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Se boicotti, il governo ti guarda. In Tunisia mancano anche le bombole del gas

Arianna Poletti

Chi protesta non si limita più a scendere in piazza, ma sempre più spesso ricatta Tunisi bloccando le attività produttive. A Gabès, città costiera che ospita uno dei più importanti complessi industriali della Tunisia, l'ultimo caso

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Dieci anni dopo le manifestazioni che hanno dato inizio alla rivoluzione del 2011, in quelle stesse zone dell’entroterra della Tunisia si continua a protestare. La crisi economica e sociale che da anni si abbatte sulle regioni interne del paese, esacerbata dal coronavirus, rappresenta un problema per il governo centrale: la capitale e le città costiere più benestanti dipendono dalla produzione di beni di prima necessità provenienti dalle regioni marginalizzate. Il disequilibrio è chiaro ai manifestanti, così chi protesta non si limita più a scendere in piazza, ma sempre più spesso ricatta Tunisi bloccando le attività produttive.

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Dieci anni dopo le manifestazioni che hanno dato inizio alla rivoluzione del 2011, in quelle stesse zone dell’entroterra della Tunisia si continua a protestare. La crisi economica e sociale che da anni si abbatte sulle regioni interne del paese, esacerbata dal coronavirus, rappresenta un problema per il governo centrale: la capitale e le città costiere più benestanti dipendono dalla produzione di beni di prima necessità provenienti dalle regioni marginalizzate. Il disequilibrio è chiaro ai manifestanti, così chi protesta non si limita più a scendere in piazza, ma sempre più spesso ricatta Tunisi bloccando le attività produttive.

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Il metodo è stato inaugurato dal sit-in di el Kamour, una stazione di pompaggio di greggio nela regione desertica di Tataouine, imitato poi a el Borma, giacimento petrolifero in concessione a Eni. La situazione non è nuova. In questo governatorato confinante con Libia e Algeria, i siti di produzione di petrolio e gas vengono regolarmente bloccati dal 2017. In cambio di un ritorno alla produzione, i manifestanti chiedono al governo di redistribuire una parte delle entrate petrolifere alla regione di Tataouine, la più povera del paese (il tasso di disoccupazione qui è oltre il 30 per cento), la più ricca in idrocarburi. Un accordo a favore dell’occupazione firmato tre anni fa avrebbe dovuto garantire nuove assunzioni e investimenti, ma le promesse del governo sono rimaste tali. A luglio, i manifestanti di el Kamour hanno deciso di chiudere ancora una volta la valvola di pompaggio dell’oleodotto locale. Dopo mesi di scontri che hanno portato anche a un intervento dell’esercito, il 6 novembre il premier Hichem Mechichi ha finalmente annunciato di essere arrivato a un’intesa con i manifestanti.

 

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Il nuovo accordo è molto dettagliato e prevede il versamento di 80 milioni di dinari all’anno (25 milioni di euro) in un fondo regionale per lo sviluppo, un migliaio di nuovi posti di lavoro, importanti finanziamenti per progetti locali. Il 7 novembre la produzione è ripresa a pieno regime. Il successo dei manifestanti di Tataouine non è passato inosservato. Le manifestazioni nelle regioni del sud di Sidi Bouzid, Gafsa, Kasserine, Sfax e Kairouan si sono moltiplicate: il “metodo el Kamour” ha ispirato nuovi blocchi della produzione nel tentativo di attirare l’attenzione del governo. Mentre presentava i punti dell’accordo, il premier Hichem Mechichi ha promesso di non ignorare le rivendicazioni degli altri governatorati e di voler affrontare in particolare la crisi del mercato del lavoro.

 

A Gabès, città costiera che ospita uno dei più importanti complessi industriali della Tunisia, i manifestanti hanno occupato un sito appartenente al Gruppo chimico tunisino. Lavoratori precari e disoccupati si sono uniti agli ambientalisti – che da anni chiedono un piano di riduzione delle emissioni inquinanti – pretendendo nuovi posti di lavoro e la modernizzazione dei vecchi impianti che fanno di Gabès la città più inquinata della Tunisia. Khayreddine Debaia, uno dei leader del sit-in, conferma: “Ci ispiriamo a el Kamour. Gabès viene sacrificata in nome della stabilità e dell’economia nazionale, ma i cittadini continuano a combattere contro precarietà e disoccupazione”. Da due settimane il blocco è stato esteso alla produzione di bombole di gas. La sola industria di Gabès produce più della metà del fabbisogno del paese. Questo sta causando una penuria di bombole, usate ancora oggi da tre quarti della popolazione nella vita quotidiana. La città di Sfax, capitale economica del sud tunisino, è nel caos: le code alle stazioni di servizio si allungano ogni giorno perché i manifestanti hanno chiuso la valvola petrolifera del giacimento di Kebiba, a Thyna, che rifornisce di carburante l’intera regione. Per Romdhane Ben Amor del Forum tunisino per i diritti economici e sociali, “ignorando o sanzionando le proteste pacifiche, il governo spinge i manifestanti verso l’uso di metodi più estremi”. Il Forum propone l’organizzazione di un dialogo nazionale per evitare nuovi blocchi.

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