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il foglio del weekend

L’amore al buio della sinistra

Paola Peduzzi

Leon Wieseltier tifa Biden ma tocca i nervi scoperti dei liberal, dalla capacità di fare la guerra alla cancel culture

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Non si parla  abbastanza di amore, ha detto Joe Biden, il presidente eletto dall’America, nel suo discorso per il giorno del Ringraziamento. “Non parliamo abbastanza di amore nella nostra politica. Amare i nostri vicini come noi stessi è un atto radicale, è quello che siamo chiamati a fare. Dobbiamo provarci”, ha detto Biden, in questo slancio salvifico che ha scandito il suo esordio presidenziale, assieme alla calma rarefatta con cui ha sedato la verbosità negazionista dei trumpiani. L’amore, la cura, la restaurazione di “quel che siamo”, come uomini e come americani, sono i pilastri su cui Biden sta costruendo la sua presidenza, pur appesantito com’è non solo o non tanto dalla riluttanza (eufemismo) di Donald Trump a dargli spazio – o anche semplicemente un ufficio –  ma anche dal passato del suo partito, e dal presente. Di fronte alle prime nomine della prossima Amministrazione Biden ci siamo messi come dei piccoli chimici ad analizzare: quanto obamismo c’è, quanto clintonismo (nelle sue due versioni, marito e moglie) c’è, quanta Terza via, quanto radicalismo, quanto calcolo anche, ché il presidente Biden sa meglio di tutti noi che è più facile trovare un terreno comune  con i repubblicani (i repubblicani prima di Trump almeno) che con l’ala più a sinistra del suo stesso partito. E infatti ci sono appelli e petizioni che già circolano in quella sinistra lì in cui si fa l’elenco dei “tradimenti” cui si presterà Biden e delle persone al governo che non potranno mai essere accettate. Il giorno dopo le elezioni, la tregua è finita. “Si è formata una coalizione fondata sull’opposizione a Trump, che in effetti si è dimostrato un gran costruttore di coalizioni di sinistra – dice Leon Wieseltier, intellettuale liberale che per una vita ha diretto le pagine culturali di New Republic e che ora ha lanciato una rivista che si chiama Liberties – Ma ora che Biden ha vinto, la guerra è iniziata. Uno degli sviluppi più preoccupanti nella politica americana degli ultimi decenni è stata la scomparsa della distinzione tra liberalismo e progressismo. Pure se entrambi hanno votato per Biden, non sono la stessa cosa, non lo sono intellettualmente, politicamente, storicamente” (nota: gli americani chiamano progressisti quelli che noi chiamiamo radicali di sinistra).

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Non si parla  abbastanza di amore, ha detto Joe Biden, il presidente eletto dall’America, nel suo discorso per il giorno del Ringraziamento. “Non parliamo abbastanza di amore nella nostra politica. Amare i nostri vicini come noi stessi è un atto radicale, è quello che siamo chiamati a fare. Dobbiamo provarci”, ha detto Biden, in questo slancio salvifico che ha scandito il suo esordio presidenziale, assieme alla calma rarefatta con cui ha sedato la verbosità negazionista dei trumpiani. L’amore, la cura, la restaurazione di “quel che siamo”, come uomini e come americani, sono i pilastri su cui Biden sta costruendo la sua presidenza, pur appesantito com’è non solo o non tanto dalla riluttanza (eufemismo) di Donald Trump a dargli spazio – o anche semplicemente un ufficio –  ma anche dal passato del suo partito, e dal presente. Di fronte alle prime nomine della prossima Amministrazione Biden ci siamo messi come dei piccoli chimici ad analizzare: quanto obamismo c’è, quanto clintonismo (nelle sue due versioni, marito e moglie) c’è, quanta Terza via, quanto radicalismo, quanto calcolo anche, ché il presidente Biden sa meglio di tutti noi che è più facile trovare un terreno comune  con i repubblicani (i repubblicani prima di Trump almeno) che con l’ala più a sinistra del suo stesso partito. E infatti ci sono appelli e petizioni che già circolano in quella sinistra lì in cui si fa l’elenco dei “tradimenti” cui si presterà Biden e delle persone al governo che non potranno mai essere accettate. Il giorno dopo le elezioni, la tregua è finita. “Si è formata una coalizione fondata sull’opposizione a Trump, che in effetti si è dimostrato un gran costruttore di coalizioni di sinistra – dice Leon Wieseltier, intellettuale liberale che per una vita ha diretto le pagine culturali di New Republic e che ora ha lanciato una rivista che si chiama Liberties – Ma ora che Biden ha vinto, la guerra è iniziata. Uno degli sviluppi più preoccupanti nella politica americana degli ultimi decenni è stata la scomparsa della distinzione tra liberalismo e progressismo. Pure se entrambi hanno votato per Biden, non sono la stessa cosa, non lo sono intellettualmente, politicamente, storicamente” (nota: gli americani chiamano progressisti quelli che noi chiamiamo radicali di sinistra).

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Leon Wieseltier è uno dei più raffinati intellettuali della sinistra politicamente scorretta americana, un “falco liberal”, come ribadirà anche in questa nostra conversazione, che nei suoi tantissimi anni come literary editor della rivista New Republic si è fatto una quantità incalcolabile di nemici  che hanno poi vistosamente festeggiato quando hanno visto il suo cadavere scorrere sul fiume. 

 

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Wieseltier è stato colpito dal metoo, che gli è costato la direzione di una rivista di cui c’era solo il numero zero (si chiamava Idea) e l’incarico alla Brookings Institution. Il confino dalla vita pubblica è stato poi superato con molte e ripetute scuse per il proprio comportamento inappropriato e con la nascita di una nuova rivista, Liberties (è uscito il primo numero a ottobre). La nuova vita di Wieseltier riparte da qui, stessi capelli bianchi vaporosi e vanitosi di sempre, stessa precisione, stessa scorrettezza di sempre quando dice che il suo paese è “ancora molto cupo” – dark è la parola che usa, evocando il nero e la notte –  e che il mondo è molto “hobbesiano”, e che tutto questo obamismo è eccessivo, perché “Obama è interamente riferito a Obama, dall’inizio alla fine”, non c’è spazio per altro o altri. Wieseltier è tutto ciò per cui i radicali di sinistra dicono – come ha fatto e fa la loro beniamina Alexandria Ocasio-Cortez – che Biden&Co. sono espressione di un establishment che non dovrebbe nemmeno essere considerato democratico, perché il centrismo del dialogo e del confronto con i repubblicani è già destra. Anzi, forse Wieseltier è ancora peggio di così, perché non soltanto rappresenta per i radicali il mondo alieno della sinistra, ma è il primo a sottolineare che tra lui e i progressisti c’è una diversità culturale incolmabile. Centristi e radicali “si sovrappongono su alcuni temi che riguardano alcune riforme economiche e ambientali, così come nell’opposizione feroce a ogni forma di razzismo e di xenofobia – dice Wieseltier – Ma sono diversi su alcune questioni cruciali: la legittimità del capitalismo, la necessità della preminenza dell’America nel mondo, il fondamento morale dei diritti civili. I liberali insistono su valori morali universali, mentre i progressisti insistono sulla celebrazione dell’identità”.  Nei postumi della crisi finanziaria e pandemica, di fronte alla “grandezza scioccante” della diseguaglianza in America, “ho il sospetto che i democratici, con Biden alla loro guida, cercheranno politiche economiche serie in stile Warren, che è quello che dovrebbero fare. Ma gran parte del radicalismo contemporaneo consiste soltanto in umori e in pose e in  catastrofismo populista.  Il populismo è soltanto e davvero emotività, e finirà per placarsi. Ma non in fretta: la cultura politica americana è ancora avvelenata da rabbia, disprezzo, dogmi”.

 

   

Wieseltier conta su Biden, sulla sua capacità di mediare, certo, ma soprattutto di tenere  testa ai progressisti, cosa che secondo lui Obama, il veneratissimo Obama, non ha mai fatto. Non tanto per ideologia o per appartenenza, ma perché per l’ex presidente  esiste soltanto se stesso. Alcuni hanno visto nell’onnipresenza di Obama nella campagna di Biden e poi dopo, con la pubblicazione della prima parte delle sue memorie e le tante, belle e calcolate interviste sul libro, un po’ di questo egocentrismo. Spostati un pochino, caro e indimenticabile Obama, hanno detto alcuni, lasciaci vedere Biden. Wieseltier è molto più secco e brutale di così: “La presidenza Biden non deve essere il terzo mandato di Obama, perché Obama è un  uomo che ama autocompiacersi in modo spettacolare, che ha lasciato il partito senza una identità chiara e il suo paese senza una forte presenza nel mondo. Ha mostrato coraggio politico e si è rivolto direttamente alle persone soltanto quando la sua sorte dipendeva da loro. I suoi otto anni sono stati un’illusione, e questo spiega perché la mattina dopo la sua presidenza ci siamo svegliati con il cataclisma del mostro arancione alla Casa Bianca”. L’intellettuale non si è ancora levato tutti i sassolini, dice che “in un momento in cui il paese rischia di collassare, l’ostentazione che Obama fa della propria fama è un pochino oscena”. Poi con l’ex presidente ha finito, per il momento, “la buona notizia è che Joe Biden può finalmente essere se stesso, spero che colga questa opportunità”.

  

Il partito “let Biden be Biden” si fa via via più nutrito: le minestre riscaldate, per quanto siano state buonissime, hanno poco fascino, nell’amore come nella politica. Per di più  Biden ha già molto di nostalgico e di antico e di riscaldato: “Be his own man”, come dice Wieseltier, è quasi una necessità. E molti dicono che sia anche la sua aspirazione: le attese sono grandi, l’inizio è incoraggiante. Il team di politica estera e di sicurezza selezionato da Biden ha ricevuto molti applausi: Antony Blinken, nominato segretario di stato, ha fatto il suo primo discorso ricordando il padrino, Samuel Pisar, che alla fine della Seconda guerra, bambino polacco catturato dai nazisti, in marcia verso la morte in un bosco della Baviera, riesce a scappare, vede un carro armato con la stella americana, si butta in ginocchio e al soldato che spunta dallo sportello dice le uniche tre parole in inglese che gli aveva insegnato la madre prima della guerra: “God bless America”. “Questo è quello che siamo”, ha detto Blinken, celebrando i valori che tengono insieme l’ordine liberale, celebrando il ritorno degli Stati Uniti come forza guida nel mondo. La sinistra radicale s’infervora, dice che sono tornati i guerrafondai, aspetta che Biden nomini al Pentagono Michèle Flournoy, liberal falchissima, per scatenare la propria furia. Al contrario Wieseltier non s’accontenta – è puntiglioso ed esigente – e segna in modo molto più netto la distinzione tra liberali e progressisti. Lo fa in un modo che anche a molti cantori europei del liberalismo moderato e della Terza via non piacerà: perché quando si parla della guerra, dell’interventismo liberale, si sfasciano convinzioni granitiche. Succede dagli anni Novanta, con la guerra in Iraq c’è stato lo sgretolamento definitivo. Ma ancora oggi l’interrogativo esiste, fortissimo, soprattutto quando festeggiamo l’autonomia strategica dell’Europa: autonomia è anche sapersi difendere, saper attaccare, saper battersi per i propri valori. La guerra, appunto. Quella del clintonismo e del blairismo che, piaccia o no, fa parte del pacchetto. Wieseltier è come al solito preciso e brutale: anzi, forse sapendo che tocca un nervo scoperto in Europa, pare quasi implacabile. “Molti pensano che tutto quel che devono sapere della politica estera dell’America sia la guerra in Iraq. In questo paese notoriamente polarizzato, tutti i partiti e i politici concordano sul fatto che la guerra in Iraq è stato un disastro e che gli Stati Uniti non devono più inviare i loro soldati in terre straniere per fermare genocidi e pulizie etniche né utilizzare il loro potere in alcun modo per agevolare un risultato politico in un altro paese. Su questo tema non c’è alcuna polarizzazione: il ritiro dell’America dal mondo, che io considero un’abdicazione epocale alle responsabilità storiche dell’America, è iniziato con Obama ed è continuato con Trump. Per me, il più grande scandalo degli ultimi decenni non è stato l’intervento in Iraq ma il mancato intervento in Siria. Questo errore, che ha portato – e qui Wieseltier guarda dritto negli occhi  tutti noi europei – alla crisi dei rifugiati che ha costretto l’Europa a misurarsi con un’ignominiosa recrudescenza del fascismo, si è rivelato un disastro morale e strategico. Ha permesso all’Iran di perseguire il suo imperialismo ed espansionismo regionale. Ha creato un vuoto che Vladimir Putin ha riempito restaurando in questo modo il potere regionale della Russia. Spero ardentemente che Biden, un comprovato internazionalista, cercherà di correggere questi errori terribili, ma la sua Amministrazione sarà piena di persone legate a Obama che li hanno commessi, questi errori”. Apre una parentesi, Wieseltier, e si racconta: “Sono un falco liberal. Ho sostenuto la guerra in Iraq fino a che sono stato convinto che Saddam Hussein avesse le armi di distruzione di massa: dopotutto le aveva già utilizzate ad Halabja. Quando ho realizzato che le motivazioni per  la guerra erano false, che le armi non c’erano, ho tolto il mio sostegno all’intervento militare. Ma sono ancora convinto che l’Iraq abbia fatto un progresso politico dopo la caduta del suo dittatore e per questa ragione sono sempre stato contrario al ritiro americano”. Chiusa la parentesi, Wieseltier torna al presente, al “mondo hobbesiano” che non concede troppi lussi all’America, non certo quello di giocare con il proprio ruolo nel mondo, centellinando la propria presenza e rincorrendo un isolazionismo pericoloso. “L’ascesa della Cina, un potere leninista  parzialmente travestito da economia di mercato e con enormi ambizioni al di fuori dei propri confini, può essere compensata soltanto da una ‘riascesa’ degli Stati Uniti. Il mondo è davvero troppo hobbesiano ora perché l’America possa prendersi una vacanza. Se vuoi vedere com’è il mondo senza la leadership americana, basta che ti guardi intorno”.

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Ci siamo guardati intorno, noi europei, moltissimo: una superpotenza per sostituire l’America non c’è, abbiamo provato a diventare noi un pochino più super. Ma è difficile, e non siamo tutti convinti che ora che la tempesta trumpiana è finita sia poi così necessario insistere: torna l’America, facciamo spazio alla più grande. Ci si dividerà molto su questo, Wieseltier non immagina quanto e forse ha ancora nella retina l’Europa che si oppose alla guerra che lui sosteneva, l’Europa che si è lasciata amare e maltrattare da Obama e che una guerra in Siria non l’avrebbe mai fatta, chissà se si è accorto delle maniche rimboccate di questi ultimi quattro anni.

   

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Per finire torniamo alla frattura dell’inizio, quella incolmabile, quella su cui anche le sinistre europee discutono, spesso con tormento. Sulle guerre culturali, Wieseltier è accurato e definitivo: combatte da tutta la vita, si è inimicato buona parte del suo mondo e il tempo, l’esperienza e il metoo lo hanno reso, se possibile, ancora più categorico. “La cancel culture è una forma estrema di intolleranza praticata da persone che amano vantarsi di essere tolleranti. E’ l’espressione di una debolezza intellettuale e di una vigliaccheria filosofica – dice impietoso – Vìola alcune delle convinzioni fondative dell’America riguardo la libertà. Siamo diventati una società crudele e spietata che cerca la purezza negli individui e la perfezione ideologica e il conformismo emotivo. Uno degli effetti peggiori di questa  irregimentazione delle opinioni a sinistra è stata la politicizzazione assoluta della cultura, che ora è vista come una modo di fare politica con altri mezzi. Il New York Times è emerso come l’organo centrale di questa sincronizzazione terribile, e gli storici avranno il loro bel daffare a raccontare questa cosa. Non il razzismo, non la misoginia, non l’omofobia, non l’antisemitismo, non la xenofobia possono giustificare l’abrogazione della libertà d’espressione. Nessun movimento di giustizia sociale è immune alle critiche, anche perché spesso queste critiche sono fatte da persone che condividono molti degli stessi obiettivi. La guerra alla verità, in America, è bipartisan: la sinistra ha di certo il grande vantaggio di fidarsi della scienza, ma sulle questioni morali, storiche e sociali è intenzionalmente cieca come la destra”. E’ qui, dopo quest’ultima scudisciata, che Wieseltier dice che il suo paese è ancora molto dark, cupo e nero, e viene da dirgli che in fondo anche l’Obama egoriferito di cui parla lui aveva messo in guardia il suo mondo e il suo partito dai test di purezza, dal fatto che a lanciare pietre non si va molto lontano. Ma forse Wieseltier parlerebbe di ipocrisia, e comunque non si può finire a parlare sempre di Obama. Su Biden le attese sono alte, i test di purezza saranno per lui problematici, ma a chi dice dark, a chi pensa al nero e al cupo e al buio,  il presidente eletto intanto risponde l’indicibile: parlami d’amore.

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