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the president and the city

Chiacchiere newyorchesi su Trump: torna, non torna, la città se lo riprende? (No)

I rapporti tra il presidente uscente e la sua città sono ai minimi storici

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Ora che è ufficiale, ora che Donald Trump ha detto di aver dato al suo team istruzioni per iniziare la transizione, ora che c’è la firma sulla lettera che sblocca i fondi per il passaggio di potere, la domanda che i newyorchesi avevano incominciato a farsi a mezza voce è diventata argomento di discussione collettiva: tornerà o non tornerà? I rapporti tra il presidente uscente e la sua città sono ai minimi storici.

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Ora che è ufficiale, ora che Donald Trump ha detto di aver dato al suo team istruzioni per iniziare la transizione, ora che c’è la firma sulla lettera che sblocca i fondi per il passaggio di potere, la domanda che i newyorchesi avevano incominciato a farsi a mezza voce è diventata argomento di discussione collettiva: tornerà o non tornerà? I rapporti tra il presidente uscente e la sua città sono ai minimi storici.

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Durante una conferenza stampa per l’annuncio del vaccino della Pfizer, lo scorso 13 novembre, Trump ha detto che sarebbe stato distribuito in tutti gli stati, tranne New York. Durante il dibattito con Joe Biden, a fine ottobre, ci era andato ancora più pesante, riprendendo una cantilena che aveva caratterizzato l’estate: “New York City è una città fantasma”, aveva detto, variazione di “è invivibile” detto qualche mese prima e di “se ne vanno tutti, è un inferno” detto qualche giorno dopo. New York City, da parte sua, il giorno dell’annuncio della vittoria di Biden era esplosa in una festa collettiva che lasciava poco spazio all’interpretazione dei sentimenti verso il suo cittadino più illustre. Tra cortei di auto per la strada, balli a Washington Square Park e bottiglie di champagne stappate persino nella hipster Williamburg una cosa si è capita: una volta lasciata la Casa Bianca, il 20 gennaio, Trump e famiglia molto difficilmente torneranno a vivere qui. Lo strappo non è ricucibile. Lo sarebbe anche per uno meno vendicativo e suscettibile, figurarsi per lui, sconfitto con il 73 per cento dei voti: a Manhattan ogni singolo distretto elettorale è andato a Joe Biden.

  

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Un rapporto turbolento da sempre. Come quelle storie d’amore a senso unico, con una parte che ama e vuole essere amata, fa di tutto per farsi bella e per aver successo, ricevendo in cambio solo sguardi di sufficienza. “Trump è sempre stato difficile da collocare nella geografia culturale di New York, la più grande, la più varia e la più cinematografica di tutte le città americane”, dice Lincoln Mitchell, analista politico e scrittore che insegna alla Columbia University. “Le persone in tutto il mondo hanno familiarità con i diversi tipi di newyorchesi: l’immigrato laborioso, il banchiere di Wall Street, il burbero colletto blu di Brooklyn, l’afroamericano di Harlem, l’ebreo dell’Upper West Side. Donald Trump non è nessuno di questi. Non è neanche il classico protestante bianco anglosassone nato per il denaro, il classico Wasp. Viene dal quartiere Jamaica Estates del Queens, un’enclave ricca in un quartiere operaio che ospita newyorchesi di tutte le razze e nazioni, non viene dall’Upper East Side. E’ un protestante laico nel settore immobiliare, un’attività fortemente ebraica a New York. Ha, insomma, un background che lo rende insolito, sfida le categorie standard”.

 

In una città tribale, Trump non ha mai avuto una sua tribù. Neanche quella dei ricchi o degli arricchiti. Nonostante fosse il rampollo di una famiglia ricca, la vecchia aristocrazia della città non lo ha mai accettato del tutto. Nonostante abbia messo a segno qualche buon colpo, soprattutto tra gli anni Settanta e Novanta, come l’acquisto di 40 Wall Street e la ristrutturazione del Grand Hyatt Hotel sulla 42esima Strada, non è mai stato considerato un serio immobiliarista. Ha sempre avuto la fama di quello che non paga gli appaltatori, di uno con cui non fare affari, di uno i cui fallimenti superano i successi. L’approvazione dell’élite di Manhattan – che ha sempre cercato – non gli è mai stata concessa e avere i servizi igienici d’oro non ha aiutato, anzi più lui si muoveva tra discoteche, appartamenti pacchiani sulla Fifth Avenue, feste con modelle e chiacchiere con artisti e stilisti, più veniva considerato una macchietta, la caricatura dell’arricchito.

 

“Dovresti parlare con Kurt Andersen”, dice Elisabeth Spiers, ex direttore del New York Observer, una che i Trump e i Kushner li conosce bene. Andersen è stato il fondatore insieme a Graydon Carter del settimanale satirico newyorkese Spy. Sono stati loro nel 1989 a coniare per Trump l’etichetta di “volgarotto dalle dita corte”, una definizione da cui non si è mai liberato, soprattutto psicologicamente: racconta Carter che ancora qualche anno fa era solito ricevere dall’ufficio di Trump una busta con delle fotografie che lo ritraevano ritagliate dai giornali a cui aveva cerchiato le mani e scritto vicino, con un pennarello nero: “Mica tanto piccole, no?”. “Nessuno a New York ha mai preso sul serio le sue precedenti candidature politiche”, continua Spiers che descrive il Trump di quegli anni come una celebrità locale, uno buono per le pagine di gossip di quotidiani cittadini. “Certo, il fatto che fosse volgare e senza gusto c’entrava, ma soprattutto c’entrava il suo non essere un imprenditore di successo. Era uno che aveva ereditato molti soldi e che altrettanti ne aveva sprecati, che aveva fatto fallire i Casino ad Atlantic City, che aveva un così pessimo credit score che le banche non gli facevano più prestito. Niente di quello che ha fatto prima di ‘The Apprentice’ era considerato vincente. La televisione gli ha ripulito l’immagine, soprattutto verso quell’America che non lo conosceva come uomo d’affari. Ma i newyorchesi lo sapevano benissimo”. Spiers dice anche che Trump ha sempre sofferto di complesso di inferiorità, voler essere accettato da quelli che non lo rispettavano: pensava che diventando presidente questo sarebbe finalmente successo. “Ma il rispetto si guadagna e lui non ha mai fatto nulla per far cambiare l’opinione su di sé. New York non lo riaccoglierà mai e lui lo sa benissimo”.

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Le speranze di Ivanka

  

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“Il suo futuro è a Mar-a-Lago: d’altronde ha 74 anni, è l’età in cui tutti si trasferiscono al sole della Florida e lui ci stava già pensando, indipendentemente dal risultato delle elezioni”, dice lo stilista Domenico Vacca, newyorchese da decenni con negozio sulla 55esima Strada e che in Florida ha trascorso l’ultimo capodanno: lui e la moglie Eleonora Pieroni sono entrambi amici di Ivana Trump. Non una fuga quindi, ma una scelta anche perché questa New York non è più la sua, è diventata troppo “comunista” dice Vacca riferendosi alle politiche del sindaco Bill de Blasio. “La città non è più quella in cui lui si è arricchito”. Già prima della pandemia, ma ancora di più adesso, a New York le forze che spingono verso una più equa ridistribuzione della ricchezza si stanno facendo sentire. “Gli hanno anche scritto Black Lives Matter davanti alla sua Tower”, dice Vacca.

  

Ma se Trump è ben felice di starsene al sole della Florida, chi vuole tornare sono Ivanka e Jared. Le scuole dell’Upper East Side, il Met Ball, il giro dell’arte dove la first daughter è inseritissima, lo shopping da Oscar de La Renta. Difficile rinunciare a tutto questo. “Se pensano di rientrare in società come se niente fosse, come se gli ultimi quattro anni non fossero esistiti sono ancora più deliranti di Donald”, dice Spiers. “Senza contare che lei potrebbe essere trascinata in alcune delle cause legali che stanno cercando di farsi strada nella procura di New York. E’ giusto di qualche giorno fa la notizia che Ivanka, pur essendo parte della società, riceveva pagamenti come consulenze, spese che poi venivano dedotte dalle tasse. Considerato quanto sono intrecciati i suoi affari con quelli del padre non vedo come non possa essere coinvolta”. Eccolo, l’altro nodo: tornare a New York significa anche esporsi alle indagini della procura del distretto sud, quella che si occupa di crimini finanziari. Dovrebbe valerne davvero la pena.

 

“Non sono così sicura che Ivanka, passato un po’ di tempo, non sarebbe riaccolta in società”, dice Sciascia Gambaccini, stilista italiana sposata al fotografo Wayne Maser e con una carriera sia in Italia sia in America. “Nel mondo dei vecchi ricchi di Manhattan nessuno lo ammette, ma in molti lo hanno votato. Non è un gruppo particolarmente attento alle politiche sociali, non sono persone scandalizzate dalla poca moralità o dai bambini in gabbia al confine il Messico. Ivanka, che è sempre stata descritta come una educata e gentile, potrebbe benissimo essere perdonata, i quattro anni accanto al padre dimenticati. Già me la vedo tra qualche anno invitata al Met Ball”. Magari succederà. O magari New York City si vorrà liberare di Trump anche simbolicamente, cambiando nome ai suoi edifici.

 

Cancellare Trump, un’operazione già iniziata: lo scorso autunno, i residenti di 200 Riverside Boulevard hanno presentato una petizione per fare rimuovere il suo nome dal loro grattacielo. Non solo, a differenza di altri importanti investitori immobiliari di New York, come Rudin e Tisch, i cui nomi di famiglia abbelliscono ospedali, istituzioni culturali, scuole, pochi edifici e istituzioni culturali portano il suo nome. Trump, il presidente che veniva da New York, ma che dello spirito cosmopolita della metropoli non aveva nulla, non la curiosità intellettuale certo ma nemmeno la passione per la varietà di cibo etnico che la città offre. Tra tutti gli imperdonabili orrori, quello più orrendamente imperdonabile alla fine per New York sembra essere proprio questo: andare sempre nello stesso ristorante, ordinare sempre la bistecca. E per giunta ben cotta.

 

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