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Ecco il mondo di Kamala

Cuochi e avvocati, l'inner circle californiano della vicepresidente in pectore

Michele Masneri

Kamala Harris è nata a Oakland, sobborgo di San Francisco: luoghi che un tempo evocavano trasgressione e criminalità, e ora soprattutto cucina biologica e mostre d'arte

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 “Una donna nera, figlia di immigrati, che diventa vicepresidente, è incredibile”, dice London Breed, a sua volta prima donna sindaco nero di San Francisco. Kamala Harris è “figlia di Oakland”, precisa il sindaco della cittadina natale della vicepresidente eletta americana; cittadina un tempo ghetto pericoloso e oscuro, e oggi invece meta in via di gentrificazione per chi non si può permettere gli affitti di San Francisco. Sede del secondo aeroporto della città, quello dei low cost, negli anni giusti ha avuto perfino un sindaco delle Pantere Nere. “In quei posti è come stare all’inferno”, ha detto Trump in campagna elettorale, evocando vecchi fantasmi di quando Oakland era sinonimo di Marilyn Manson e droghe, e non come oggi epicentro di ristorantini organici e atelier d’artista; in scia alla confinante Berkeley, già culla del movimento studentesco e oggi “Gourmet ghetto” di ristoranti fondamentali. Il primo è stato “Chez Panisse”, fondato negli anni Settanta da Alice Waters, leggendaria attivista culinaria, che preconizza un orto in ogni scuola americana. Grande amica della Harris: adesso riattiveranno anche l’orto biologico alla Casa Bianca, già ideato dalla Waters per gli Obama (e prima rifiutato dai Clinton). Figlia di Oakland o dell’intera America nuova, la vicepresidente in pectore Harris è più che altro figlia della intera Bay Area. C’è tutto: la nascita cosmopolita coi genitori cervelloni tra le due leggendarie università di Stanford e Berkeley (Shyamala Gopalan, ricercatrice indiana, e Donald Harris, un economista della Giamaica). C’è il suo essere “nera” ma non afroamericana (la comunità asian-american, lì, è molto più numerosa). La passione per i diritti civili; e anche il mistone pubblico-privato, che è il segreto della Silicon Valley con la sua commistione tra startup e università. Mistone che potrebbe causarle qualche fastidio: il cognato di Kamala, Tony West, roccioso avvocato già ragazzo prodigio, marito della sorella e figura-guida Maya incontrata a Stanford, è stato prima numero tre del Dipartimento della Giustizia, voluto da Obama, e adesso è capo dell’ufficio legale di Uber, in quella migrazione di consulenti politici che è avvenuta dopo la sconfitta di Hillary Clinton, portando le migliori menti democratiche a fare le relazioni istituzionali nelle varie Airbnb, Facebook e Twitter.  

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 “Una donna nera, figlia di immigrati, che diventa vicepresidente, è incredibile”, dice London Breed, a sua volta prima donna sindaco nero di San Francisco. Kamala Harris è “figlia di Oakland”, precisa il sindaco della cittadina natale della vicepresidente eletta americana; cittadina un tempo ghetto pericoloso e oscuro, e oggi invece meta in via di gentrificazione per chi non si può permettere gli affitti di San Francisco. Sede del secondo aeroporto della città, quello dei low cost, negli anni giusti ha avuto perfino un sindaco delle Pantere Nere. “In quei posti è come stare all’inferno”, ha detto Trump in campagna elettorale, evocando vecchi fantasmi di quando Oakland era sinonimo di Marilyn Manson e droghe, e non come oggi epicentro di ristorantini organici e atelier d’artista; in scia alla confinante Berkeley, già culla del movimento studentesco e oggi “Gourmet ghetto” di ristoranti fondamentali. Il primo è stato “Chez Panisse”, fondato negli anni Settanta da Alice Waters, leggendaria attivista culinaria, che preconizza un orto in ogni scuola americana. Grande amica della Harris: adesso riattiveranno anche l’orto biologico alla Casa Bianca, già ideato dalla Waters per gli Obama (e prima rifiutato dai Clinton). Figlia di Oakland o dell’intera America nuova, la vicepresidente in pectore Harris è più che altro figlia della intera Bay Area. C’è tutto: la nascita cosmopolita coi genitori cervelloni tra le due leggendarie università di Stanford e Berkeley (Shyamala Gopalan, ricercatrice indiana, e Donald Harris, un economista della Giamaica). C’è il suo essere “nera” ma non afroamericana (la comunità asian-american, lì, è molto più numerosa). La passione per i diritti civili; e anche il mistone pubblico-privato, che è il segreto della Silicon Valley con la sua commistione tra startup e università. Mistone che potrebbe causarle qualche fastidio: il cognato di Kamala, Tony West, roccioso avvocato già ragazzo prodigio, marito della sorella e figura-guida Maya incontrata a Stanford, è stato prima numero tre del Dipartimento della Giustizia, voluto da Obama, e adesso è capo dell’ufficio legale di Uber, in quella migrazione di consulenti politici che è avvenuta dopo la sconfitta di Hillary Clinton, portando le migliori menti democratiche a fare le relazioni istituzionali nelle varie Airbnb, Facebook e Twitter.  

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Harris e il cognato si trovano al momento su due fronti opposti: la sicurezza economica dei lavoratori è uno dei punti chiave della campagna elettorale dei Democratici, ma proprio con l’elezione presidenziale, in California è passato anche un referendum che ha bocciato una legge dell’anno scorso che considerava gli autisti di Uber, così come i rider, lavoratori dipendenti (è stato il più costoso referendum nella storia della California, e avrebbe, in caso contrario, portato un grosso colpo a queste aziende siliconvalliche). Harris era schierata dall’altra parte.

Ma a parte i parenti, la futura vicepresidente è molto inserita anche nella borghesia cittadina, quella che abita nei quartieri di Nob Hill (detta Snob Hill) dei palazzi hitchcockiani, o nel Mission district ex sgarrupato. Borghesia peculiare e variegata: ci sono vecchi blasoni e nomi sconosciuti ma liquidissimi, e poi founder e manager bilionari che incidono sulle nostre vite; uno sponsor delle sue campagne elettorali è Sheryl Sandberg, capa operativa di Facebook, ma questo non le ha impedito di essere anche molto dura durante le audizioni di Zuckerberg al Senato (era anche una dei pochi senatori che capissero vagamente di cosa si stesse parlando). Da procuratrice della città e poi dello Stato Harris, molto dura su altri fronti, non si è però mai mossa contro “big tech”, e poi da senatrice non ha certo sostenuto, come altri, la necessità di spezzettare i “mostri” della Silicon Valley. Altri suoi fan sono Marc Benioff, proprietario del colosso Salesforce (che ha costruito il più alto grattacielo di San Francisco) e salvatore di Time. E Lauren Powell Jobs, vedova del fondatore della Apple. E’ stata anche al matrimonio di Sean Parker.

Negli anni Novanta Harris pare che abbia  avuto una storia con Willie Brown, leggendario sindaco sanfranciscano. E’ anche molto amica dei Newsom, famigliona ricca e influente della California (sono gli storici amministratori di casa Getty, i cui eredi del ramo californiano sono pure amici di Harris). L’attuale governatore, Gavin Newsom, belloccione con grande futuro politico, è poi un amico con cui Harris trascorre le vacanze. In un vecchio profilo sul magazine “San Francisco”, qualcuno scrisse che tutto questo stare in mezzo ai ricchi e potenti derivasse a Harris dagli antenati bramini (il nonno era infatti un diplomatico e politico in India). E’ uno di quei magazine patinati pieno di inserzioni di dentisti e chirurghi plastici, una specie di Parioli Pocket californiano.

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