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Il realismo accattone e Giulio Regeni

Daniele Ranieri

Chi confonde il cinismo con il  “realismo politico” sul delitto Regeni e l'Egitto di Al Sisi sta parlando a vanvera

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Spesso quando si parla del caso Regeni si cita la categoria del realismo politico come modo di intendere gli affari internazionali. Per guidare il paese, si dice, occorre anche fare calcoli cinici: la morte del giovane ricercatore italiano è una tragedia, ma l’Egitto del presidente Abdel Fattah al Sisi è un paese strategico per molte questioni, dall’energia alla sicurezza nel Mediterraneo, e  “in nome del realismo” l’Italia deve considerare tanti fattori, non soltanto la ricerca assoluta della verità. Mario Del Pero è professore di Storia internazionale a SciencesPo di Parigi e dice al Foglio che chi la pensa così sul caso Regeni e l’Egitto non ha capito cos’è il realismo e lo cita a sproposito. “La funzione prima, primitiva, primordiale, dello stato è quella di garantire i diritti fondamentali dei propri cittadini e il primo di questi diritti è quello alla vita. In un mondo dove ci si muove sempre di più questo vuol dire saper proiettare questa capacità di garantire la sicurezza dei propri soggetti anche al di fuori dei confini. Lo stato protegge i suoi cittadini. E’ la ragione per cui gli americani quando aprono basi militari  in tutto il mondo si preoccupano come prima cosa di fare accordi politici con le autorità del posto in modo da garantire ai propri soldati l’immunità dal potere locale. E’ il concetto che i romani esprimevano con il detto ‘civis romanus sum’. Quella frase da sola era sufficiente: sono un cittadino romano, quindi badate bene a cosa fate, il corpo del cittadino dell’impero che viaggia è comunque e sempre un pezzetto dell’impero”.

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Spesso quando si parla del caso Regeni si cita la categoria del realismo politico come modo di intendere gli affari internazionali. Per guidare il paese, si dice, occorre anche fare calcoli cinici: la morte del giovane ricercatore italiano è una tragedia, ma l’Egitto del presidente Abdel Fattah al Sisi è un paese strategico per molte questioni, dall’energia alla sicurezza nel Mediterraneo, e  “in nome del realismo” l’Italia deve considerare tanti fattori, non soltanto la ricerca assoluta della verità. Mario Del Pero è professore di Storia internazionale a SciencesPo di Parigi e dice al Foglio che chi la pensa così sul caso Regeni e l’Egitto non ha capito cos’è il realismo e lo cita a sproposito. “La funzione prima, primitiva, primordiale, dello stato è quella di garantire i diritti fondamentali dei propri cittadini e il primo di questi diritti è quello alla vita. In un mondo dove ci si muove sempre di più questo vuol dire saper proiettare questa capacità di garantire la sicurezza dei propri soggetti anche al di fuori dei confini. Lo stato protegge i suoi cittadini. E’ la ragione per cui gli americani quando aprono basi militari  in tutto il mondo si preoccupano come prima cosa di fare accordi politici con le autorità del posto in modo da garantire ai propri soldati l’immunità dal potere locale. E’ il concetto che i romani esprimevano con il detto ‘civis romanus sum’. Quella frase da sola era sufficiente: sono un cittadino romano, quindi badate bene a cosa fate, il corpo del cittadino dell’impero che viaggia è comunque e sempre un pezzetto dell’impero”.

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“La forza e la credibilità di uno stato – continua Del Pero – si misurano dalla capacità di offrire questa garanzia di sicurezza e protezione ai propri cittadini. E se applichiamo questo concetto al caso Regeni ne consegue che la forza e la credibilità dell’Italia si misurano dalla capacità di chiedere conto all’Egitto di quello che è successo al ricercatore italiano”. 


E quindi cosa rispondere a quelli che dicono, a volte senza usare parole chiare ma si capisce lo stesso, che è necessario “essere realisti”? “C’è un equivoco molto comune e diffuso, si scambia il realismo con il cinismo. Ma il realismo nelle relazioni internazionali ha un connotato etico forte: si è realisti perché si vuole ottenere uno scopo e questo scopo è alto e nobile. Altrimenti si ha quello che chiamo ‘realismo accattone’, perché è un realismo compromissorio, che si adegua al compromesso. Ma viene da chiedersi se sia vero realismo quello che nel corso di quattro anni, tanti ne sono passati, non ha ottenuto nulla dal governo egiziano. I quattro anni di cosiddetto realismo dopo l’assassinio di Regeni non hanno portato nulla all’Italia. Verrebbe da pensare che almeno l’Egitto dovrebbe comportarsi con noi con una cautela speciale dopo quello che è successo e invece il caso di Patrick Zaky, lo studente egiziano dell’Università di Bologna da più di trecento giorni in carcere come prigioniero politico che è diventato un caso anche in Italia, dimostra che non è così. Invece di essere trattati meglio ci è toccata un’altra umiliazione”. 


Cosa potremmo fare? “E’ chiaro che non abbiamo agito con forza. Ci sono opzioni che non abbiamo voluto scegliere. L’Italia non è riuscita a mobilitare e coinvolgere con efficacia i partner europei e l’Unione europea sul caso Regeni. Non è successo. Potevamo espellere dall’Italia gli agenti dell’Egitto sotto copertura diplomatica, come si sa ogni ambasciata ha un numero di dipendenti che sono diplomatici soltanto di facciata e invece fanno altro e i nostri servizi sanno benissimo chi sono. Nemmeno questo passo semplice è stato intrapreso”.

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C’è un rischio maggiore per gli italiani che vanno in giro per il mondo adesso? “Non è automatico, ma in generale se uno stato non è forte e credibile i suoi cittadini sono più in pericolo perché godono di una protezione minore”. E la definizione del regime egiziano come di un baluardo contro i gruppi terroristici la convince? “L’assenza di libertà politica nei paesi arabi sul breve termine ci sembra sia efficace contro i gruppi terroristici. In realtà favorisce le ideologie estremiste e l’islamismo e la destabilizzazione e quindi fa alzare il rischio terrorismo”. 

 

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