dall'archivio

La strage di Nassirya, diciotto anni dopo

Erano le 10,40 del 12 novembre del 2003 a Nassirya quando un camion cisterna pieno di esplosivo scoppiò davanti all'ingresso della base MSU italiana dei carabinieri uccidendo 28 persone

Erano le 10,40 del 12 novembre del 2003 a Nassirya - le 08,40 in Italia - quando un camion cisterna pieno di esplosivo scoppiò davanti all'ingresso della base MSU italiana dei carabinieri. L'esplosione provocò successivamente quella del deposito munizioni della base e provocò la morte di 28 persone. 19 erano italiani: 12 carabinieri, 5 militari e 2 civili, un cooperatore internazionale e un regista che si trovava sul luogo per girare uno sceneggiato sulla ricostruzione a Nassiriya da parte dei soldati italiani. I feriti furono 58.

 

Il 13 novembre il Foglio raccontò così l'attentato.

 

 

"Perché proprio i carabinieri? Il loro quartier generale, contro al quale ieri si sono andati a schiantare un camion e un’auto bomba provocando la morte di almeno 17 italiani e otto iracheni, si trova (come altre quattro basi italiane) nel centro di Nassiryah dove l’esposizione agli attentati è certo maggiore che nelle basi campali nonostante le imponenti misure di sicurezza che erano state prese dall’Arma e che includevano “muri” di ghiaia e cemento a protezione del cancello d’ingresso.

  

I carabinieri sono inevitabilmente un bersaglio prioritario per i terroristi. Svolgono attività di controllo del territorio, antisommossa, prevenzione e antiterrorismo e soprattutto si occupano di arruolare, riorganizzare e addestrare la nuova polizia irachena. Nelle ultime settimane sono proprio gli iracheni delle forze di polizia a essere indicati dalla guerriglia come collaborazionisti e a essere al centro degli attacchi del terrorismo. Altra attività dell’Arma dei carabinieri, accanto alla lotta contro la criminalità e le azioni antisommossa, è il lavoro di intelligence e di controllo della sicurezza. La maggior parte dei carabinieri in Iraq fa parte della Seconda Brigata Mobile, costituita per far fronte alle operazioni all’estero e composta da veterani delle operazioni nei Balcani e in Somalia. Questi compiti hanno contribuito a rendere i carabinieri italiani un bersaglio ideale per i gruppi terroristici.

   

Finora la zona di Nassiryah non era stata presa di mira, anche perché area a prevalenza sciita, quindi poco incline a rimpiangere Saddam Hussein, anche se proprio i carabinieri avevano sostenuto il primo scontro a fuoco del contingente italiano, nell’agosto scorso, con una banda di malavitosi. L’attacco di ieri potrebbe non essere opera dei gruppi fedeli all’ex rais ma pare un tipico attentato dei gruppi estremisti islamici legati ad al Qaida, condotto con la stessa tecnica impiegata per distruggere la sede dell’Onu a Baghdad e utilizzata per la prima volta da Hezbollah in Libano negli anni Ottanta per devastare i comandi statunitense e francese delle forze di pace.

 

L’intelligence britannico da Bassora aveva segnalato già nei mesi scorsi l’infiltrazione di terroristi dai confini iraniani, mentre a Sud del settore italiano, dall’Arabia Saudita, si è avuta notizia dell’ingresso di militanti wahabiti in territorio iracheno alcuni dei quali recentemente intercettati con carichi di armi ed esplosivi dalle guardie di frontiera di Riad. Inoltre, secondo l’agenzia di stampa AdnKronos, un doppio allarme rosso, che avvertiva della minaccia di attentati contro obiettivi italiani a Nassiryah, sarebbe arrivato durante la notte precedente all’attentato dall’intelligence militare italiano, il Sismi, e persino dalla Cia.

 

I sospetti e gli infiltrati

La minaccia del terrore si sta allargando, da Baghdad gli attacchi si stanno espandendo anche in altre zone del paese, soprattutto dopo l’ultima risoluzione delle Nazioni Unite che ha internazionalizzato la questione irachena. Da allora sono stati colpiti non soltanto gli americani e i britannici, ma anche i polacchi, gli ucraini, perfino la Croce Rossa internazionale, e oggi i Carabinieri italiani, con un tragico bilancio. Obiettivo dei terroristi sembra essere chiaro: indurre gli organismi internazionali e i paesi alleati che sostengono gli anglo-americani a lasciare l’Iraq. Ci sono già i primi effetti. Portogallo e Bangladesh, hanno rinunciato a inviare i propri contingenti a seguito degli ultimi attentati, la Corea del Sud ha preso tempo mentre Onu e Croce Rossa hanno abbandonato Baghdad.

 

Lo stesso attentato contro la base dei carabinieri conferma la presenza di cellule attive ben al di là del “triangolo sunnita” capaci di organizzare e condurre azioni su vasta scala. Un attentato del genere non può essere organizzato in breve tempo ed è stato certamente pianificato a lungo e in dettaglio. Un’ipotesi probabile è che a sostegno dei terroristi abbia giocato anche qualche infiltrato, come quelli che sono stati smascherati nei comandi militari statunitensi a Baghdad dopo gli ultimi attentati. Molti abitanti di Nassiryah lavorano a stretto contatto con i carabinieri e con il contingente italiano (poliziotti, interpreti, maestranze, eccetera) e dunque conoscono bene le basi dei nostri militari.".

  


 

Sempre il 13 novembre pubblicammo questo editoriale per commentare quanto era successo.

 

Questa storia di dolore e di lutto comincia in un altro paese, gli Stati Uniti d’America, e in un’altra data che è l’11 settembre del 2001. Se l’Italia è di nuovo in guerra è perché una guerra è stata dichiarata al mondo di cui l’Italia fa parte. Un mondo che applica il massimo grado possibile di libertà agli uomini, alle donne, ai bambini, considerati cittadini portatori di diritti. Un mondo che ama la vita nella pace e che è invaso dal fanatismo di chi invece idolatra, proclamandolo apertamente, la morte più della vita. Molti hanno voltato la faccia dall’altra parte. Hanno pensato che un compromesso, una disattenzione strategica, una fuga potessero risparmiarci problemi. Molti hanno pensato che sulle montagne dell’Afghanistan o nel deserto iracheno ci dovessero eventualmente andare altri, un qualche sceriffo globale che ci lasciasse qui, nella dolce e vecchia Europa, a godere dei vantaggi gratuiti di una sicurezza che non siamo abituati a pagare. Ma non era e non è possibile. La non belligeranza è un consolante mito costituzionale, il ripudio della guerra è un modello di comportamento che non regge alla prova della sicurezza minacciata, alla sfida del terrorismo mondiale. Non è retorica, è politica.

 

La carneficina di Nassiryah era purtroppo prevedibile, e l’avevamo prevista. Il mondo non è più quello in cui i soldati italiani possono scorrazzare tranquilli, con le loro mascotte, con la consolante presunzione che i caratteri nazionali, non guerreschi, possono sempre prevalere e affermare un ruolo italiano di serenità e compromesso anche nelle situazioni in cui si fa più losca e tetra la violenza contro le persone e le cose. Non è più così. Questi, che i giornalisti pigri chiamano “resistenza”, sono banditi che bombardano prima le torri del libero commercio, poi l’Onu e la Croce Rossa e le ambasciate, sono fanatici al soldo di un regime di morte da cui gli angloamericani hanno liberato il mondo, sono i guastatori pieni di soldi e di armi che ancora non si è riusciti a scovare e ad annientare. Sono tipi che non si fermano di fronte a niente, perché il Niente travestito da ortodossia religiosa, il niente che tradisce i principi di bellezza e di pace di ogni religione, è la sostanza della loro vita devota alla morte.

 

Si è discusso della morte della patria, nei tempi trascorsi. Chissà chi ha ragione. Ma se la parola ha un senso, è patriottico oggi esprimere un vero sentimento di cordoglio (e anche di orgoglio) nei confronti delle vite spezzate dall’auto- bomba che nel sud dell’Iraq ha preso di mira gente come noi, che parla la nostra lingua, condivide il nostro paesaggio esteriore e interiore, ha i nostri stessi difetti e pregi, ed è morta sulla frontiera più difficile di questo nuovo secolo: quella della battaglia di una antica civiltà contro una nuova barbarie. 

 

L’Italia poteva forse cavarsela per qualche tempo, poteva rinviare l’assunzione di responsabilità, poteva fare finta di niente, ma si è comportata altrimenti. Sia quando ha contribuito alla liberazione del Kosovo dai suoi aguzzini sia quando restituì il Kuwait alla sua indipendenza sia quando si è impegnata nella missione militare di pace dopo la guerra angloamericana contro Saddam Hussein e il suo clan del terrore e della tortura.

 

Il fronte interno

Bisogna resistere alla tentazione di dividerci, ma è una resistenza già sconfitta in partenza in un paese che ha smarrito una solida coscienza di sé per complicate ragioni che riguardano la sua identità e la sua cultura. Delle reazioni faziose e dei toni belluini usati nelle ore in cui era ancora caldo, rovente, il dolore per la strage di soldati italiani, parliamo qui sotto. Ma non importa quell’aria ferina che assume la politica italiana quando dà il peggio di sé. Importa invece che le persone serie, gli italiani che non si sono mangiati il cervello con atto supremo di autofagia ideologica, trovino il modo di parlarsi, e di parlarsi in queste ore con un linguaggio di franchezza e di sincerità che la gente comune chiede loro. Sarà imperdonabile qualunque disattenzione. L’Italia è lì per la pace, è andata lì per testimoniare il suo contributo orgoglioso e fiero ad alleati di cui si fida e che sono stati decisivi per la riconquista della libertà e della pace nell’Europa degli ultimi cinquant’anni. L’Italia è lì e, come ha detto Silvio Berlusconi, come dicono tutti coloro che hanno un minimo comune denominatore nazionale, non si lascerà intimidire dalle iene del deserto. Il timbro dell’Onu oggi, come tutti sanno, c’è. Ma l’Italia ha saputo assumersi le sue responsabilità anche quando quel timbro non c’era. E ha fatto bene, perché libertà e sicurezza si stringono in una sola catena e non riguardano soltanto i bus di Gerusalemme, le torri americane, le camere di tortura irachene o talebane, riguardano bensì tutti noi, il nostro modo di vita, le nostre scelte fondamentali. Obiettabili, reversibili come tutto nella storia umana, ma degne di essere difese nel mondo contemporaneo.

 

La difesa vera, quella armata, la esercitano gli italiani in divisa che cadono sotto i colpi dei banditi di Saddam. Ma la difesa di retrovia è altrettanto importante. E’ una difesa civile che si esercita con il linguaggio della politica responsabile, nel mestiere responsabile di informare e promuovere la discussione, è una difesa civile che ha bisogno della pulizia e dell’onestà intellettuale, le vere basi di ogni moralità. Non siamo in Iraq per il petrolio o per gli appalti, siamo lì per difenderci in una guerra che ci è stata dichiarata, e per confermare che siamo quel che siamo: uomini e donne liberi.

   


 

Due giorni dopo la strage pubblicammo un articolo, raccogliendo quanto era stato scritto dai quotidiani in quei giorni, nel quale si trattava un argomento ancora attuale: "L’estremismo islamico chiede all’occidente quanto è disposto a pagare per difendere la democrazia".

 

C’è da rispondere a un nuovo sondaggio. Dopo Eurobarometro, adesso sono i terroristi a chiedere l’opinione dell’Italia e dell’Europa, oltre a quella di ebrei e americani. Lo stillicidio di morti americane e britanniche in Iraq, la strage di Nassiryah e l’attentato alle sinagoghe di Istanbul sono le domande dell’islamismo radicale all’occidente. Quanto siete disposti a pagare per proteggere libertà e democrazia? Quanto per l’appoggio a Israele?

 

«La guerriglia terroristica dei difensori di Saddam sta scompaginando il programma politico- militare finalizzato alla ricostruzione del’Iraq. [...] La genesi di questo particolare modo di combattere può essere considerata la resistenza che nel 1808 gli spagnoli opposero alle truppe francesi al comando di Napoleone. Si trattò dell’azione irregolare e perfino disordinata e anarchica di gruppi e di bande che, ben conoscendo il territorio e ben mimetizzati tra la popolazione, si opposero ad un esercito regolare, addestrato e tecnologicamente potente. Da allora la guerrilla degli spagnoli, e successivamente la “petite guerre” dei francesi o la “kleiner krieg” dei tedeschi, significò una tecnica militare irregolare, estrema, che si serve di ogni mezzo per raggiungere il fine».

Russi, “Il Messaggero” 13/11/2003;

 

Alcuni mesi fa gli analisti della Kroll avevano tracciato tre possibili scenari per l’evoluzione della situazione irachena. Jules Kroll: «Uno, giudicato molto improbabile, prevedeva una rapida stabilizzazione con l’avvento di un governo ad alto tasso di democrazia. Poi si citava la possibilità di un “wobbly landing”, un atterraggio instabile, con progressi lenti e incerti verso la pace. Infine, la stessa percentuale in termini di probabilità veniva attribuita allo scenario catastrofico, con un aumento vertiginoso di crimini e violenza e un coinvolgimento sempre più rapido e sanguinoso delle truppe americane. Proprio quello che sta succedendo in queste settimane».

Vittorio Malagutti. “Corriere della Sera” 15/11/2003

 

Terrorismo, guerriglia, resistenza. Paolo Mieli: «Per la situazione a cui stiamo facendo riferimento potrebbero essere considerati tre sinonimi intercambiabili. [...] Ma deve esserci un motivo se una parte di coloro che, come me, furono contrari all’intervento in Iraq, preferisce - a differenza di me - definire “guerriglia” (è il caso di Rossana Rossanda sul “manifesto”) o “resistenza” (come è già nel titolo di un articolo a firma Giancarlo Lannutti su “Liberazione”) le ostilità in armi che dai primi di aprile, quando terminò la guerra ufficiale, continuano ad insanguinare la terra mesopotamica. E qual è questo motivo? Lo ha spiegato sul “Giorno”, con la consueta franchezza, Massimo Fini: ciò che ha prodotto la strage di Nassiryah, a suo avviso, è qualcosa di simile alla forma di lotta “che è sempre stata praticata da movimenti indipendentisti, noi italiani compresi quando eravamo occupati dai tedeschi”».

Paolo Mieli, “Corriere della Sera” 14/11/2003

 

«Dai tempi dell’impero romano è la prima volta che una superpotenza occupante viene assediata dagli occupati» (Ghassan Tueni, ex ambasciatore libanese all’Onu).

Antonio Ferrari, “Corriere della Sera” 14/11/2003 

 

In Iraq c’è una «tempesta perfetta» basata su denaro, kamikaze, armi. Marvin Cetron, consulente del Pentagono e dell’Fbi: «Anche se non possiamo escludere un coinvolgimento di Al Qaida ritengo che, nella caccia ai responsabili, dobbiamo guardare i termini più ampi: l’Onu, la Croce Rossa e adesso l’Italia sono colpiti perchè considerati “nemici dell’Islam”».

Guido Olimpio, “Corriere della Sera” 13/11/2003

 

Stiamo vivendo i prodromi dello «scontro di civiltà» annunciato da Samuel Huntington? Igor Man: «I fedayn di Saddam (o chi per loro), gli “afghani” rimasti disoccupati dopo lo sporco lavoro fatto in casa propria e successivamente emigrati in Algeria per esercitare l’unico mestiere di cui son capaci: assassinare, sono ora attratti dall’Iraq come la limatura di ferro da una calamita. Chi non è con loro è contro. Chi non pratica la sharia è un infedele; la nazionalità non conta, essere italiani o yankee non fa differenza. Tutti infedeli e quindi nemici. Il seme terribile sparso da Osama comincia a dare i suoi frutti: quella annunciata dallo Sceicco della Morte comincia a profilarsi come una sorta di anticrociata postmoderna».

Igor Man, “La Stampa” 13/11/2003

  

Chi minaccia i carabinieri? «I terroristi di Al Qaida che si infiltrano in Iraq dall’Arabia Saudita, quattro importanti latitanti del vecchio regime di Saddam nascosti nella zona di Nassiryah ed i miliziani sciiti estremisti sono le minacce, non più potenziali, al nostro contingente. Fin dall’inizio della missione Antica Babilonia, l’intelligence dei carabinieri aveva registrato un costante flusso di contrabbando dalla vicina Arabia Saudita. Assieme alla merce per il mercato nero si spostano cellule di terroristi legate a Al Qaida.L’appoggio in Iraq arriva dalla potente setta wahabita, che ha le sue roccaforti nelle cittadini di Ar Ramadi e Fallujah, epicentro della guerriglia irachena. [...] Ormai si calcola che i mliliziani antiamericani, concentrati soprattutto nel triangolo sunnita a nord di Baghdad, contino su 4-5 mila uomini, un migliaio dei quali di provenienza straniera».

Fausto Biloslavo, “il Giornale” 14/11/2003

 

Il 15 maggio Bremer annunciò il completo smembramento dell’esercito iracheno (400mila uomini) e la rimozione dall’incarico di 50mila membri del partito baathista. David Rieff: «Come ha commentato in privato un funzionario Usa: “In quella settimana ci facemmo 450.000 nemici in territorio iracheno”. La decisione - che a detta di numerose fonti fu presa dalla Casa Bianca - si rivelò disastrosa. In un paese come l’Iraq in cui un nucleo familiare è composto in media da sei individui, licenziare 450.000 persone significa lasciare privi di reddito 2.700.000 individui, in altre parole più del 10 per cento dei 23 milioni che costituiscono la popolazione irachena».

David Rieff, “la Repubblica/New York Times” 13/11/2003, traduzione di Emilia Benghi

  

Emma Bonino: «C’è stata l’illusione di esaurire lo scontro sul piano militare, non capendo che così si fa la guerra tra due Paesi mentre invece il terrorismo è uno scontro anche politico e di potere: c’è stata una totale sottovalutazione».

Gianna Fregonara, “Corriere della Sera” 14/11/2003

 

I cannoni hanno rovesciato l’equilibrio tradizionale di una società. Khaled Fouad Allam: «Tutt’a un tratto le tradizionali élite sunnite, quelle che per secoli avevano definito culturalmente questo angolo del mondo, si trovano ai margini della storia, e vi rimarranno. La prima conseguenza della guerra sarà infatti l’introduzione del voto maggioritario, poiché è in nome della democrazia che questa guerra si è fatta: essendo gli sciiti maggioranza nel paese, per la prima volta nella storia saranno soprattutto loro ad accedere al potere».

Khaled Fouad Allam, “la Repubblica” 13/11/2003 

  

Il risultato è l’alleanza fra radicalismo islamico e nazionalisti arabi per impedire l’ascesa al potere degli sciiti. Allam: «E se è stata attaccata Nassiryah, e con essa l’esercito italiano, è proprio perché questa è una città a maggioranza sciita, e l’esercito italiano aveva iniziato ad avviare rapporti privilegiati con la popolazione sciita».

Lucio Caracciolo, “la Repubblica” 14/11/2003

 

È in corso una guerra di musulmani contro musulmani. Emma Bonino: «Non facciamo l’errore di pensare che i terroristi vogliano far cadere il presidente americano, per quello fortunatamente ci sono le elezioni. Lo scontro è in tutta la regione del Golfo, in Arabia Saudita e nel mondo arabo».

Gianna Fregonara, “Corriere della Sera” 14/11/2003

 

Stanco dell’inconcludenza dello pseudogoverno provvisorio, Bush sta cercando un Karzai iracheno. Caracciolo: «Se il primo è oggi ridotto a “sindaco di Kabul”, è probabile che il suo omologo iracheno stenterebbe persino ad affermarsi come “sindaco di Baghdad”. A questo punto dobbiamo chiederci tutti - noi italiani compresi - se si può ancora vincere. La risposta è sì. Né gli insorti iracheni né i terroristi islamici sono onnipotenti. Le loro risorse, anche finanziarie, non sono illimitate. Prima o poi la gente comune, persino a Baghdad e nel famigerato Triangolo, potrebbe rendersi conto che se l’occupazione è umiliante e spesso miope, la guerriglia permanente non ha sbocco».

 

 

À la guerre comme à la guerre. Piero Ostellino: «L’auspicio che nel processo di stabilizzazione dell’Iraq sia coinvolto un numero sempre maggiore di Stati è corretto, ma irrealistico e suona un po’ ipocrita - mal comune, mezza consolazione per ciò che potrebbe ancora malauguratamente accadere - a giustificazione del sostegno dato alla presenza del nostro contingente. Il richiamo all’Onu - come a una sorta di Tribunale di conciliazione etico-politica, che tutti mette d’accordo, compresi i terroristi (i quali ne hanno fatto saltare in aria la sede di Baghdad) - è un’illusione truccata da politica. La sollecitazione a accelerare il trasferimento dei poteri dall’autorità militare agli iracheni, sapendo benissimo che essi non riuscirebbero, da soli, a reggere l’urto del terrorismo, è un modo per non ammettere che, comunque, la coalizione dovrebbe pur sempre restare, e a lungo, nel Paese. La verità, che nessuno (neppure Bush) ha il coraggio di dire, è che la crisi la si risolve solo con il completo controllo del territorio, cioè con la presenza di un numero maggiore di truppe. À la guerre comme à la guerre. E “chi ci sta, ci sta”».

Piero Ostellino, “Corriere della Sera” 15/11/2003

 

A sottolineare che l’Iraq non è il centro del mondo terrorista, sabato è arrivato puntuale un nuovo attentato anti-ebraico a Istanbul. Intorno alle otto e trenta del mattino, un gruppo di giovani ebrei turchi stava partecipando a una funzione religiosa nella grande sinagoga Neve Shalom (Oasi di pace), in una strada ancora tranquilla vicino alla torre genovese di Galata, quando un camioncino rosso s’è avvicinato all’entrata e è esploso. La scena dopo l’attentato: la facciata dell’edificio è crollata, sangue per terra e sui muri, vetri infranti sparati a centinaia di metri. Quasi contemporaneamente, a due chilometri e mezzo di distanza: nella sinagoga di Beth Israel (nel quartiere di Shishli) circa trecento fedeli celebrano lo shabbat, quando un’altro piccolo camion, forse fermo in un parcheggio, salta in aria. Nei primi bilanci si parlava di almeno venti morti e oltre duecentocinquanta feriti. [13], [14]

“Ansa” 15/11/2003 e “Haaretz.com” 15/11/2003

 

Yitzak Haleva, rabbino capo di Beith Israel (suo figlio è stato ferito nell’esplosione della sinagoga Neve Shalom) ha raccontato a Radio Israele che le autorità gli avevano chiesto di non uscire di casa e che tutta la comunità ebraica ha vissuto gli ultimi giorni nel terrore d’un attacco imminente.

Agi” 15/11/2003

 

Il Fronte islamico dei combattenti del Grande Oriente è il gruppo che ha immediatamente rivendicato l’attacco, ma secondo la polizia è una bufala. Fondato nel 1985 e attivo in particolare a Istanbul dal 1993, ha l’obiettivo di fondare uno stato islamico in Turchia. È considerato “in sonno”, per non dire distrutto, dal 1998, quando fu arrestato e condannato all’ergastolo il suo capo, Salih Mirzabeyoglu. Obiettivi privilegiati del gruppo erano intellettuali, artisti e difensori della laicità dello stato, oltre a persone ritenute contaminate da valori e “scadenze” dell’occidente (particolarmente odiato il capodanno)

“Ansa” 15/11/2003

 

È stata Al Qaida. L’ha fatto capire, senza pronunciare mai il nome dell’organizzazione di Osama bin Laden, il ministro degli Esteri turco, Abdullah Gul: «Sono attentati kamikaze. Dietro vedo la mano del terrorismo internazionale ». Il premier Erdogan ha interrotto il suo viaggio a Cipro per tornare subito in patria: «È un crimine contro l’umanità».

“Ansa” 15/11/2003

 

La sinagoga di Neve Shalom, la più grande di Istanbul, fu attaccata il settembre 1986 da un commando di palestinesi, che entrarono sparando all’impazzata sui fedeli raccolti in preghiera: venti morti. Le rivendicazioni, quattro o cinque, non furono considerate attentabili e oggi, a 17 anni di distanza, l’unica pista ancora aperta porta al gruppo di Abu Nidal. [13] Il più recente attentato a una sinagoga fuori da Israele fu l’11 aprile 2002: un camion cisterna esplose davanti a quella di Djerba, inTunisia, provocando 19 morti (14 tedeschi, tre tunisini, due francesi).L’attentato fu rivendicato da Al Qaida. L’8 maggio di quest’anno, invece, tre attentati devastarono Casablanca, in Marocco: i bersagli erano ristoranti e alberghi frequentati dalla comunità ebraica e da turisti.

“Repubblica.it” 15/11/2003

  

I paesi musulmani (dal ’96 esiste un accordo di cooperazione militare) e il suo popolo non è mai stato antisemita. L’attentato del 1986 traumatizzò la comunità ebraica turca, che non aveva mai avuto problemi nei 500 di vita dell’Impero Ottomano (la maggior parte era arrivata dalla Spagna nel XVI secolo per sfuggire all’inquisizione). Durante il nazismo e la seconda guerra mondiale, Ankara diede rifugio a migliaia di profughi ebrei e il padre della patria Ataturk invitò molti professori, perseguitati in Germania, a insegnare nelle università di Istanbul e Ankara. Attualmente gli ebrei di Turchia, i musevi, sono 35mila.

 “Ansa” 15/11/2003

 

Qualcuno potrebbe pensare a un folle anniversario. Quasi un anno fa, il 28 novembre 2002, un doppio attacco anti-israeliano fu condotto a Mombasa, in Kenya. Quindici persone morirono davanti a un albergo uccise da un’autobomba guidata da un kamikaze; poco dopo un aereo passeggeri della compagnia israeliana Arkya riuscì a schivare un razzo lanciato al momento del decollo dall’aereoporto africano.

“Ansa” 15/11/2003

 

Altri mandati linguistici. La prima reazione israeliana è stata del ministro degli Esteri, Silvan Shalom: «Il trend anti-israeliano» che si avverte in Europa «incoraggia il terrorismo verbale, cui segue il terrorismo fisico. Come è successo di Istanbul». Una speranza: «Speriamo che la comunità internazionale non si accontenti di condannare quanto accaduto a Istanbul, ma intervenga con forza contro il terrorismo, che è un fenomeno globale».

“JerusalemPost.com” 15/11/200

  

Intanto in Europa. Nella notte di venerdì, a Gagny, vicino Parigi, è stato incendiato un liceo ebraico. Un atto di «evidente connotazione razzista e antisemita», secondo il ministro dell’Interno, Nicolas Sarkozi.

“Repubblica.it” 15/11/2003

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