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il foglio del weekend

Tigré contro Tigrè

Pietro Petrucci

Conquistatori e conquistati, ma separati soltanto da un fiume. Storie e retroscena di una guerra che da cent’anni insanguina il Corno d’Africa 

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“Pare che questi etiopi…  siano gli uomini più alti e più belli del mondo”. 
Erodoto, Le Storie, Libro III

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“Pare che questi etiopi…  siano gli uomini più alti e più belli del mondo”. 
Erodoto, Le Storie, Libro III

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Finché la parola Tigrè sarà usata solo come toponimo di una landa remota dell’Etiopia, fatta di montagne arse e pizzute – le ambe – città polverose e un’agricoltura di sussistenza, non sarà facile raccontare l’ultima inafferrabile guerra scoppiata nel Corno d’Africa. Eppure basterebbe, per trovare il bandolo della matassa, qualche minuto di navigazione virtuale nel tempo e nello spazio, approdare nel mondo di Erodoto, quando Etiopia era il nome attribuito all’Africa nera e ai suoi misteriosi abitanti, e fermarsi alla voce Axum e ai suoi due riferimenti: un regno africano del IV secolo a.C . il cui territorio andava dall’Acrocoro Abissino al Mar Rosso e la città di Axum, che di quel regno fu la capitale e oggi sopravvive come meta turistico-religiosa, città santa della chiesa copta d’Etiopia e sito archeologico protetto dall’Unesco per i suoi celebri obelischi. 

 

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Da Axum si irradiò un impero africano, coevo di quelli romano e  persiano-sasanide, che fu cristianizzato nel IV secolo d.C. dal predicatore copto siriaco San Frumenzio e diventò un avamposto della dottrina ortodossa  “monofisita” (che teorizza la natura esclusivamente divina di Cristo) e della lingua tigrigna, versione volgare del gheez, idioma liturgico di ceppo semitico della chiesa etiopica. 

 

Chi dice tigrigna dice Tigrè, regione-nazione culla del più vasto e più tardo impero propriamente etiopico, destinato con l’avvento dell’islam nella vicina Arabia a diventare “isola di cristianità in un mare musulmano”. Impero che passerà alle soglie del nostro Medioevo dal controllo del regno del Tigrè, in piena decadenza, a quello del vicino e guerriero reame cristiano-copto dello Scioa, patria degli Amhara e della lingua amharigna, un’altra figlia del gheez.

 

 

Poiché nella storia plurimillenaria dell’Etiopia-impero il ricorso alla guerra appare il modo più spesso usato per risolvere i conflitti di potere a ogni livello (imperatori, re, valvassori e valvassini) non è  peregrino né cinico osservare che il conflitto in atto fra il governo centrale del primo ministro Abiy Ahmed (depositario del ruolo che fu dell’imperatore) e la provincia ribelle del Tigrè si conforma a questa tradizione guerresca. Senza dimenticare che il Tigrè e la sua gente, che non hanno conosciuto vera pace negli ultimi 150 anni, seppero aspettare otto secoli per riprendere il trono imperiale agli Amhara dello Scioa. Accadde nel 1872, quando il re condottiero tigrino Kessa Mercha riportò manu militari la corona ad Axum e lì si fece incoronare imperatore col nome di Yohannes IV e il titolo tradizionale di Negus Neghesti, “Re dei Re, Leone trionfante della Tribù di Giuda, Re di Sion, Eletto di Dio”. 

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A Yohannes IV, ultimo imperatore tigrino, morto a 52 anni combattendo i ribelli mahdisti (oggi diremmo islamisti) del Sudan, toccò affrontare i primi tentativi italiani di invadere l’Abissinia. Le tardive mire imperialistiche del Regno d’Italia, ignorate al Congresso di Berlino del 1878 (che sancì la spartizione del continente africano fra le potenze europee) e frustrate nel Mediterraneo dallo “Schiaffo di Tunisi”  (l’occupazione  francese della Tunisia nel 1881, in barba alle rivendicazioni italiane) si orientarono a quel punto sul Mar Rosso. E fu a partire dall’occupazione nel 1885 della città portuale di Massaua che Francesco Crispi, alternando accordi commerciali, spedizioni militari e scambi di pergamene con signorie locali, riuscì nel 1888 a fondare fra la costa e i primi contrafforti dell’Acrocoro la nostra  “colonia primogenita”, chiamata Eritrea – dal nome ellenico del Mar Rosso, Erythra Thàlassa – su proposta dello scrittore Carlo Dossi (1849-1910) esponente della Scapigliatura Lombarda e brillante diplomatico del gabinetto Crispi.  

 

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Inventandosi l’Eritrea, Roma cambiò irreversibilmente il corso della storia nel Corno  d’Africa. Annettendo infatti alla neonata colonia due terzi del “Tigrè storico”, che si estendeva dal Sudan al Mar Rosso,  Crispi privò l’impero etiopico del suo sbocco al mare e creò un “secondo Tigrè” - l’Eritrea appunto – entità geopolitica identica per composizione etnica (al 75 per cento tigrina) al Tigrè rimasto etiopico ma due volte più grande. 

 

Nella difficile coesistenza fra i due Tigrè, separati dal fiume Mareb, come si vedrà, sta una delle chiavi di lettura della guerra di oggi, dietro la quale riaffiorano due diversi nazionalismi tigrini. Mentre i dirigenti del Tigrè etiopico hanno sempre proclamato la loro  “tigrinità”, il movimento nazionalista eritreo – i cui dirigenti sono in maggioranza tigrini e cristiani – ha combattuto per trent’anni e ha conquistato l’indipendenza (1963-1993) senza mai ostentare la minima “tigrinità”, presentandosi come laico, multietnico e multireligioso.

   

  

L’Italia coloniale, dal canto suo, impose a entrambi i Tigrè mezzo secolo di guerre e carneficine: dalle prime incursioni in prossimità del Mar Rosso (430 morti italiani nella battaglia contro il Ras tigrino Alula a Dogali nel 1887) alla rotta finale del 1941 sull’Amba Alagi – in Tigrè –  dove forze britanniche ed etiopiche imposero la resa al Duca d’Aosta e ai suoi settemila uomini, mettendo fine all’avventura dell’Africa orientale italiana (Aoi). Non ci fu un solo giorno di  pace in Abissinia nei 54 anni trascorsi fra Dogali e l’Amba Alagi. Ci furono invece disastri come la disfatta italiana nel 1896 di Adua – ancora in Tigrè – con oltre settemila morti per ciascuno dei due eserciti. E ci fu soprattutto nell’ottobre del 1935 l’invasione dell’Etiopia decisa da Mussolini. Che cominciò dal Tigrè.
Il ritiro dell’Italia e il ritorno sul trono del Negus Haile Selassie non riportarono la pace nei due Tigrè. Al contrario. Lo stesso Negus apparso come un eroe africano al mondo intero nel maggio del 1936, quand’era intervenuto alla Società delle Nazioni a Ginevra da capo di uno Stato-membro dell’organizzazione, per denunciare l’aggressione subita dall’Italia, quello stesso uomo, una volta tornato sul suo trono, si rivelò presto l’autocrate poco lungimirante di un impero medievale, un piccolo monarca fragile come il suo inseparabile chihuahua, magistralmente dipinto in uno dei libri (“Il Negus. Splendori e miserie di un autocrate”, Feltrinelli, 1983) dedicati all’Africa dal moderno Erodoto polacco Ryszard Kapuściński (1932-2007).

 

Paladino dell’egemonia Amhara e specialmente sospettoso nei confronti dei tigrini, Haile Selassie sottopose il Tigrè etiopico a una  restaurazione del potere imperiale talmente severa da provocare nel settembre 1943 a Woyane una rivolta contadina, tanto radicale, diffusa e duratura da richiedere l’intervento dei bombardieri britannici di stanza a Aden per essere stroncata nel sangue nel novembre dello stesso anno.

 

Trent’anni più tardi, nel 1973 durante una siccità-carestia che stava decimando la popolazione del Tigrè la BBC e l’Oxfam rivelarono che la corte del Negus speculava turpemente sugli aiuti umanitari. L’anno dopo Haile Selassie veniva deposto.

 

Non conobbe migliore destino l’Eritrea che, partiti gli italiani, chiedeva alle Nazioni Unite l’indipendenza, mentre Haile Selassie esigeva la restituzione all’Etiopia di quella che considerava una provincia rubata al suo impero. Solo nel 1950 l’ONU adottò una soluzione di compromesso, caldeggiata dagli Stati Uniti (in Eritrea era sorta nel ‘43 la più importante base americana in Africa, Kagnew Station) che impose all’Eritrea semi-industrializzata, dotata di partiti politici e sindacati, di federarsi con il regime medievale dell’Etiopia. Un matrimonio forzato che finì nel ‘61, quando il Negus liquidò la federazione e si annesse l’ex colonia italiana. Col risultato che nel ‘63 nasceva il Fronte di Liberazione Eritreo, movimento indipendentista armato, subito appoggiato dai paesi arabi, da Mosca e dalle ” forze anti-imperialiste ” dei maggiori paesi occidentali.

 

Chi pensò allora che l’Etiopia non potesse conoscere regime peggiore di quello di Haile Selassie si sbagliava. Nel settembre del 1974 un misterioso comitato di giovani ufficiali rivoluzionari, noto come Derg, rovesciò il Negus e lo mise a morte insieme a una sessantina fra i più alti esponenti della corte, del governo e delle forze armate. A capo del Derg spuntò il colonnello di dichiarata fede marxista Mengistu Haile Mariam, classe 1937, passato alla storia come il “Negus Rosso”. Rimasto al potere fino al 1991 è ritenuto responsabile della morte di mezzo milione di persone. Singolare figura di spietato bolscevico africano, Mengistu smantellò le strutture civili e religiose dello Stato feudale, distribuì la terra “ai servi della gleba” e instaurò in tutte le province un regime definito di “terrore rosso”. Revocò anche gli accordi bilaterali con Washington che ponevano l’Etiopia sotto l’“ombrello americano” e corse a Mosca per chiedere all’Urss di Breznev e Podgorni gli aiuti militari necessari a evitare all’impero etiopico la stessa fine conosciuta da quello ottomano e da quello austro-ungarico. Dopo due anni di potere il “governo rivoluzionario” del Derg aveva perso per intero il controllo dell’Eritrea, arretrava di fronte alle  “insurrezioni etniche” in Tigrè e nelle regioni Oromo e Afar e si accingeva a cedere l’Ogaden agli irredentisti somali. Mosca rispose riversando nell’Etiopia del Negus Rosso un corpo di spedizione degno dell’Afghanistan: 1.500 consiglieri russi, 18 mila cubani e  duemila soldati sud-yementi dotati di aerei Mig 17 e 21, centinaia di tank T55 e T66, elicotteri Mi-6- e Mi-8.

 

Il rullo compressore sovietico riconquistò l’Ogaden per conto di Mengistu, ma fu umiliato in Eritrea e in Tigrè dove sei successive “offensive finali” scatenate dai generali del Cremlino servirono soprattutto a forgiare un’inedita alleanza fra le due guerriglie tigrine.

 

Pochi hanno ricordato in queste settimane che il partito al potere a Makallé in guerra con Addis Abeba, il Tplf (Tigray People’s Liberation Front), nacque nel 1975 da una costola del quasi omonimo movimento di liberazione eritreo Eplf (Eritrean People’s Liberation Front) fondato nel 1970 dall’attuale presidente dell’Eritrea e padre della sua indipendenza Isayas Afewerki, che è stato l’Ho Chi Minh e il generale Giap del suo popolo prima di diventare l’intrattabile cerbero di un paese-caserma spesso assimilato alla Corea del nord.

 

Non c’è bisogno di amare Isayas Afewerki per riconoscere che è stato lui lo stratega politico e militare della trentennale guerra d’indipendenza eritrea nonché l’ispiratore del movimento armato tigrino che ha ripetuto l’esperienza eritrea a ovest del Mareb.

 

Quasi nessuno ha ricordato che le colonne militari tigrine che nel maggio del 1991 liberarono Addis Abeba (con il beneplacito dell’Amministrazione Bush, che si occupò anche di evacuare il Negus Rosso Mengistu) erano colonne miste Tplf-Eplf. L’Eritrea non rivendicò all’epoca il suo ruolo perché a Isayas Afewerki interessava di  più insediare ad Addis Abeba i dirigenti del Tplf, vincolati dall’impegno  solenne, contratto durante la guerra di liberazione, di riconoscere il diritto dell’Eritrea all’indipendenza. Non a caso fu proprio questa una delle prime decisioni prese nel 1991 dal nuovo primo ministro tigrino dell’Etiopia, Meles Zenawi (1955-2012). E l’Eritrea diventerà Stato sovrano nel 1993.

 

Chi scrive ha frequentato all’epoca il tigrino-eritreo Isayas Afewerki e il tigrino-tigrino Meles Zenawi abbastanza da capire quale dei due fosse il maestro e quale l’allievo, e per constatare in entrambi una pratica quasi maniacale del segreto, mutuata dalle loro tre culture di riferimento: i misteri curiali della chiesa copta, l’impenetrabilità cortigiana del Ghebbì (il “palazzo” etiopico per antonomasia) e l’esercizio della clandestinità rivoluzionaria di scuola marxista-leninista.
A partire dal 1991 i due leader tigrini agirono in tandem, creando fra Asmara e Addis Abeba una “federazione di fatto” sgradita a molti etiopici, a cominciare dai  “sovranisti” Amhara, che si ruppe –  non c’è bisogno di dirlo – misteriosamente, nel 1996.

 

Due anni più tardi, per via di una vertenza di confine apparentemente banale, riguardante Badme, borgo di frontiera fra Tigrè ed Eritrea,  Zenawi e Isayas imposero ai rispettivi popoli una guerra feroce, durata quasi due anni (1998-2000) e costata fra gli 80 e i 100 mila morti. 

 

Solo a cose fatte, nel 2002, i giudici dell’Aia hanno dato ragione all’Eritrea sul contenzioso di Badme. 

 

Non ha nulla di misterioso invece la stanchezza di molti etiopici per lo  strapotere esercitato per tre decenni dal  “clan dei tigrini”, che  rappresentano il 7 per cento della popolazione. Tale stanchezza ha portato nel 2018 alla scelta di un premier come Ahmed Abiy, legato all’etnia di maggioranza relativa degli Oromo. Ancora meno misteriosa è la volontà del nuovo leader di cercare alleati – e l’Eritrea è fra questi –  che lo aiutino a ridimensionare il ruolo dei tigrini e del Tplf. 

 

La decisione di Abiy di utilizzare la sentenza dell’Aia sul caso Badme per “dichiarare la pace” con l’Eritrea nel 2018 ha avuto per i dirigenti del Tigrè il sapore di una provocazione, e il sapore di una beffa che tale provocazione abbia fruttato all’Etiopia il premio Nobel per la Pace.

 

Difficile credere che questa guerra attorno al Tigrè, quale che sia il bilancio finale in vite umane, destabilizzi o addirittura travolga l’intera Etiopia. Ne ha viste altre la vecchia Abissinia, e di peggiori. 

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