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La versione di Blinken

Joe Biden ha nominato al Dipartimento di stato il suo più stretto collaboratore sulla politica estera. Ecco come Tony Blinken vede il mondo, con parole sue

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Pubblichiamo ampi stralci della conversazione tra Antony Blinken, nominato dal presidente eletto Joe Biden come segretario di stato, e Michael Morell, che ha lavorato per molti anni alla Cia (ne è stato vicedirettore durante l’Amministrazione Obama) ed è un esperto di intelligence e di politica estera. Il dialogo si è tenuto il 25 settembre scorso ed è ascoltabile nel podcast “Intelligence Matters” di Cbc News.

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Pubblichiamo ampi stralci della conversazione tra Antony Blinken, nominato dal presidente eletto Joe Biden come segretario di stato, e Michael Morell, che ha lavorato per molti anni alla Cia (ne è stato vicedirettore durante l’Amministrazione Obama) ed è un esperto di intelligence e di politica estera. Il dialogo si è tenuto il 25 settembre scorso ed è ascoltabile nel podcast “Intelligence Matters” di Cbc News.

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Intelligence first


Tony Blinken (TB): Il termine che mi viene in mente quando penso all’atteggiamento che aveva Joe Biden da vicepresidente nei confronti dell’intelligence è: vorace. Quando non è stato più alla Casa Bianca, Biden mi diceva che la cosa che gli mancava di più era il briefing quotidiano del presidente: ascoltandolo gli sembrava di sapere tutto quel che stava accadendo in ogni angolo del mondo. 

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Mike Morell (MM): Credi che Biden stia pensando a come riparare le relazioni tra la comunità dell’intelligence e la Casa Bianca?


TB: In breve: sì. E purtroppo questa missione di riparazione deve avvenire anche con molteplici altre agenzie del governo che sono state dolorosamente politicizzate dall’attuale Amministrazione (di Donald Trump) e sono diventate degli strumenti per perseguire gli interessi personali del presidente in contrapposizione con l’interesse nazionale. Sfortunatamente la comunità dell’intelligence è in cima alla lista.


MM: E come si fa?


TB: Prima di tutto, bisogna mandare un messaggio chiaro e diretto: Biden non politicizzerà l’intelligence. Chiederà che gli esperti portino le migliori analisi e le migliori opinioni non formulate sulla base della percezione dei desideri o degli interessi politici del presidente. Penso che sarà un messaggio che Biden lancerà immediatamente e poi, ovvio, molto dipende anche dalle persone che scegli per guidare queste agenzie. 

 


La visione di politica estera


MM: Che cosa pensa Biden del ruolo che l’America deve avere nel mondo?


TB: Voglio sintetizzare la risposta in tre parole: leadership, cooperazione e democrazia. Così sintetizzo anche la grande differenza tra il presidente Trump e (il presidente eletto) Biden. Non penso che la scelta possa essere più chiara di così e il contrasto più netto. Per quel che riguarda la leadership: che ci piaccia o no, il mondo non si organizza da solo. Fino a questa Amministrazione, gli Stati Uniti avevano rivestito un ruolo guida in questa organizzazione, aiutando a scrivere le regole, a modellare le norme e ad animare le istituzioni che governano le relazioni tra le diverse nazioni. Ora abbiamo un presidente che sfortunatamente ha abdicato a questa responsabilità e ci ha fatto ritirare dai nostri alleati, dalle organizzazioni internazionali, da accordi conquistati in modo duro. E qui sta il problema. Quando non siamo coinvolti, quando non abbiamo un ruolo di guida ecco cosa succede. O qualche altro paese cerca di prendere il nostro posto – ma probabilmente non in un modo che porta avanti i nostri interessi e i nostri valori – o non lo fa nessuno. Così ci ritroviamo nel caos o nel vuoto riempito da cose brutte prima che da quelle belle. In entrambi i casi, per noi non è una buona situazione. Per questo Joe Biden riaffermerà la leadership americana attraverso la nostra diplomazia. Per ricoinvolgerci non dobbiamo però pensare al 2009 e nemmeno al 2017 quando i democratici hanno lasciato la Casa Bianca: ci sono altre potenze in ascesa, nuovi attori rafforzati dalla tecnologia e dall’informazione che dobbiamo per forza considerare se vogliamo fare qualche progresso. E penso che Biden si muoverà con una combinazione di umiltà e fiducia. L’umiltà perché molti problemi nel mondo non riguardano noi, anche se ci influenzano. Non possiamo semplicemente girare un interruttore per risolverli. Ma anche fiducia, perché quando cerchiamo di agire al meglio, abbiamo ancora molta più capacità rispetto ad altri paesi di mobilitare gli altri. Ma la cooperazione qui è decisiva. E questo è il secondo pezzo: nessuna delle sfide che abbiamo, che si tratti del cambiamento climatico, della migrazione di massa, della disruption tecnologica o della pandemia, può essere affrontata da un’unica nazione che agisce da sola, pure se è potente come la nostra. E non c’è muro alto abbastanza o largo abbastanza per contenere queste minacce. Eppure proprio nel momento in cui la cooperazione è tanto necessaria, la credibilità e l’influenza degli Stati Uniti sotto la presidenza Trump è in caduta libera. Avrai visto l’ultima ricerca Pew: la gente ha più fiducia che nel mondo facciano la cosa giusta Vladimir Putin o Xi Jinping rispetto al presidente americano. Dovremo raccogliere i pezzi  del massacro operato da Trump alla nostra reputazione, dovremo ricostruire la fiducia nella nostra leadership e poi mobilitare i nostri alleati e gli altri paesi per affrontare le nuove sfide. L’ultimo punto riguarda la democrazia. La democrazia ancora riflette quel che siamo, come ci vediamo e fino a poco tempo anche il modo con cui ci vede il resto del mondo, anche se questa convinzione è stata messa a dura prova. La forza della nostra democrazia interna è collegata direttamente con la nostra capacità di essere una forza di progresso nel mondo e di mobilitare quell’azione collettiva di cui parlavo prima. Ma l’assalto quotidiano di Trump alla nostra democrazia, alle nostre istituzioni, ai nostri valori, al nostro popolo ha compromesso molto la nostra capacità di guida. Allo stesso tempo, il rovescio della medaglia è che le altre democrazie sono una risorsa per il nostro paese, soprattutto quando agiamo insieme. Ma nel momento stesso in cui molti paesi hanno guardato all’America come al leader del mondo libero, abbiamo un presidente che, appoggiando dittatori e insultando i democratici, sembra più simile all’altra parte del mondo. Penso quindi che Joe Biden vorrà rinnovare la democrazia dentro casa e lavorare per rivitalizzare le alleanze con gli altri paesi democratici nel mondo. Vedremo un’America che guida non soltanto seguendo l’esempio del nostro potere, ma con il potere del nostro esempio. E questo comincia con la democrazia. 

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La pandemia e la politica estera 


MM: Ci sono 24 ore in un giorno e le risorse sono un numero finito. In che modo la politica estera viene condizionata dalle crisi che abbiamo internamente?


TB: Dobbiamo affrontare i fatti, in particolare quel gorilla da 350 chili che è il Covid-19. E’ la crisi più grande dalla Seconda guerra mondiale. Sta uccidendo più cittadini americani di quanti morirono nella Prima, e sta uccidendo più americani di quanti ne siano morti in tutti i conflitti dopo la Seconda guerra, compreso l’11 settembre. E c’è una recessione che ha innescato la crisi più profonda dalla Grande depressione. Ci sono milioni di disoccupati, interi settori che stanno andando in rovina. E ci sono altre crisi che possono aggiungersi, ne parlavamo soltanto qualche mese fa: una crisi del debito nei mercati emergenti, una crisi alimentare, un aumento dei flussi migratori, dei disastri umanitari. E poi ancora un maggior protezionismo, un maggior nazionalismo, maggiore xenofobia – tutte queste cose possono ritorcersi contro gli Stati Uniti in moltissimi modi diversi. In questo senso, la pandemia è una crisi di sicurezza nazionale di prim’ordine. Ma credo che per superare anche questo problema sia necessario riaffermare la leadership americana, non scappare via. Guardiamo ad altre crisi che abbiamo avuto in passato: l’Aids, lo choc finanziario del 2008-2009, Ebola. In ognuna di queste situazioni, gli Stati Uniti hanno fatto da guida di una cooperazione e di un coordinamento internazionali. L’Amministrazione Bush, con l’Aids, ha fatto un lavoro straordinario per salvare centinaia di migliaia di vite, forse milioni. L’Amministrazione Obama lo ha fatto con la crisi finanziaria e con Ebola. Ci siamo rivolti al G7, al G20, alle istituzioni finanziarie. Quando è scoppiata questa pandemia, l’America aveva la presidenza del G7. Non abbiamo nemmeno fatto una riunione. E’ stato il presidente francese Macron a convocarla. E il G20 è stato del tutto inefficace in assenza del nostro coinvolgimento. Penso che queste due cose vadano insieme. E l’altro problema è che il mondo non si prende una pausa per via del Covid. Quindi non penso che avremo il lusso di affrontare in sequenza diverse crisi. Dobbiamo camminare e masticare moltissime cicche nello stesso momento: tenere il Covid sotto controllo, gestire le sue ripercussioni e le altre crisi che non sono certo evaporate perché è arrivato il Covid. 

 


L’equilibrio della superpotenza


MM: La forza militare, la diplomazia, la forza economia. Che cosa pensa Biden della salute di questi strumenti e del loro equilibrio?


TB: Direi che l’equilibrio oggi non è buono e che c’è un eccessivo ricorso allo strumento militare e un ricorso deficitario verso la diplomazia. Questo cambierà con la presidenza Biden. Lasciami parlare della cosa che conosco meglio: la diplomazia e il dipartimento di stato. Abbiamo sentito chiacchiere sulla “spavalderia” del dipartimento di stato, ma è più di questo. Sento da molti diplomatici e funzionari del dipartimento che il morale è giù e che ci sono state moltissime fuoriuscite che hanno decimato il nostro organico con più esperienza. E molti non pensano di avere il sostegno del presidente, anzi spesso sono stati direttamente attaccati dal presidente. Ogni cosa è politicizzata dalle liste di lealtà, dagli sforzi per trovare i cosiddetti  traditori del deep state. Come sai, ogni anno si tiene una grande indagine tra i dipendenti. L’ultima nel 2019 ha rilevato che la coercizione politica era in crescita in alcune unità del dipartimento. E c’è un numero che mi ha fatto cascare la mascella: nell’ufficio legale del dipartimento di stato, il 34 per cento delle persone ha detto che la guida del dipartimento non aveva alti livelli di onestà e integrità. Nel 2016, quando alla guida del ministero c’era John Kerry, questa percentuale era uguale a zero. Ho lavorato con moltissimi diplomatici, anche tu lo hai fatto, per quasi 25 anni. E per nessuno di loro saprei dire se era democratico, repubblicano o indipendente o che altro. Posso solo dire che erano e sono grandi professionisti. Penso che con Biden la diplomazia ricomincerà a essere la nostra prima risorsa. 

 


Il cambiamento climatico


TB: Il nostro successo in casa è direttamente legato alla nostra capacità di guidare all’esterno. Quando abbiamo un comportamento virtuoso e otteniamo dei risultati, altri paesi saranno spinti a seguirci. Biden si è impegnato a rientrare nel Trattato di Parigi dal giorno uno, ma poi vuole andare oltre, vuole guidare uno slancio collettivo perché i paesi più grandi alzino le loro ambizioni sui target climatici interni e facciano sì che questi obiettivi siano trasparenti, rispettabili mentre si controlla che nessuno faccia dei giochetti. Il cambiamento climatico sarà integrato completamente nell’elaborazione della nostra politica estera e nelle strategie di sicurezza nazionale, così come il nostro approccio al commercio. Bisogna mettere le questioni domestiche e quelle internazionali assieme se si vogliono dei risultati di successo.

 


“Ok, Tony: la Cina”


TB: Questa è la big one. Tutti noi sappiamo che la Cina pone la sfida più grande di tutte: economicamente, tecnologicamente, militarmente, anche diplomaticamente. E come sai ogni relazione ha aspetti conflittuali, aspetti competitivi, ma anche aspetti cooperativi. Penso che la domanda che dobbiamo farci sia: qual è la strategia più efficace per proteggere la nostra sicurezza, il nostro benessere, i nostri valori quando si tratta della Cina? Biden ti direbbe che intanto dobbiamo metterci in una posizione di forza da cui parlare alla Cina in modo che la nostra relazione si muova più secondo i nostri termini che quelli dei cinesi. Il problema è che oggi la posizione della Cina è molto più forte della nostra, a causa dell’approccio dell’Amministrazione Trump. Questo per dire che molte delle nostre sfide dipendono meno dalla forza della Cina e più dalla debolezza che ci siamo autoinflitti. La sfida riguarda prima di tutto noi. Quindi dobbiamo concentrarci sulla nostra capacità di competere, sulla nostra economia e sui nostri lavoratori, sulla forza del nostro sistema politico, sulla vitalità delle nostre alleanze, sulla capacità di ribadire i nostri valori. Biden si concentrerà soprattutto su questo, su questi investimenti. E questo è il punto di partenza migliore per portare avanti la cooperazione con la Cina sui temi che ci preoccupano entrambi, il cambiamento climatico, la non proliferazione, la salute globale. Per esempio sul commercio: noi produciamo il 25 per cento del pil mondiale, quando i nostri alleati sono con noi, arriviamo al 50-60 per cento. Questo dato è molto difficile da ignorare, per i cinesi. Ci sono anche altre questioni importanti, ma penso che la più rilevante sia tra tecno-democrazie e tecno-autocrazie, come la Cina: le regole, le norme e i valori che stabiliamo faranno una grandissima differenza per tutti gli abitanti del pianeta. Dobbiamo guidare, coordinare e lavorare con le altre tecno-democrazie per evitare che sia la Cina a prevalere. 

 


Sull’Iran


TB: I nostri partner e alleati dicono: ehi, non potete rimettere le sanzioni, non fate più parte dell’accordo. Con Biden, se l’Iran torna a rispettare l’accordo sul nucleare, cosa che non ha più fatto, faremo lo stesso. Ma useremo l’accordo come una piattaforma, lavoreremo con i nostri alleati per rafforzarlo e allungarlo. Il fatto di rimetterci a lavorare con i nostri alleati ci permetterà anche di collaborare per respingere le altre attività di destabilizzazione dell’Iran e faremo in modo che riguardo a queste operazioni, sia l’Iran a essere isolato, non gli Stati Uniti.

 


Le “endless war”


TB: Joe Biden è stato molto chiaro su questo tema: gli schieramenti di grandi e stabili contingenti di forze americane devono finire e finiranno. Sa bene quali sono le condizioni per dispiegare forze americane: devono esserci interessi nazionali vitali in pericolo, o ci deve essere di mezzo un impegno con un alleato stabilito da un trattato. Bisogna avere una strategia chiara e un obiettivo finale chiaro. E dobbiamo avere il consenso dei cittadini americani, idealmente attraverso i loro rappresentati al Congresso. Ma dobbiamo anche saper distinguere tra queste missioni su larga scala e altre più discrete e ridotte, più sostenibili, magari gestite dalle Forze speciali. Queste sono operazioni, e tu lo sai molto bene, che abbiamo valutato e gestito durante l’Amministrazione Obama e che hanno funzionato in Iraq e in Siria per sconfiggere lo Stato islamico. In Siria, nel picco massimo, credo che avessimo duemila soldati, soprattutto delle forze speciali. Hanno messo insieme 60-70mila forze democratiche, tra curdi e arabi, che hanno fatto il lavoro pesante e i combattimenti pesanti contro lo Stato islamico e hanno distrutto il califfato. E’ stata un’operazione intelligente, sostenibile, efficace, forse. Penso che per mettere fine alle guerre senza fine dobbiamo anche stare attenti a non essere troppo vaghi. Ci sono modi, tempi e obiettivi per cui è necessario saper utilizzare la forza, ma in modo molto governato. 

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