabili per la sicurezza europea. Allo stesso tempo, noi europei dobbiamo occuparci di più in prima persona della nostra sicurezza. Per questo motivo vogliamo rafforzare la nostra difesa portando un “onere” maggiore e aumentare le capacità di impegno operativo dell’Europa, in particolare nel nostro vicinato. Sarebbe una perdita di tempo discutere in termini astratti se dobbiamo adottare un approccio che privilegi “l’autonomia europea” o il “partenariato transatlantico”. Sono due facce della stessa medaglia: un’Europa strategicamente consapevole e più autonoma è un alleato migliore per gli Stati Uniti. Per quanto riguarda la sicurezza europea, dovremmo lavorare insieme in particolare per integrare l’intera regione dei Balcani occidentali nelle strutture euroatlantiche, sostenere la sovranità e le riforme in Ucraina, sviluppare un approccio forte e coerente nei confronti della Russia ed evitare che la Turchia continui ad “andare alla deriva”.

 

Ho lavorato , come coordinatore, per mantenere in vita l’accordo sul nucleare iraniano. Ora dobbiamo lavorare per far sì che gli Stati Uniti riaderiscano all’intesa e che l’Iran ritorni alla piena conformità. Una volta raggiunto questo obiettivo, dobbiamo essere pronti a trovare il modo di affrontare ulteriori problemi di sicurezza regionali. Sono convinto che l’unica soluzione a lungo termine per l’instabilità cronica sia regionale.

 

Da ultimo, ma non per questo meno importante, l’ascesa della Cina e la conseguente concorrenza con gli Stati Uniti continueranno a plasmare il panorama globale (…). Una strategia per la Cina Riequilibrare le nostre relazioni con la Cina è fondamentale per il nostro futuro. Tuttavia, ciò sarà possibile solo se gli stati dell’Unione presenteranno un fronte unito e se faremo pieno uso degli strumenti comunitari, in particolare del potere del nostro mercato unico. (…) Economicamente, però, siamo troppo interdipendenti per dissociarci dalla Cina, come predicava l’Amministrazione Trump. Alcuni analisti parlano di una nuova Guerra fredda, ma questa analogia è fuorviante perché gli Stati Uniti, l’Europa e l’Unione Sovietica non sono mai stati così legati economicamente come lo siamo noi oggi alla Cina. Certo, dobbiamo sviluppare la nostra “autonomia strategica” nei confronti di questo paese in campo economico, soprattutto nel digitale, ma se di certo il coronavirus cambierà la globalizzazione, non la fermerà. Un riequilibrio delle relazioni Ue-Cina è essenziale per affrontare e, in ultima analisi, risolvere le principali questioni globali. L’esempio più ovvio è la lotta contro il cambiamento climatico (…). L’Ue vuole affiancare alla cooperazione con la Cina, per esempio sulle questioni di clima, una posizione più ferma nelle aree in cui ciò è necessario. Questo approccio dovrà anche essere associato a una presenza più attiva dell’Ue nella regione dell’Indo-Pacifico in senso lato, insieme ai nostri partner democratici in Asia.

 

A questo riguardo, abbiamo appena concluso una “partnership strategica” con l’Asean. Ne discuteremo con l’Amministrazione Biden, come avevamo già iniziato a fare con il Segretario di stato Mike Pompeo nell'ambito del dialogo Ue-Usa sulla Cina avviato nell’autunno del 2020. L’Europa di fronte ai nuovi imperi L’ascesa dei regimi autoritari è una delle principali minacce al futuro dell’Europa e ai nostri valori democratici. Al di là delle loro specificità, paesi come la Russia, la Cina e la Turchia hanno in comune diverse caratteristiche. Sono sovranisti nei confronti del mondo esterno e autoritari all’interno dei propri confini. Vogliono che le loro zone di influenza siano riconosciute e sono determinati a proteggerle dall’esterno. Infine, vogliono cambiare le regole del gioco globale. Per i democratici, la sovranità si basa innanzitutto sull'espressione della volontà del popolo, mentre il sovranismo si concentra esclusivamente sulla sovranità degli stati, che è un'altra questione. Gli Stati sovranisti sono sempre più contrari anche al rispetto dei diritti umani fondamentali. Essi cercano di bloccare il sostegno internazionale alle società civili che chiedono più libertà, come in Bielorussia o a Hong Kong e nello Xinjiang. (…) Non cambieremo la geografia e la Turchia continuerà a essere un partner importante per l’Europa su molte questioni. Per questo motivo, pur difendendo con fermezza il diritto internazionale e quello dei nostri stati membri, anche ricorrendo, se necessario, a sanzioni, vogliamo uscire al più presto da un pericoloso scontro con questo grande vicino. Ma questa prospettiva ha senso solo se la Turchia la condivide. In conflitti come il Nagorno-Karabakh, la Libia o la Siria, stiamo assistendo a una forma di “astanizzazione” (con riferimento al Processo di Astana sulla Siria) che porta all’esclusione dell’Europa dalla risoluzione dei conflitti regionali a favore della Russia e della Turchia. La natura ha orrore del vuoto: rischiamo di vedere insediate basi militari russe e turche in Libia, a pochi chilometri dalle nostre coste. Per uscire da questa situazione e risolvere pacificamente i conflitti con questi nuovi imperi, costruiti su valori che non condividiamo, dobbiamo continuare a colmare le lacune delle nostre capacità di difesa comuni. Questo è il prezzo che dobbiamo pagare per far nascere l’Europa geopolitica che la presidente von der Leyen e la Commissione si sono poste come obiettivo. (…) Il vaccino come bene pubblico globale L’altra questione che dobbiamo affrontare se vogliamo evitare una ricaduta e un aggravamento delle disuguaglianze globali è quella dell’immunizzazione contro il Covid-19.

 

Una cosa è sviluppare un vaccino, un’altra è produrlo e distribuirlo. E’ una sfida per l’Ue, ma ancor più quando si tratta di raggiungere i villaggi remoti del Niger, del Perù o di Kiribati. Per questo motivo, dobbiamo approntare subito le risorse necessarie per distribuire i vaccini in modo rapido e sicuro non appena saranno disponibili. Dobbiamo evitare un “nazionalismo del vaccino” per cui solo i paesi più forti e ricchi saranno in grado di vaccinare le loro popolazioni. Dobbiamo anche evitare una “diplomazia dei vaccini” che pretenda di collegare l’accesso ai vaccini alla subordinazione politica a un determinato paese. Fin dall’inizio di questa pandemia, l’Ue ha infatti scelto il multilateralismo e la cooperazione piuttosto che il nazionalismo e la concorrenza. Vogliamo che i vaccini contro il Covid siano considerati come beni pubblici globali e distribuiti senza discriminazioni, a seconda delle esigenze. Per questo motivo l’Ue e i suoi stati membri hanno mobilitato insieme 870 milioni di euro per sostenere l’iniziativa internazionale Covax, che punta a mettere i vaccini a disposizione di tutti i paesi. All’indomani di questa pandemia, dovremo riformare l’Organizzazione mondiale della sanità e dotarla degli strumenti e dei mezzi per gestire le sfide sanitarie del XXI secolo.

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