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"Un ponte verso il Ventunesimo secolo"

Come ricostruire l'America. Chiacchiere tra ex segretari di stato

La Cina, la Russia, l'istruzione e la politica estera

Luciana Grosso

Così gli Stati Uniti potranno riprendersi un posto centrale nel mondo e anche in casa, per colmare le divisioni della nazione e curare la democrazia come "un esercizio quotidiano". Idee di Madeleine Albright e Colin Powell

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“Costruire un ponte verso il Venutunesimo secolo”. É questa la frase più famosa del secondo discorso di accettazione di Bill Clinton alla nomination democratica. Sembra un secolo fa. Anzi: è un secolo fa. Eppure, oggi, dopo 25 anni, siamo ancora qui a parlare di ponti da costruire. Soprattutto perché, negli ultimi quattro anni, sullo scranno più alto di Washington ha seduto un uomo come Donald Trump, che si è occupato di buttarli giù, i ponti. Così di ponti da ricostruire, di futuro da plasmare e non da subire, di legami e di unità, ha parlato, ancora una volta, intervenendo a una conferenza organizzata dalla Vanderbilt University, quasi trent’anni dopo quel discorso di Bill Clinton, Madeleine Albright, che del secondo mandato Clinton fu Segretario di Stato e, per così dire, Carpentiere in Chief, perché responsabile proprio di quella cruciale delega: costruire un legame tra  il mondo e l’America e tra l’America al mondo. Al fianco di Albright c’era Colin Powell che le successe nel ruolo di Segretario di Stato nella prima amministrazione di George W. Bush e che nel costruire ponti fu volenteroso ma (spiace dirlo) molto più maldestro.

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“Costruire un ponte verso il Venutunesimo secolo”. É questa la frase più famosa del secondo discorso di accettazione di Bill Clinton alla nomination democratica. Sembra un secolo fa. Anzi: è un secolo fa. Eppure, oggi, dopo 25 anni, siamo ancora qui a parlare di ponti da costruire. Soprattutto perché, negli ultimi quattro anni, sullo scranno più alto di Washington ha seduto un uomo come Donald Trump, che si è occupato di buttarli giù, i ponti. Così di ponti da ricostruire, di futuro da plasmare e non da subire, di legami e di unità, ha parlato, ancora una volta, intervenendo a una conferenza organizzata dalla Vanderbilt University, quasi trent’anni dopo quel discorso di Bill Clinton, Madeleine Albright, che del secondo mandato Clinton fu Segretario di Stato e, per così dire, Carpentiere in Chief, perché responsabile proprio di quella cruciale delega: costruire un legame tra  il mondo e l’America e tra l’America al mondo. Al fianco di Albright c’era Colin Powell che le successe nel ruolo di Segretario di Stato nella prima amministrazione di George W. Bush e che nel costruire ponti fu volenteroso ma (spiace dirlo) molto più maldestro.

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I due ex segretari di Stato, diversi per storia, estrazione, approccio, collocazione politica, hanno in realtà molto in comune, a partire dall’aver segnato, ognuno a suo modo, un record (rispettivamente la prima donna e il primo afroamericano a ricoprire una carica così importante) per finire con il modo in cui vedono l’America e il mondo di oggi e dei prossimi anni. Il tema dell’incontro era “La politica estera americana dei prossimi anni”, ma, per come si sono messe le cose negli ultimi tempi era inevitabile che prima di guardare al mondo i due fossero interrogati su quel che pensano del loro paese di oggi. E quel che pensano è che si tratta di un paese “diviso”: e la divisione per due teorici dell’unità, dell’America e del mondo, è la peggiore delle sorti. Divisione non è solo il contrario di unità, è la sua nemesi, la sua negazione. “La divisione è il terreno su cui prospera il fascismo. L’ho scritto in un libro e lo penso – ha detto Albright – Oggi l’America è un paese diviso, in cui fazioni opposte si guardano in cagnesco. In cui gli immigrati sono visti come nemici. E questa è la negazione stessa dello spirito dell'America, un paese che si fonda sull’accoglienza e sull’inclusione. Io stessa sono un’immigrata. Sono arrivata qui 72 anni fa e questo paese mi ha dato una opportunità che la Repubblica ceca e l’Europa degli anni ‘40 mi aveva negato. Questo è il senso dell’America. Questa è la luce dell’America. E oggi questo senso, questa unità, non c’è più. Appaiono come dissolti. Ma – ha continuato – voglio essere molto precisa: le divisioni, le fratture che ci sono oggi, non le ha scavate il presidente Trump. C’erano già. Lui ci è solo fiorito sopra e le ha esacerbate. Se vogliamo, come vogliamo, che questo paese possa avere ancora un futuro luminoso dobbiamo capire cosa c’è in queste fratture, dobbiamo sanare, curarle. Ci sono 70 milioni di persone che hanno votato Trump. E non possiamo limitarci a ignorarli o a sopportarli. Dobbiamo parlarci. Dobbiamo comprenderli. Dobbiamo dare risposte alle loro esigenze e alle loro domande”. La strada non è facile, anzi. Perchè le fratture che separano le persone sono state esarcerbate, recintate da steccati fatti di fake news, teorie del complotto, ostilità e disconoscimento reciproco. “Ma la democrazia funziona così. Io dico una cosa, tu ne dici un’altra e dobbiamo trovare un accordo. Senza urlarci addosso. Senza venire alle mani – ha continuato, concorde, Colin Powell – L’errore peggiore che possiamo fare è pensare che la nostra democrazia possa sopravvivere da sola a tutto questo. Non è vero. La democrazia è un esercizio quotidiano, non una cosa che si guarda succedere e basta. È una cosa che ci si guadagna, ogni giorno”.

 

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Ma questo è il presente.  E Albright e Powell, ognuno a suo modo, sono gente di futuro. E su quello si sono concentrati nella seconda parte dell’incontro alla Vanderbilt, parlandone con un ottimismo forse un po’ naif, che colloca laggiù le soluzioni ai mali di oggi. Che vede, nella luce al led dell’avvenire, il mondo per come lo vorrebbero, per come dovrebbe essere: unito.  “Il covid ha mandato in crisi il modello di un mondo globalizzato solo se lo si intende come un intrico di commerci. Ma la globalizzazione è molto di più. È la visione di un mondo multilaterale, un mondo fatto di paesi che si parlano e che agiscono insieme per sfide comuni. Per questo credo che dire che non sia corretto credere che con il Covid il mondo globalizzato sia finito. C’è tanto da fare, insieme, per esempio sul fronte del cambiamento climatico”. Ma come è possibile, oggi, pensare che Stati Uniti, Russia e Cina possano lavorare insieme?  “La Cina – ha precisato molto convinta di quel che diceva Madeleine Albright – non è un nostro nemico. È un competitor, è un paese emergente la cui forza ci sta mettendo in difficoltà. Ma non è un nostro nemico. Non ci è ostile. Il modo per lavorare insieme va trovato. Del resto l’arte del governo è proprio questa”. Diverso il discorso sulla Russia, paese che ha dimostrato secondo Albright di essere ostile non tanto all’America, quanto alla democrazia in America “La Russia sa che il modo migliore per indebolire le democrazie è quello di isolarle – ha continuato Albright – di indebolirne i rapporti con gli altri paesi e per questo opera: per sfilacciare le alleanze”. Ed è proprio questo che, nel mondo che nel mondo che Albright vorrebbe, va fermato. Impedito. Se le alleanze si rompono, i paesi si indeboliscono, la democrazia è in pericolo. Se le alleanze (e l’unità, di nuovo) reggono, allora tutto si tiene. 

 

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Certo, occorre pensare come possa, l’America male in arnese di questi ultimi quattro anni, riprendersi un posto centrale nel mondo. Occorrerà lavorare parecchio. Partendo da varie cose da fare, il prima possibile. Powell ne cita una, “istruzione”. Albright, invece, ne cita  un’altra, "occorre diffondere l’idea che la foreign policy non è poi tanto foreign, che la politica estera è interna e viceversa”. Sembra che Powell e Albright dicano due cose diverse, ma in realtà,  a ben guardare è la stessa.

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