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Guerra e pace, e ancora guerra

Adriano Sofri

Nello stesso giorno, martedì scorso, si è concluso l’ennesimo conflitto per il Nagorno Karabakh ed è arrivata la notizia di un eccidio in Mozambico. Due fronti che Mario Raffaelli conosce bene per avervi condotto negoziati di pace. E questo è il suo racconto

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Martedì 10 novembre vennero due notizie da luoghi molto distanti. Si era conclusa, con la disfatta militare e la resa dell’Armenia, un’ennesima guerra fra armeni e azeri per il Nagorno Karabakh. Era stato perpetrato, nella provincia di Cabo Delgado, all’estremo nord del Mozambico, l’eccidio di più di 50 civili, anche bambini, decapitati e squartati, e il rapimento di donne, ad opera di una banda islamista. (Su questo secondo episodio sono poi stati sollevati dubbi autorevoli, anche dal vescovo cattolico della diocesi: forse l’attacco aveva avuto una portata minore, forse lo si era confuso con un altro avvenuto, con una simile gravità, nello scorso aprile).

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Martedì 10 novembre vennero due notizie da luoghi molto distanti. Si era conclusa, con la disfatta militare e la resa dell’Armenia, un’ennesima guerra fra armeni e azeri per il Nagorno Karabakh. Era stato perpetrato, nella provincia di Cabo Delgado, all’estremo nord del Mozambico, l’eccidio di più di 50 civili, anche bambini, decapitati e squartati, e il rapimento di donne, ad opera di una banda islamista. (Su questo secondo episodio sono poi stati sollevati dubbi autorevoli, anche dal vescovo cattolico della diocesi: forse l’attacco aveva avuto una portata minore, forse lo si era confuso con un altro avvenuto, con una simile gravità, nello scorso aprile).

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Le due notizie non sembravano in rapporto fra loro, ma mi fecero subito pensare a Mario Raffaelli. Trentino, nato nel 1946, Raffaelli è stato a lungo parlamentare socialista, sottosegretario alla Sanità e poi agli Esteri in diversi governi fino al 1989 e in questa veste o in altre più prettamente diplomatiche ha condotto i negoziati di pace, pressoché contemporanei, nella guerra civile in Mozambico e nella guerra fra Armenia e Azerbaijan. Dunque l’ho interpellato, cominciando dal Mozambico. Raffaelli è stato a capo dei negoziatori per la pace in Mozambico dal giugno 1990, come inviato speciale del governo italiano, fino agli Accordi di pace firmati a Roma il 4 ottobre del ‘92 dai due presidenti, Chissano per il Frelimo e Dhaklama per la Renamo. I sottoscrittori guidavano il governo mozambicano del Frelimo, il Fronte di liberazione nazionale del marxista Samora Machel, protagonista della guerriglia contro il Portogallo coloniale, fino all’indipendenza nel 1975, e la Renamo, Resistenza nazionale mozambicana, guerriglia rivale fondata in quel 1975 col sostegno rhodesiano e sudafricano. “Avevo già avuto rapporti stretti col paese, attraverso Josè Luis Cabaço, che aveva studiato nella facoltà trentina di Sociologia a cavallo del ‘68 e poi era stato ministro dell’Informazione del governo mozambicano; e Marco Battisti, il nipote di Cesare, anche lui sociologo trentino, che ha lavorato per tanti anni in Mozambico, fin dai tempi della guerra di liberazione anticoloniale. Poi avevo frequentato ancora il paese da sottosegretario agli Esteri”. Le prime elezioni mozambicane si tennero nel 1994. Nel 2014 il governo attribuì la cittadinanza onoraria per il ruolo ricoperto nel negoziato di pace a Raffaelli e, per la Comunità di Sant’Egidio, ad Andrea Riccardi e a monsignor Matteo Zuppi, oggi cardinale arcivescovo di Bologna.

 

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Nel 2016 Raffaelli tornò in Mozambico, per sei mesi, in veste di mediatore, questa volta come rappresentante dell’Alto Commissario europeo, Federica Mogherini, dopo che il conflitto riaperto fra il governo e la Renamo aveva provocato centinaia di vittime. “Le elezioni avvenivano regolarmente, e il Frelimo le vinceva, ma la Renamo prevaleva in cinque provincie centrali – sulle 11 in cui il paese è diviso. La Costituzione assegnava al governo centrale la nomina dei governatori provinciali, e il Frelimo non era abbastanza lungimirante da incaricare governatori che esprimessero la maggioranza uscita dal voto. Al nuovo negoziato partecipavano capi di stato africani, personalità illustri internazionali, gli esponenti di Sant’Egidio. La Renamo aveva ancora il vecchio quartier generale a Gorongosa, in cui era insediato il suo capo storico, Afonso Dhaklama. Si arrivò al dialogo diretto fra le parti e a un accordo che prevedeva entro le elezioni del 2019 una riforma costituzionale che riconoscesse alle provincie il diritto di nomina dei governatori. Ma intanto Dhaklama era morto per una crisi del diabete di cui soffriva, nella sua base nella foresta, senza che l’elicottero di soccorso riuscisse ad arrivare in tempo. La sua morte provocò una crisi del partito e una sconfitta elettorale anche nelle provincie centrali. Più libero dall’opposizione, il Frelimo aveva però ceduto sempre più alla corruzione, e un clamoroso scandalo del debito occultato nel 2016 aveva portato a una crisi economica gravissima e alla sospensione degli aiuti internazionali”. Ci torneremo: ora veniamo alla guerra d’Armenia e Azerbaijan.

 

“In Nagorno ho vissuto un’esperienza diversa. Ho presieduto dal ‘92 fino alla fine del ‘93 la Conferenza di pace patrocinata dalla Csce, il nome di allora dell’Osce, cui sarebbe succeduto nel 1992, proprio per la crisi del Nagorno, il Gruppo di Minsk, copresieduto da Usa, Francia e Russia. Sono tornato solo dopo molti anni a Baku nell’inverno del 2018, su invito trasmesso dall’Ambasciata azera per conto del Centro di studi strategici dell’Azerbaijan, diretto da uomini molto vicini al presidente Aliyev. Avrei parlato del ‘92-’93 e delle quattro Risoluzioni del Consiglio sicurezza dell’Onu, basate sulle raccomandazioni inviate da me, che prevedevano il ritiro armeno dai sette distretti occupati fuori dal Nagorno. E avrei riparlato del ricorso al modello sudtirolese-altoatesino per la soluzione del conflitto. Non meravigliarti, non è la trovata di un provinciale: se ne era trattato davvero a quel tempo. Mi colpiva oltretutto l’assonanza del nome del Nagorno Karabakh, che vuol dire il Karabakh montagnoso, o appunto l’Alto Karabakh. Era stata una mia suggestione: fra i due principii che sembravano incompatibili, l’integrità delle frontiere e l’autodeterminazione dei popoli, la soluzione poteva essere quella dell’autonomia garantita da un controllo internazionale. Più che una terza via, l’unicum del Sudtirolo – c’è stata qualche soluzione simile in Groenlandia. Successe una coincidenza singolare: mentre era in corso un’assemblea della Csce, nel giugno 1992, arrivò il presidente austriaco reduce dall’Onu a New York con la ‘quietanza liberatoria’ che regolava definitivamente la questione altoatesina, e il presidente armeno Levon Ter-Petrossian si rivolse a me, che presiedevo la Conferenza di pace, molto impressionato: dunque esisteva davvero un modello altoatesino!

Ci fu un tempo, negli anni di Petrossian, filologo e poeta, primo presidente dell’Armenia nel 1991 e in carica fino al 1999, in cui si poté immaginare anche dalla parte azera – la cui retorica pubblica non recedette mai dai toni revanscisti più esaltati – una disposizione al compromesso, ma i successori di Petrossian sarebbero stati più accesamente nazionalisti. Il Nagorno del resto aveva l’esperienza dell’oblast, il distretto dell’Urss, a farlo diffidare della parola stessa di autonomia. Viaggiai per mesi sul campo, e in Russia, in Georgia, in Iran, visitai più volte anche il Nagorno. Una volta, in viaggio per terra verso la capitale Stepanakert, fidando in una tregua, finimmo sotto il bombardamento e riparammo in una cantina di cemento armato – dopo di allora usammo l’elicottero. Chi legge stenterà a credere che tutto questo finimondo riguarda un territorio, come è il Nagorno, piccolo come una piccola regione italiana, e con una popolazione di nemmeno 150 mila persone. L’Osce opera col consenso, con procedure defatiganti, e intanto la Russia svolgeva more solito un suo negoziato parallelo. Bisognava almeno incanalare un dialogo, e far partecipare, con la formula delle ‘parti interessate’, il Nagorno. Stabilizzare la situazione per passare al negoziato concreto. C’erano grandi discussioni a Villa Madama, poi andavo dai presidenti e a ogni puntata gli armeni del Nagorno avevano conquistato un altro spazio sul campo.

 

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Il primo passo concreto riguardò il corridoio di Lachin, che mette in comunicazione Armenia e Nagorno nel punto più vicino, poi il distretto di Agdam. Ogni volta cambiava la mappa politica con cui avevamo a che fare. Le quattro Risoluzioni del Consiglio di sicurezza furono poi ratificate da due successive assemblee generali e riconfermate, con piccoli aggiustamenti, dall’Osce nel 2011, con i cosiddetti ‘principi di Madrid’, e dal G8 nel summit dell’Aquila. Prevedevano il ritiro armeno delle truppe dai sette distretti occupati e originariamente abitati quasi esclusivamente dagli azeri, con un calendario dell’attuazione, l’insediamento di osservatori (non di peacekeepers), il rientro dei profughi e l’apertura delle frontiere che bloccavano la comunicazione fra l’Armenia, l’Azerbaijan e la Turchia. L’attuazione di quelle Risoluzioni è stata congelata per più di un quarto di secolo, e questo ha impedito l’apertura di un negoziato effettivo. Si parlava di ‘conflitto congelato’. Ma si scongelano anche i ghiacciai, era irresponsabile contare sulla perennità di quello squilibrio. In questo ritorno a Baku, a dicembre di due anni fa, ho visto coi miei occhi quanto la città fosse arricchita, ingigantita. Ho incontrato personalità locali e diplomatici stranieri. Mi sono sorpreso di sentirmi riproporre domande sul modo di uscire dallo stallo. Mi era evidente il mutamento nei rapporti di forza, risultato di petrolio e gas e accumulazione militare: i droni turchi e israeliani esibiti nei giorni scorsi erano stati preceduti da forniture ingenti di armamenti e logistica. Mi parlavano della guerra dei quattro giorni dell’aprile 2016 – un’anticipazione di questa – in cui avevano attaccato e conquistato due posizioni, ma si erano fermati lì, o li aveva fermati la Russia. Sembravano puntare a una ripresa del negoziato, guardavano con interesse alla nomina a primo ministro armeno di Nikol Pashinyan, ritenuto più duttile, il primo non originario del Nagorno dopo due predecessori. Erano solo temi trattati nelle conversazioni con me, in pubblico imperversava la solita retorica revanscista. Mi chiedevo perché mi avessero invitato, certo non per regalarmi un giro turistico. Con Pashinyan ci fu per un anno un linguaggio più misurato, fino all’incontro diretto fra lui e il presidente azero, Ilham Aliyev, a Vienna nel marzo 2019. Fui dunque stupito poi, quando Pashinyan andò in Nagorno a spostare il parlamento a Shusha/Shushi, città simbolo nella quale le tragiche oscillazioni demografiche avevano provocato una maggioranza azera dagli anni 20, cancellata agli inizi dei 90. Ho seguito gli avvenimenti dei giorni scorsi con questa impressione in mente: il vistoso rafforzamento azero, l’incomprensione armena di questo cambiamento del contesto.

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Il conflitto riesploso ha replicato a parti invertite, l’Azerbaijan nella parte che allora era dell’Armenia, quello del ‘92-’94. L’offensiva azera era spinta dalla nuova aggressività della Turchia di Erdogan, e favorita dalla renitenza di Putin. Russia e Armenia sono legate da un Trattato di sicurezza, ma con la condizione che sia il territorio armeno a subire un attacco. Gli azeri si sono guardati dall’offrire questo appiglio, anche quando dall’Armenia si è tentato di provocarne la reazione. E’ incomprensibile come, dopo la Siria, la Libia, il Mediterraneo, gli armeni abbiano sottovalutato il rincaro dell’aggressività esterna in cui si compendia oggi la politica di Erdogan. Anche la memoria del genocidio e l’evocazione della guerra di religione non poteva avere un peso decisivo: il pretestuoso fondamentalismo turco non si applica all’Azerbaijan, che ha un regime autoritario, una dinastia famigliare, ma con una vita pubblica del tutto secolare. Tanto che in Iran, che comprende nel suo territorio un terzo del totale della popolazione azera, i manifestanti che rivendicavano l’appoggio all’Azerbaijan sono stati messi in galera a centinaia. Bada, mi attengo al punto di vista del negoziatore. Ci sono due amare lezioni. La prima: gli armeni del Nagorno, dopo aver dilazionato sine die lo status quo del ‘93, ora si ritrovano in una condizione molto peggiore di quella che avrebbero ottenuto con l’attuazione dell’accordo, e destinata a durare molti anni – cinque più cinque, stabilisce la resa. La seconda, quasi banale nella sua ricorrenza: che l’Europa non ha contato niente e non ci ha nemmeno provato. A parte la Francia, che è storicamente e attualmente filoarmena e antiturca, ma è per questo vista dalla parte azera come un attore pregiudicato. Comunque, la troika di Minsk ha avuto più di vent’anni per prendere un’iniziativa, e non l’ha fatto, tranne sporadici tentativi, di tanto in tanto, abortiti sul nascere. Questa inerzia irresponsabile ha condizionato l’atteggiamento armeno, li ha illusi che convenisse trascinare lo status quo. E ha provocato la frustrazione azera.

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Appena un anno fa un rapporto dell’International Crisis Group aveva riproposto il ‘pacchetto’ che avrebbe dovuto portare al negoziato e avvertito che in mancanza gli azeri avrebbero attaccato sul campo. E’ andata così, con gli Usa in ritirata dal mondo, la Francia considerata unilaterale, la Russia tesa, come ovunque, a conservare un’instabilità sulla quale si fonda il suo arbitrato. Una troika di questo tipo difficilmente poteva produrre risultati. Meglio sarebbe stato avere una presidenza unica e possibilmente neutrale. Come era stata l’Italia. Ma i commenti che vedono nella disfatta armena che ha concluso il conflitto sanguinoso (2.000 morti, migliaia di sfollati) una ennesima vittoria di Putin e un ridimensionamento delle ambizioni di Erdogan, sono fuori bersaglio. La Russia mette in campo i suoi militari in funzione di peacekeeping, ma era fuori discussione che si potessero piazzare in Nagorno militari turchi. La Russia ha contato ancora una volta sul suo vantaggio, la possibilità autarchica di decidere e muovere le sue forze in poche ore, come in Siria, come dovunque: ma ha piuttosto limitato il danno. Non poteva alienarsi petrolio e gas e condotte azere. Ha vinto la Turchia. E torniamo al Mozambico. Che ha ufficialmente una larga componente cristiana, minoranze atee o animiste, e una minoranza del 18 per cento di musulmani – che però raggiungono il 60 per cento a Cabo Delgado, con una tradizione di islam sufi.

 

Fino a qualche anno fa non esistevano jihadisti, e i capi del paese escludevano che potessero esistere. Io avevo dalla mia l’esperienza più importante, i sei anni trascorsi come inviato speciale del governo italiano in Somalia – ne parleremo un’altra volta. Il fatto è che le cose si ripetono tal quali, cambiano solo i personaggi che devono affrontarle e lo fanno come se fosse la prima volta. Nel 2016, dal giugno al dicembre, trascorsi tre settimane al mese in Mozambico. Raccontavo loro del Corno d’Africa, del jihad che stava scendendo fino lì, giù dal Kenya, la Tanzania, e congiungendosi con rivoli che venivano dall’Uganda, dal Congo. Non che fossero emissari diretti delle bande somale: la gente li chiama al-Shabab, che vuol dire semplicemente la gioventù, loro si chiamano Al Sunna Wa-Jama, la Sunna Swahili. Ma crescevano allo stesso modo, come in Somalia, come Boko Haram. Gli interlocutori mozambicani mi guardavano increduli. Il Kenya era stato a lungo intatto dagli attacchi degli Shabab somali, anche per i milioni di somali che ci vivono, nella parte nord-orientale (una delle cinque punte della stella nella bandiera somala), il mezzo milione di Nairobi e le altre centinaia di migliaia del campo profughi di Dadaab.

 

Quando gli attacchi cominciarono, la risposta fu come sempre solo militare e indiscriminata, con lo strascico di torture e stupri contro la popolazione musulmana della costa. E la discesa continuò fino a Cabo Delgado, la punta settentrionale del Mozambico, dove la predicazione e il terrore islamista sono ancora rudimentali, ma si congiungono con una rete criminale di traffico di avorio, di eroina, di legname e specialmente di rubini, di cui la provincia è ricca, con la polizia complice, e con un analfabetismo e una disoccupazione giovanile spaventosa. La risposta è solo repressiva, Amnesty denuncia decapitazioni, torture e vendette sulla popolazione, e riparte il circuito vizioso. A Capo Delgado si sono scoperti enormi giacimenti di gas che già impegnano la ExxonMobil, la Total, Anadarco e altre compagnie, recintati e guardati a vista da centinaia di guardie armate, e guardati a vista anche dai diseredati. Messi a confronto con la miseria circostante, nutrono frustrazione e ribellione. Ancora cinque anni fa il Mozambico era il paese della convivenza religiosa. Il Frelimo si era fondato fin dalla guerra di liberazione antiportoghese sull’alleanza fra le etnie del sud (la capitale Maputo è all’estremo sud, sull’Oceano Indiano, a 3 mila km dalla provincia di Cabo Delgado) e l’etnia forte di Cabo Delgado, i Makonde, popolo di scultori. La Renamo, nelle provincie centrali, era dunque tagliata fuori dal sud e da una porzione del nord. Nel 2015 giovani militanti sunniti di Cabo Delgado, quasi tutti dell’etnia emarginata, Mwani, la seconda per numero, condussero attacchi dissacranti contro le sedi governative e le moschee, invadendole con le scarpe ai piedi e i coltelli in mostra.

 

Il primo attacco militare avvenne nell’ottobre del 2017. Presto coltelli e machete furono sostituiti da armi più sofisticate, arrivarono personaggi esterni, al reclutamento religioso si accompagnarono i soldi. Ora siamo arrivati a 2-3 mila morti, e mezzo milione di sfollati. Nel giugno 2019 la propaganda dell’Isis si era appropriata delle gesta locali e le aveva annoverate nel supposto Emirato dell’Africa Centrale. Oggi i ‘guerriglieri’ possono essere fra i 1.000 e i 1.500, ma a fronteggiarli c’è una debole forza armata del governo, che si è rivolto ai mercenari russi del Wagner Group, quello del presunto cuoco di Putin, intervenuti con un corredo di elicotteri e un prezzo di alcuni morti, poi mercenari sudafricani del Dyck Advisory Group, anche loro con gli elicotteri. Si va concludendo un accordo con Congo Rdc, Uganda e Tanzania, una replica in sedicesimo della guerra globale al terrorismo, e della sua inadeguatezza”.

 

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