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Chi è Alejandro Mayorkas, il “facilitatore” di Biden

Cecilia Sala

Il prossimo segretario alla Sicurezza nazionale è il primo ispanico in questo ruolo. La sua storia, le sue parole e le sue priorità

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“The enforcer”, il garante, era il titolo scelto dal Los Angeles Magazine per un servizio del 2000, quando dedicò sette pagine patinate al brillante procuratore nato a L’Avana Alejandro Mayorkas. Misconosciuto a Hollywood, sotto i riflettori a downtown, Mayorkas faceva parlare di sé nell’ambiente della burocrazia, degli uffici, degli affari. Quell’articolo pubblicato all’inizio del millennio girava tutto intorno a una contrapposizione, un’allegoria sull’universo giudiziario americano, coi suoi miti e le sue storture.

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“The enforcer”, il garante, era il titolo scelto dal Los Angeles Magazine per un servizio del 2000, quando dedicò sette pagine patinate al brillante procuratore nato a L’Avana Alejandro Mayorkas. Misconosciuto a Hollywood, sotto i riflettori a downtown, Mayorkas faceva parlare di sé nell’ambiente della burocrazia, degli uffici, degli affari. Quell’articolo pubblicato all’inizio del millennio girava tutto intorno a una contrapposizione, un’allegoria sull’universo giudiziario americano, coi suoi miti e le sue storture.

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“Nel business della giustizia, esistono due tipi di persone”. E il gioco delle parti e dei simboli, con qualche caricatura e altrettante verità, era incarnato da due figure che a vent’anni di distanza abbiamo imparato a conoscere meglio, entrambe al centro dell’ultimo voto americano. Il primo tipo è Rudy Giuliani, “osso duro, tutta-roba-mia, bella-chiama-la-stampa-sto-per-inchiodare-un-pesce-grosso”, che oggi assiste la campagna Trump nella causa persa dei riconteggi, che chiede 20 mila dollari al giorno come compenso personale, perde, parla in pubblico e il sudore gli fa colare la tinta dei capelli sulle guance. Poi c’è il tipo opposto, alla “Ali” Mayorkas. Che è andato a parlare con i bambini afroamericani di Compto, dopo l’omicidio di una ragazza afroamericana di 19 anni, nel tentativo un po’ disperato di spiegare che anche i poliziotti bianchi sono innocenti finché non è stato provato che siano colpevoli. Il primo, Giuliani, a New York, il secondo, Mayorkas, a Los Angeles.

 

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“Chiedete a chiunque dell’ambiente, anche all’avvocato che ha appena massacrato in aula, e chiunque vi dirà semplicemente che Mayorkas è un uomo onesto. Come se ne vedono pochi in questo giro”. Il suo distretto era il più grande del paese, 18 milioni di abitanti in sette contee del sud della California. Mayorkas lavorava sui casi più disparati, dall’evasione fiscale ai crimini dei suprematisti bianchi. Dalle bancarotte fraudolente dell’upper class alle rapine in banca delle gang afro e latine. Si è occupato di Mafia messicana e di narcotraffico. La “war on drugs”, tentativo dell’eccezione americana di ripulire se stessa e poi il mondo da uno dei vizi più antichi, sarà una costante nella carriera di Mayorkas. Quando approda per la prima volta in procura è il 1989, lui è alle prime armi, gli Stati Uniti d’America sono nel pieno della guerra alla droga di Ronald e Nancy Reagan, sono i tempi in cui “con cinque grammi ti prendi cinque anni”.

 

Mayorkas si schiera contro le sentenze facili, o meglio “gli scalpi facili”, come li chiama lui. Non è un bullo: “La cosa peggiore che possa fare un procuratore è mettere la difesa o l’indagato nella posizione di non poter reagire, di non poterti rispondere”. Non intimidisce, preferisce la logica, si definisce un facilitatore, uno a cui piace aggiustare le cose. Mayorkas e Giuliani sono due mondi che non si toccano, “Ali” è una forza tranquilla, rassicura e piace, persino a Heidi Fleiss, la “Hollywood Madam” arrestata in un elegante albergo di Beverly Hills dove gestiva un esclusivo giro di prostituzione. Fleiss lo definì dolce e gentile, gli consigliò di candidarsi, poi aggiunse: “Mi piace davvero, anche se non dovrei dirglielo visto che ha appena chiesto al giudice di darmi dieci anni”. “Will the US attorney Mayorkas go to Washington DC?” si domandava quindi LA Magazine. Così è stato, “Ali” Mayorkas è il prossimo segretario alla Sicurezza nazionale degli Stati Uniti d’America, il primo ispanico della storia, il futuro ministro dell’Interno dell’Amministrazione Biden. “Sono un facilitatore, mi piace aggiustare le cose”: adesso ci si aspetta da lui che sappia curare le ferite dell’immigrazione, che riesca a dialogare con il movimento Black Lives Matter, placare gli animi, prevenire gli incendi. Le sue posizioni sull’immigrazione non sono radicali, e le conosciamo già.

 

E’ stato il direttore dell’US Citizenship and Immigration Service ai tempi del primo mandato di Barack Obama, è uno degli uomini di continuità tra quella amministrazione e quella che inizierà il 20 gennaio a mezzogiorno, la prima di Joe Biden. Allora si era schierato contro la SP1070, una legge approvata dall’Arizona nel 2010 per cui i poliziotti avrebbero potuto fermare chiunque sembrasse loro un immigrato. In una nazione in cui non si usa portare con sé i documenti e dove la polizia è tenuta a fermare solo chi abbia commesso un reato, l’Arizona aveva sentito la necessità di una legge come la SP1070. Così, da un momento all’altro, chiunque avesse tratti somatici ispanici veniva sottoposto a fermo. Mayorkas aveva detto che “il linguaggio e le emozioni intorno alla questione dell’immigrazione non sono mai stati al vetriolo come adesso. Penso che un’economia difficile porti in superficie sentimenti profondi e li renda estremi”. La situazione non è molto diversa oggi. Sul fronte dei rapporti con il Messico, l’eredità lasciata dal presidente uscente – nonostante i toni – non è disastrosa. Con Obrador, che guida il Messico, Trump è stato in sintonia, per una affinità elettiva tra due populisti, uno di destra e l’altro di sinistra, più che per una reale convergenza di intenti politici. A cambiare sarà piuttosto l’atteggiamento nei confronti dei paesi socialisti dell’America latina, verso i quali l’Amministrazione Trump è stata più volte molto dura, a cominciare da Cuba.

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Mayorkas non ha mai anglicizzato il suo nome, è un ebreo cubano, la sua famiglia è arrivata negli Stati Uniti chiedendo asilo politico nel 1960. Prima di trasferirsi a Beverly Hills, i suoi familiari sono passati per Miami, meta prediletta dagli esuli cubani e venezuelani negli Stati Uniti. Proprio le comunità che, in particolare nella contea di Miami-Dade, hanno consegnato la vittoria della Florida a Trump nelle ultime elezioni, in protesta con il processo di riconciliazione (avviato dai democratici) tra gli Stati Uniti e i regimi da cui sono fuggiti. Una riconciliazione di cui Mayorkas è stato la figura fondamentale, con la responsabilità dei negoziati con Cuba durante l’Amministrazione Obama, dopo la promozione a vice della Sicurezza nazionale.

 

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Cinque anni fa Mayorkas andò a L’Avana per incontrare Raúl Castro. “Avevo il cuore in fiamme”, disse una volta rientrato negli Stati Uniti. Pochi mesi più tardi arrivò il ripristino delle relazioni diplomatiche dopo 55 anni di ostilità e la visita ufficiale di Obama, i voli diretti e la firma di 22 accordi, diplomatici e commerciali. Trump ha fatto marcia indietro, stracciando l’accordo: ha costretto Western Union a chiudere i suoi 407 uffici sull’isola attraverso i quali gli emigrati spedivano soldi ai parenti; ha imposto nuove sanzioni e scelto una data simbolica per annunciarle: l’anniversario della Baia dei Porci, il tentativo americano di rovesciare Castro. “Consumato procuratore, Mayorkas sembra nato per fare il servitore dello stato”, era stata la sentenza del LA Magazine vent’anni fa. Ora il nuovo segretario alla Sicurezza nazionale ha una doppia responsabilità: nei confronti di tutti i suoi concittadini e dei latinoamericani fuori e dentro i confini degli Stati Uniti.

 

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