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Un accordo sulla Brexit sì o no? Boris Johnson adesso non sa più scegliere

David Carretta

L’Ue è più unita di quanto si aspettasse Londra. La telefonata interrotta con Ursula e la visita a Bruxelles

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L’unità dell’Unione europea nei negoziati con il Regno Unito ha permesso di smontare la tattica di Boris Johnson per dividere i 27 e strappare il massimo di concessioni possibili e anzi ha messo il primo ministro britannico di fronte alla scelta che non avrebbe mai voluto fare: accettare un “deal” alle condizioni poste dagli europei e rinunciare a una parte di sovranità oppure schiacciare il bottone del “no deal” che significa “hard Brexit” con tutte le conseguenze economiche e geostrategiche. La scelta non è ancora stata fatta.

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L’unità dell’Unione europea nei negoziati con il Regno Unito ha permesso di smontare la tattica di Boris Johnson per dividere i 27 e strappare il massimo di concessioni possibili e anzi ha messo il primo ministro britannico di fronte alla scelta che non avrebbe mai voluto fare: accettare un “deal” alle condizioni poste dagli europei e rinunciare a una parte di sovranità oppure schiacciare il bottone del “no deal” che significa “hard Brexit” con tutte le conseguenze economiche e geostrategiche. La scelta non è ancora stata fatta.

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Ieri Johnson ha avuto una conversazione telefonica con la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen. Dopo un’ora e mezza Johnson ha chiesto una pausa. La telefonata non è ripresa. Alla fine i due hanno detto che “le condizioni per finalizzare un accordo non ci sono a causa delle differenze significative che rimangono sulle tre questioni critiche: level playing field (parità di condizioni), governance e pesca”. A sorpresa Johnson volerà a Bruxelles prolungando l’incertezza. “Le differenze che rimangono saranno discusse in un incontro fisico a Bruxelles nei prossimi giorni”, hanno annunciato il premier e la presidente della Commissione. In mattinata Downing Street aveva usato toni minacciosi e il Sun aveva fatto sapere che BoJo era pronto a fermare i negoziati. E non è accaduto. Il capo negoziatore dell’Ue, Michel Barnier, ha fatto un rapporto poco ottimistico, ma senza chiusure definitive, sull’andamento delle trattative agli ambasciatori dei 27 e ai negoziatori del Parlamento europeo. Barnier ha anche fissato l’ennesima scadenza. “Non siamo lontani dalla fine dei giochi, ma non possiamo andare oltre mercoledì”, ha detto Barnier.

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Eppure, tra alti e bassi, le posizioni si sono lentamente allineate. Entrambe le squadre di negoziatori conoscono i compromessi da fare. “La questione è sempre la stessa – spiega al Foglio un diplomatico europeo – BoJo vuole o no l’accordo? Questa è la sola domanda a cui deve rispondere”. Nei negoziati il capitolo “governance” è quasi chiuso.

 

Sulla pesca il Regno Unito sarebbe pronto ad accettare un periodo transitorio durante il quale i pescatori europei potranno continuare ad avere accesso alle sue acque. Sul cosiddetto “level playing field”, e in particolare gli aiuti di stato, il principale ostacolo sono le misure di rappresaglia che l’Ue vuole adottare se il Regno Unito dovesse divergere in modo sostanziale da regole e standard europei. Nel frattempo, da Londra è arrivato un gesto di buona volontà (alcuni direbbero una “retromarcia”) essenziale: il governo Johnson ha annunciato di essere disponibile a rimuovere dal progetto di legge sul mercato interno britannico gli articoli che violano l’accordo di recesso e il Protocollo sull’Irlanda del nord. Nei negoziati sulla Brexit “la scommessa britannica di una divisione dell’Unione europea è fallita”, ha detto il ministro francese per gli Affari europei, Clément Beaune, al Journal du Dimanche. Nel momento in cui la stampa euroscettica britannica dedica ampio spazio alle divisioni tra Francia e Germania, le sue dichiarazioni potrebbero apparire sorprendenti. In realtà, Beaune ha riconosciuto che “in seno ai 27 ci sono sensibilità diverse. Sarebbe naïf negarlo”.

 

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Ogni paese ha i suoi interessi da preservare. La Germania vuole evitare un “no deal” perché avrebbe gravi ripercussioni per le sue esportazioni e le catene di approvvigionamento. La Francia fa le barricate per i suoi pescatori malgrado il fatto che la posta in gioco sia meno di un miliardo di euro l’anno. L’Italia è preoccupata per le indicazioni geografiche tipiche. La Spagna improvvisamente ieri ha detto che preferisce “un accordo modesto a un mancato accordo”. La Romania ha un problema perché deve difendere i suoi autotrasportatori e autisti di tir. Paesi Bassi e Danimarca sintetizzano bene i dilemmi di tutti i governi singolarmente e dell’Ue collettivamente: visto il ruolo che hanno nel commercio con il Regno Unito hanno bisogno di un accordo di libero scambio, ma al contempo devono difendere i loro pescatori. Lo stesso vale per l’Irlanda, che in più deve fare i conti con la pace sull’isola e la necessità di evitare la chiusura della frontiera con l’Irlanda del nord. Angela Merkel “vuole un accordo”, ma “difende anche il nostro livello di esigenza”, ha detto Beaune. Presi separatamente questi interessi nazionali sono una debolezza, ma messi insieme collettivamente diventano una forza negoziale. Se l’unità regge, la posizione del Regno Unito è infinitamente più debole. Il fatto che BoJo sia costretto a volare a Bruxelles ne è la riprova.

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