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Come passare dal Nobel al rischio di pulizia etnica in due anni

Guido De Franceschi

Così il presidente etiope Abiy si è fatto trascinare in un gorgo militare dal fronte dei tigrini. L’ultimatum scade oggi

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E’ un ossimoro facile facile ed eppure ineludibile quello del vincitore del premio Nobel per la Pace che fa la guerra. Oltretutto, il conflitto in corso in Tigrè (o Tigray, come si scrive in inglese), di cui già si raccontano atrocità, rischia di diventare una di quelle bruttissime guerre africane capaci di guadagnarsi il sinistro appellativo di “etniche” e di contagiare i paesi vicini più del Covid. E tutto questo rischia di diventare la livida alba in cui svapora il sogno in cui il primo ministro etiope, Abiy Ahmed Ali, interpretava il ruolo di un leader africano di nuovo conio. Dal conflitto in cui si è avvitata l’Etiopia sale una forte puzza di passato e di déjà vu. E invece tutta quella mirabolante traiettoria che nell’ottobre del 2019, dopo solo diciotto mesi al Abiy Ahmed Ali,potere, aveva condotto Abiy alla premiazione di Oslo era permeata di futuro (quantomeno promesso) e di cambi di passo mai visti in precedenza in quella parte di Africa.

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E’ un ossimoro facile facile ed eppure ineludibile quello del vincitore del premio Nobel per la Pace che fa la guerra. Oltretutto, il conflitto in corso in Tigrè (o Tigray, come si scrive in inglese), di cui già si raccontano atrocità, rischia di diventare una di quelle bruttissime guerre africane capaci di guadagnarsi il sinistro appellativo di “etniche” e di contagiare i paesi vicini più del Covid. E tutto questo rischia di diventare la livida alba in cui svapora il sogno in cui il primo ministro etiope, Abiy Ahmed Ali, interpretava il ruolo di un leader africano di nuovo conio. Dal conflitto in cui si è avvitata l’Etiopia sale una forte puzza di passato e di déjà vu. E invece tutta quella mirabolante traiettoria che nell’ottobre del 2019, dopo solo diciotto mesi al Abiy Ahmed Ali,potere, aveva condotto Abiy alla premiazione di Oslo era permeata di futuro (quantomeno promesso) e di cambi di passo mai visti in precedenza in quella parte di Africa.

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La formidabile prima parte della sua premiership non è stata tale per risultati concreti raggiunti o per chi sa quali grandi riforme portate a termine: per poter incidere davvero nello sviluppo di un fragile gigante da 110 milioni di abitanti (molto povero, ma economicamente e politicamente determinante in un’area in cui di paesi molto più disastrati – Somalia, Sudan, Sud Sudan, Eritrea – ce n’è in abbondanza) ci vuole un tempo ben più lungo. Quello che aveva stupito di Abiy, e quello che aveva convinto molti a dargli subito credito, era stata la sua capacità di affrontare ogni sfida applicando schemi inauditi. Abiy, che è un oromo (e appartiene quindi alla più popolosa etnia dell’Etiopia), aveva scompaginato, senza che si innescassero disordini, le proporzionali etniche non scritte che riservavano la sedia di primo ministro a un politico di etnia tigrina (o, come nel caso del predecessore Hailé Mariàm Desalegn, all’esponente di qualche etnia minoritaria ritenuta “innocua” dai tigrini). Aveva subito scarcerato tutti gli oppositori e stabilito la libertà di stampa. Aveva siglato in un istante la pace con l’Eritrea dopo decenni di conflitto. Aveva iniziato a distribuire alcune cariche senza seguire la consueta lottizzazione. E, soprattutto, lui, che è il figlio di un musulmano e di una cristiana e che parla oromo, amarico e tigrino e cioè tre delle quattro principali lingue del paese (la quarta è il somalo) aveva incarnato l’idea di un’Etiopia di tutti gli etiopi. In due parole, Abiy aveva quel “non so che” che lo proiettava nel club di quelli su cui puntare qualche fiche per il futuro dell’Africa. E invece adesso, nel conflitto che è nato nella regione settentrionale del Tigrè, il primo ministro non è sembrato capace dello scarto, della finta, del cambio di ritmo con cui aggirare il tranello dell’ennesimo conflitto armato africano. Infatti sembra proprio che Abiy si sia fatto trascinare in questo gorgo militare da quelli a cui la musica che lui ha suonato finora non è mai piaciuta e che volevano continuare a ballare i loro vecchi balli e a cantare le loro vecchie canzoni (di guerra, se del caso) e cioè i leader del partito Tplf, il Tigray People’s Liberation Front. Ed è oltretutto uno scontro tra gli “eroi” (appannati fino all’opacizzazione) di ieri e l’“eroe” (in pectore) di oggi.

 

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Il Tplf, espressione dell’etnia tigrina che rappresenta soltanto il 6 per cento della popolazione etiope, è stato infatti la punta di diamante dell’opposizione all’orrendo regime di Menghistu e la principale leva del suo rovesciamento nel 1991. Da allora, nell’Etiopia “liberata”, il Tplf aveva dominato il paese. Avendo accumulato durante la leadership della lotta contro Menghistu non soltanto una credibilità popolare ben presto dilapidata, ma anche competenze militari, politiche, economiche e tecnologiche (l’attuale capo del Tplf, Debretsion Gebremichael, che ha studiato anche in Italia, era considerato un abilissimo hacker) superiori a quelle di tutti gli avversari, il movimento politico del Tigrè ha per molti anni manovrato una coalizione di partiti interetnica disegnata su misura per garantire una prevalenza di tigrini del tutto sproporzionata rispetto al loro peso demografico (il 34 per cento degli etiopi è oromo, il 27 amhara, il 6 per cento tigrino e il 6 per cento somalo, mentre il resto della popolazione appartiene a un’ottantina di altri gruppi etnici). E il Tplf ha espresso quindi tutti o quasi i detentori delle cariche militari e civili più importanti: anche Tedros Adhanom Ghebreyesus, il capo dell’Organizzazione mondiale della sanità divenuto noto agli esordi della pandemia, fa parte del Tplf ed è stato ministro della Sanità in Etiopia durante l’era tigrinissima del premier Meles Zenawi e poi ministro degli Esteri con Hailé Mariàm Desalegn. Un sistema, questo, smantellato da Abiy. Non senza lasciare rancori.

 

Nei mesi scorsi, la stella del premier si era già un po’ offuscata per qualche manovra un po’ muscolare. E, nel corso del 2020, c’erano stati disordini etnici e uccisioni, come quella del cantante Hachalu Hundessa, che avevano scatenato ulteriori tumulti – e molti sospettano che non si sia trattato di autocombustioni ma che qualche piromane ci abbia messo del suo – secondo alcuni il Tplf o altri gruppi ostili al nuovo corso, secondo altri, i servizi dell’Egitto, un paese che ha un contenzioso con Addis Abeba a causa di una diga. Ma a degenerare verso lo scontro armato è stata la decisione delle autorità del Tigrè di tenere, in settembre, le elezioni regionali che erano state proibite, causa Covid, dal governo (risultato: un plebiscito per il Tplf) e di reagire militarmente al disconoscimento del voto da parte di Addis Abeba. Le alternative per il governo, davanti alla “trappola tigrina”, non erano molte: l’ex primo ministro Hailé Mariàm Desalegn ha scritto su Foreign Policy che Abiy e il Tplf non sono moralmente equivalenti, e che ora, dopo essere stato costretto a rinunciare al potere per le proteste contro la sua cattiva gestione economica e politica (“di cui facevo parte”, scrive l’ex premier), il Tplf cerca di gabbare la comunità internazionale cercando un negoziato assolutorio. Eppure, partecipare volenterosamente all’escalation militare, dare ultimatum e minacciare un attacco a Macallè, capoluogo del Tigrè, non è stata la mossa di disinnesco che ci si sarebbe aspettati da quello che era considerato il pivot del rinascimento democratico del Corno d’Africa.

 

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