PUBBLICITÁ

Quanto è forte il senso dell’Europa nell’esotica Romania

Guido De Franceschi

L’uscita dell’Orban europeista e i libri che raccontano (con stelle e bottigliette) l’attrazione per l’Ue

PUBBLICITÁ

La Romania è Europa e fa parte dell’Unione europea. Ma l’impressione è che gli altri (cioè noi) non abbiano mai del tutto metabolizzato l’appartenenza al Vecchio continente di quel paese raccontato a lungo come esotico e selvaggio (la Transilvania!) e poi percepito come elemento eccentrico perfino nel contesto omologatore del Patto di Varsavia, a causa del regime, un po’ più “orientale” degli altri, di Nicolae Ceausescu. Anche l’ingresso nell’Ue insieme con la Bulgaria, nonostante la successiva adesione della Croazia, è rimasto appeso come un “+2” finale, in coda, mai completamente digerito e peraltro mai completato (Bucarest è ancora fuori da Schengen e dall’euro). E forse persino l’idioma neolatino ha paradossalmente contribuito ad “allontanare” dal resto dell’Europa la Romania, isolata tra i suoi vicini slavi e comunque troppo distante dagli altri paesi di lingua romanza. Eppure a est l’insofferenza per il concetto di “Europa” si manifesta di più in altri paesi – l’Ungheria, la Polonia – più incontrovertibilmente identificati come europei.

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


La Romania è Europa e fa parte dell’Unione europea. Ma l’impressione è che gli altri (cioè noi) non abbiano mai del tutto metabolizzato l’appartenenza al Vecchio continente di quel paese raccontato a lungo come esotico e selvaggio (la Transilvania!) e poi percepito come elemento eccentrico perfino nel contesto omologatore del Patto di Varsavia, a causa del regime, un po’ più “orientale” degli altri, di Nicolae Ceausescu. Anche l’ingresso nell’Ue insieme con la Bulgaria, nonostante la successiva adesione della Croazia, è rimasto appeso come un “+2” finale, in coda, mai completamente digerito e peraltro mai completato (Bucarest è ancora fuori da Schengen e dall’euro). E forse persino l’idioma neolatino ha paradossalmente contribuito ad “allontanare” dal resto dell’Europa la Romania, isolata tra i suoi vicini slavi e comunque troppo distante dagli altri paesi di lingua romanza. Eppure a est l’insofferenza per il concetto di “Europa” si manifesta di più in altri paesi – l’Ungheria, la Polonia – più incontrovertibilmente identificati come europei.

PUBBLICITÁ

 

Invece gli elettori romeni, domenica scorsa, hanno probabilmente reso numericamente possibile una maggioranza amica di Bruxelles, anche se l’affluenza minima e la crescita dei consensi per i sovranisti sono comunque costate le dimissioni al premier Ludovic Orban (che è eurofilo, al contrario del suo omonimo ungherese). E anche la letteratura romena è sempre stata europeissima. Tanto che molti dei suoi migliori autori e pensatori – dai giganti Emil Cioran, Eugène Ionesco e Mircea Eliade, al dadaista Tristan Tzara, fino a una splendida outsider come Aglaja Veteranyi – hanno scritto anche o soprattutto o soltanto in un’altra lingua (il caso di Herta Müller è ancora diverso, perché appartiene alla minoranza di lingua tedesca). E, se certo esistono anche molti autori romeni che scrivono in romeno, come Mircea Cartarescu, che è a suo modo una piccola star della letteratura contemporanea internazionale (in Italia lo pubblica Voland), o Gabriela Adamesteanu, l’attrazione per la mescolanza con altre lingue è una costante per gli scrittori di quel paese. Ed è il caso anche di due romanzi appena usciti in italiano, che non potrebbero essere più diversi e che eppure hanno una loro convergenza.

 

PUBBLICITÁ

Il primo è “Pioggia di stelle” (Atlantide, 396 pagine, 26 euro, traduzione di Maria Sole Iommi), unico romanzo di Matila C. Ghyka (1881-1965), scritto in francese e pubblicato per la prima volta nel 1933 da Gallimard. Il secondo è “Bottigliette” (Keller, 222 pagine, 16 euro, traduzione di Elvira Grassi), della giovane scrittrice Sophie van Llewyn che, nata e cresciuta in Romania, vive in Germania e scrive in inglese. Ghyka, bisnipote dell’ultimo regnante moldavo, ha avuto una di quelle vite acrobatiche che soltanto le turbolenze novecentesche avrebbero potuto produrre e il suo romanzo è un gioiello riemerso dall’oblio. Vienna, Londra, Praga, la campagna ceca: “Pioggia di stelle” è un libro di malinconie, di amori, di incontri, di cadute e di rinascite e racconta l’ambiente diplomatico tra le due guerre, in un’Europa centrale in cui si è appena sbriciolato l’Impero austro-ungarico e su cui incombe il disastro – “Vi ricordate della leggenda del suonatore di flauto di Hamelin, che stregò tutti i bambini della cittadina e partì con loro? Prima o poi i tedeschi seguiranno il flauto magico di Hitler, e Dio sa cosa ne verrà fuori”, fa dire Ghyka (scrivendo nel 1933!) a un suo personaggio. Eppure, anche in quella quiete tra due tempeste, il continente sapeva che cosa avrebbe già potuto e dovuto essere. E la (vera) Commissione internazionale del Danubio, attorno a cui si costruisce il romanzo, assomiglia pazzescamente all’Ue.

 

“Bottigliette” racconta invece, con uno sguardo del tutto insolito, la “solita” Romania comunista, mezzo affogata nella palude ceauseschiana vigilata dalla Securitate. La storia di Alina e Liviu, che Sophie van Llewyn fa procedere con una grazia rapidissima lungo gli anni Settanta e Ottanta con un sorprendente montaggio di piccoli quadri, si svolge in una Romania che prende forma “in negativo” proprio attraverso l’immaginazione dell’altra Europa e il desiderio di fuga a Parigi, in Germania, in Italia. Ed è per questo che questi due romanzi romeni scritti in un’altra lingua, pur così distanti nel tempo e così diversi in tutto (se non per un sottile filo “magico” che scorre sotto la trama di entrambi), parlano della stessa cosa. Dell’Europa e quindi anche di noi.

 

Di più su questi argomenti:
PUBBLICITÁ