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Cosa unisce Trump a Chávez e Maduro? Intervista a Moisés Naim

Maurizio Stefanini

Il giornalista ci racconta il voto ispanico, dove andranno gli orfani del trumpismo e perché la democrazia americana si salverà

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Direttore della rivista Foreign Policy dal 1996 al 2010 dopo essere stato ministro in Venezuela e in seguito regista e presentatore di un programma tv che si chiama Efecto Naím e che è visto in tutta l’America Latina, premio Ortega y Gasset, considerato tra i 100 pensatori più influenti al mondo, Moisés Naím è un personaggio perfettamente a cavallo tra mondo anglofono e mondo ispanofono, ma come radici familiari è un ebreo libico italianizzato, e parla un eccellente italiano. Riprendendo uno spot fatto dai democratici nel 2016, Naím aveva definito Trump “la cosa più simile a Chávez che potesse essere prodotta dagli Stati Uniti”. “Assolutamente”. Ci ribadisce ora. “Un personaggio caratterizzato dalla trasgressione e dal disprezzo per lo stato di diritto, le regole e le norme della democrazia. Dall’attacco feroce e assoluto contro tutti i pesi e contrappesi. Dagli attacchi alla stampa. Dalla militarizzazione”. Rileggiamo allora in controluce il modo in cui Maduro reagì alla sconfitta alle politiche del 2015. Prima nominò in modo irregolare un nuovo Tribunale Supremo di Giustizia, poi denunciò brogli, poi fece annullare i quattro seggi dell’Amazzonia, e infine approfittò della protesta dell’Assemblea nazionale per farla dichiarare “in disobbedienza” e toglierle i poteri. Che ha fatto ora Trump? Prima una nomina contestata alla Corte Suprema. Poi ha denunciato brogli. Poi ha fatto intervenire l’Attorney General, William Barr. Adesso sta cercando di far annullare risultati in vari stati.

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Direttore della rivista Foreign Policy dal 1996 al 2010 dopo essere stato ministro in Venezuela e in seguito regista e presentatore di un programma tv che si chiama Efecto Naím e che è visto in tutta l’America Latina, premio Ortega y Gasset, considerato tra i 100 pensatori più influenti al mondo, Moisés Naím è un personaggio perfettamente a cavallo tra mondo anglofono e mondo ispanofono, ma come radici familiari è un ebreo libico italianizzato, e parla un eccellente italiano. Riprendendo uno spot fatto dai democratici nel 2016, Naím aveva definito Trump “la cosa più simile a Chávez che potesse essere prodotta dagli Stati Uniti”. “Assolutamente”. Ci ribadisce ora. “Un personaggio caratterizzato dalla trasgressione e dal disprezzo per lo stato di diritto, le regole e le norme della democrazia. Dall’attacco feroce e assoluto contro tutti i pesi e contrappesi. Dagli attacchi alla stampa. Dalla militarizzazione”. Rileggiamo allora in controluce il modo in cui Maduro reagì alla sconfitta alle politiche del 2015. Prima nominò in modo irregolare un nuovo Tribunale Supremo di Giustizia, poi denunciò brogli, poi fece annullare i quattro seggi dell’Amazzonia, e infine approfittò della protesta dell’Assemblea nazionale per farla dichiarare “in disobbedienza” e toglierle i poteri. Che ha fatto ora Trump? Prima una nomina contestata alla Corte Suprema. Poi ha denunciato brogli. Poi ha fatto intervenire l’Attorney General, William Barr. Adesso sta cercando di far annullare risultati in vari stati.

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Riuscirà a trovare il modo di restare alla Casa Bianca anche dopo il 20 gennaio? “Effettivamente c’è una coincidenza di comportamenti impressionante. L’unica ma fondamentale differenza è che Chávez e Maduro rispetto al sistema di potere venezuelano hanno avuto un controllo molto più forte di quanto Trump non potrà mai avere su quello degli Stati Uniti. La Corte Suprema ha sì un orientamento a favore del Partito repubblicano, ma non è un esecutore servile di ordini del presidente come il Tsj. E nel Partito repubblicano ci sono dissensi importanti. Sono a conoscenza di colloqui segreti di membri del Congresso con le loro controparti democratiche e con i rappresentanti di Biden. Hanno già deciso di abbandonare la nave che affonda. Stanno solo ragionando su tempi e modi”. Ma ce la farà Biden ad insediarsi per la data prevista? “Nessuno in realtà lo sa veramente, ma sarebbe molto strano se non avvenisse. Trump per conto suo non riconoscerà mai la sconfitta. Scommetto che nei prossimi anni lo vedremo continuare a dire che è il legittimo presidente degli Stati Uniti ma che gli hanno rubato le elezioni”. Trump, Chávez o Maduro degli Stati Uniti, è riuscito a vincere in Florida e a sfondare tra gli ispanici col dipingere Biden come un socialista pronto a trasformare gli Stati Uniti in un nuovo Venezuela.

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Malgrado tutta la retorica anti ispanica con cui era stato eletto, “in Florida ci sono molti oriundi cubani e venezuelani i cui paesi sono stati distrutti dal socialismo, e che sono stati convinti facilmente dal pericolo Biden. Però credo che sia sbagliato dipingere gli ispanici come un monolite compatto. In realtà sono una categoria estremamente eterogenea. Un ispanico del sud del Texas ha agenda, necessità, frustrazioni differenti da quelle dei discendenti dell’esilio cubano oggi a Miami, dei dominicani di Paterson in New Jersey o dei centroamericani della California. Se in Florida ha funzionato il richiamo anti socialista, nel sud-ovest sono fortissimi tra gli ispanici gruppi evangelici che appoggiano Trump sul no all’aborto. Alla frontiera sono preoccupati del tema migratorio. E non mancano ispanici di classe media e alta contenti per i tagli alle tasse voluti da Trump”. Si dice che quei tagli alle tasse siano stati alla base di una importante ripresa della occupazione, purtroppo annullata dalla pandemia. E’ vero? “Indubbiamente hanno reso l’economia più dinamica. Ma la ripresa dell’occupazione viene dai tempi di Obama. Il punto più importante del programma economico di Trump, però, era il ritorno negli Stati Uniti di una forza manifatturiera che era stata delocalizzata. E ciò non è riuscito. Anzi, le guerre commerciali con la Cina hanno creato danni gravi ad alcuni stati agricoli che vi esportavano. Neanche è stata mantenuta la promessa di un grande investimento per ammodernare una rete di infrastrutture ormai obsoleta, e di cui effettivamente gli Stati Uniti avrebbero un grande bisogno”.

 

Tra i presidenti che non hanno ancora fatto le congratulazioni a Biden ci sono il brasiliano Bolsonaro e il messicano López Obrador. “Dichiararsi il Trump tropicale non è che abbia portato molti vantaggi a Bolsonaro. Trump ha fatto una guerra dei dazi anche contro di lui. Con il Messico e il Canada Trump ha firmato un nuovo trattato al posto del Nafta, con poche differenze ma che ha permesso a Trump di dire che ha mantenuto la promessa di togliere il Nafta”. Anche Xi Jinping non ha mandato congratulazioni a Biden. “La Cina con Trump ha continuato un processo di espansione in tutti i campi, anche nello storico ‘cortile di casa’ latino-americano. La sfida tra Cina e Stati Uniti era iniziata da prima ed è destinata a continuare, ma Trump l’ha gestita molto male”. I fan di Trump lo esaltano come il presidente che non ha lanciato bombe né fatto guerre, “una delle caratteristiche della politica internazionale di Trump è che si è ritirato da spazi che gli Stati Uniti controllavano, e come sappiamo nel mondo non sono ammessi vuoti. Qualcun altro li riempie. In molti casi non tirare bombe è giusto, ma nel complesso la strategia di Trump non è sostenibile. In Siria ha abbandonato i curdi senza protezione di fronte ad Assad e Erdoğan, e Putin ha approfittato di questi quattro anni per accrescere la penetrazione russa in medio oriente a dismisura”. L’immagine di Biden, però, è di uno che non è stato votato per proprie doti, ma solo per fermare Trump: “Non non state elezioni normali. La gente ha votato contro il candidato che rappresentava una grave minaccia per la democrazia”.

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